Innalzamento del Mediterraneo: quali impatti su acqua e coste? Lo abbiamo chiesto a Grammenos Mastrojeni, tra minacce e soluzioni sostenibili.
Stefano Liberti, giornalista. Possiamo decidere, come comunità, di tutelare il Mediterraneo invece di sfruttarlo
Il giornalista Stefano Liberti ripercorre le storie raccolte nelle pagine di Tropico Mediterraneo, il suo ultimo libro edito da Laterza.
Ci sono i dati scientifici, e sono incontrovertibili. Ci dicono che il mar Mediterraneo è un hotspot climatico che si riscalda a una velocità venti volte superiore a quella degli oceani, cosa che incide sulla circolazione delle correnti e su flora e fauna (il granchio blu è la specie aliena invasiva che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere, ma non è certo l’unica). Poi ci sono i lavori come quelli di Stefano Liberti, giornalista e scrittore che va a cercare il significato di quei dati scientifici nelle storie e nelle voci di chi ne vive le conseguenze sulla propria pelle. Tropico Mediterraneo, il suo ultimo libro edito da Laterza, è un viaggio in quello che anticamente chiamavamo Mare nostrum, ma che siamo stati proprio noi a trasfigurare in modo irreversibile. Le persone incontrate nelle tappe di questo tragitto, da Gibilterra a Cipro, dalle isole Kerkennah in Tunisia al delta del Po, descrivono la propria realtà quotidiana con parole dure, talvolta disilluse. Ma, in controluce, si intravede l’opportunità di lavorare insieme per dare un futuro al nostro mare. Inevitabilmente diverso, ma che sia pur sempre un futuro. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il granchio blu, da problema a risorsa per le isole Kerkennah
Tra i luoghi che Stefano Liberti cita più spesso durante la nostra conversazione ci sono le isole Kerkennah, nel sud della Tunisia. Scogli che sbucano da un mar Mediterraneo che sembra inglobarle e che dunque, seppure a latitudini diverse, ricordano gli atolli del Pacifico che rischiano di sparire per l’innalzamento del livello dei mari. Le Kerkennah sono da sempre considerate come un vivaio dove si riproducono orate, cefali, cernie, polpi, vongole, gamberetti, scampi. Tant’è che da secoli è in vigore un sistema di pesca chiamato sharfiya: ognuno ha diritto al suo appezzamento di mare, dove lascia le reti da svuotare due volte al giorno. Ma non nel trimestre estivo, perché gli stock ittici ne hanno bisogno per rigenerarsi.
“La cosa incredibile è che quel metodo di pesca ancestrale, che ha permesso il sostentamento di generazioni e generazioni, oggi non funziona più”, spiega Liberti. Non funziona più perché le acque sono troppo calde, l’inquinamento ha distrutto le praterie di Posidonia oceanica e dunque ha campo libero quello che i pescatori locali chiamano daesh, meglio noto per noi come granchio blu, che fa piazza pulita di tutte le altre specie. “I pescatori sono stati i primi a vedere questi cambiamenti ed esserne danneggiati”, racconta Liberti. A tal punto che finiscono per arrabattarsi come possono, anche abbandonando la pesca artigianale per dedicarsi allo strascico sotto costa (il cosiddetto kiss). Un metodo illegale, perché le reti raschiano i fondali e strappano la posidonia. È un circolo vizioso: il pesce è troppo poco quindi, pur di sopravvivere, si fa ricorso a tecniche aggressive che impoveriscono ancor più il mare.
I due grandi temi: l’alleanza e il rispetto dei limiti della natura
Così non può funzionare, evidentemente. “Ma nel momento in cui c’è stata una strategia governativa in cui biologi, scienziati e pescatori sono andati alla ricerca di una soluzione, favorendo investimenti nazionali e internazionali e mettendoci dei sussidi, allora si è venuta a creare una filiera di sfruttamento del granchio blu, con impianti di lavorazione che lo esportano anche all’estero”, sottolinea Liberti. “Non tutti i pescatori ne sono contenti, ma alcuni sì. C’è chi aveva venduto la barca e l’ha ricomprata. Anzi, loro stessi chiedono di introdurre periodi di fermo biologico, perché il granchio blu è una risorsa che non deve finire”. Insomma, “è umano provare a minimizzare problemi che ci sovrastano, come accade anche con la crisi climatica. Ma l’azione collettiva può cambiare le cose”.
L’altro grande tema, insieme a quello dell’alleanza, è il limite. “Il mar Mediterraneo è soggetto alla crisi climatica che accelera altre crisi contestuali”, rimarca l’autore. Crisi legate allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, all’inquinamento, al collasso degli ecosistemi. “L’aver oltrepassato alcuni limiti ha creato una tempesta perfetta”, continua. “I pescatori sono per definizione sentinelle ambientali, ma si sono trovati a raschiare il fondo del barile, a distruggere le proprie stesse risorse. Nel momento in cui sono sostenuti, possono accettare le restrizioni e addirittura chiederne di nuove, perché si rendono conto di trarne maggiore giovamento. Allora sì che tornano a introiettare il concetto di limite”. Un esempio di gestione sostenibile, descritto come “luminoso”, è quello della fossa di Pomo, in Croazia: l’unica zona di restrizione assoluta della pesca che funziona davvero, anche perché i pescatori hanno tutto l’interesse a vigilare sul suo rispetto, visto che le aree limitrofe diventano molto più pescose e redditizie.
Certo, non è così banale raggiungere un risultato simile. “La politica deve riunire i portatori di interesse e fare dei compromessi. Sono processi lunghi; per la fossa di Pomo ci sono voluti anni. Ma il processo partecipativo funziona di più rispetto all’imposizione di obiettivi dall’alto”, chiosa Liberti. “Quello che ho visto, girando il bacino del Mediterraneo, è una disattenzione della politica verso il mare. Noi stessi lo vediamo come qualcosa di distante, pur abitando in una penisola. Questo governo ha istituito un ministero del Mare, e ha fatto bene, e ha pubblicato un piano per il mare che però trovo troppo sbilanciato verso lo sfruttamento delle risorse: terre rare, idrocarburi, stock ittici. Ma noi non possiamo più permetterci di estrarre risorse da un mare che ne è povero: dobbiamo cambiare approccio ascoltando chi il mare lo vive, come biologi e pescatori”.
Un prisma attraverso cui leggere il futuro del Mediterraneo: il mar Menor
Ma c’è luogo che, forse più di ogni altro, incarna tanto i problemi del nostro mare quanto le possibili soluzioni. E, paradossalmente, in termini geografici non fa nemmeno parte del mar Mediterraneo. Stiamo parlando del mar Menor, la più vasta laguna salata d’Europa. Si trova in Spagna, nella regione di Murcia, ed è diviso dal mare da una striscia di terra lunga e stretta chiamata La Manga. Questo ecosistema nel 2016 è stato oggetto di un vero e proprio collasso, dovuto alla proliferazione di un’alga invasiva che ha trasformato l’acqua in un intruglio verde maleodorante, facendo morire per asfissia migliaia di pesci e crostacei. Un fenomeno che non è frutto del caso, tutt’altro. Si è scatenato in un territorio che è stato depredato al tempo stesso dalla speculazione edilizia e dall’agricoltura, entrambe sviluppatesi senza regole né freni.
Ma, proprio quando si è toccato il fondo, è scattato qualcosa. Una mobilitazione civile imponente, il cui simbolo è la suggestiva catena umana di 70mila persone che nel 2021 si sono prese per mano sulle rive coperte di pesci morti. Proprio un’iniziativa popolare ha fatto sì che il parlamento spagnolo concedesse al mar Menor la personalità giuridica: un caso che è stato il primo in Europa e si deve anche alla dedizione di Teresa Vicente, insignita del Global environmental prize nel 2024.
“Qui si può vedere il futuro del mar Mediterraneo: o andrà incontro al collasso, oppure potremo decidere, come comunità, che la sua tutela conta di più rispetto allo sfruttamento intensivo”, commenta Stefano Liberti. “Le comunità che ho visto attorno al Mediterraneo sono molto settoriali, mentre lì c’è stato un enorme afflato civile”. Da qui la scelta di tenere questa storia per la fine del volume. “Il mio obiettivo non è presentare in termini catastrofici la questione, perché il catastrofismo immobilizza”, conclude Liberti. “Ovviamente l’acqua non si raffredderà e le specie invasive non se ne andranno, ma possiamo comunque mettere in campo strategie di adattamento, perché il mare si rigenera in fretta. Ho cercato di raccontare le luci di speranza, perché possono spingere a un’azione civile collettiva”.
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