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Stella Jean, fashion designer. La nuova moda e la nuova umanità avranno approccio e tempi diversi
Il calendario Lavazza 2021 chiede a fotografi, musicisti, designer, poeti e architetti di dare un’interpretazione al concetto di “nuova umanità”. L’intervista alla fashion designer Stella Jean, ambassador del progetto.
C’è l’uomo al centro del nuovo calendario Lavazza. Dopo sei anni dedicati alla sostenibilità ambientale, il focus si sposta sul nodo centrale che la pandemia ci ha mostrato: la sostenibilità sociale. Il progetto artistico per il 2021, ideato e realizzato sotto la direzione creativa dell’agenzia Armando Testa, indaga il concetto di una “nuova umanità”, con l’obiettivo di stimolare una riflessione attorno ai valori fondanti della società, cioè solidarietà, inclusione, tolleranza e sostenibilità. The new humanity 2021: si chiama così il calendario che ci accompagnerà per tutto l’anno prossimo e che parla a ognuno di noi attraverso il linguaggio dell’arte, con i contributi di esponenti del mondo della fotografia, della musica, ma anche della poesia, del design, dell’architettura e dell’impegno sociale.
L’intervista a Stella Jean
Il calendario Lavazza 2021 è stato concepito in uno dei momenti più duri della pandemia, a marzo 2020, e si compone di tredici fotografie che restituiscono la visione di ciò che significa “umanità” per Christy Lee Rogers, Denis Rouvre, Carolyn Drake, Steve McCurry, Charlie Davoli, Ami Vitale, Martha Cooper, David LaChapelle, Martin Schoeller, Joey L., Eugenio Recuenco, Simone Bramante e Toiletpaper. Hanno tutti lavorato da casa o da dove si trovavano, interrogandosi sull’essenza dell’uomo e dell’essere comunità, e ci hanno restituito tredici immagini che rappresentano le loro riflessioni.
Ad accompagnare il calendario c’è anche un magazine, per la prima volta a disposizione del pubblico di tutto il mondo, in edizione limitata, in cui sei ambassador raccontano con parole, disegni, brani, la loro visione di sostenibilità sociale, per stimolare una riflessione ancora più profonda. Ci sono la fashion designer Stella Jean, l’architetto Carlo Ratti, lo scrittore Alessandro Baricco, l’attrice Kiera Chaplin, la cantautrice Patti Smith e Inger Ashing, amministratore delegato di Save The Children International.
Abbiamo intervistato Stella Jean, la stilista italo-haitiana che ha fatto del multiculturalismo, del mosaico di mondi, della sostenibilità e della tracciabilità etica nella filiera della moda i suoi cavalli di battaglia.
Stella Jean, come ha interpretato il concetto di new humanity, cardine del nuovo calendario Lavazza?
C’è un elemento simbolo che marca il passaggio tra l’era pre e post Covid-19 e al contempo segna continuità: la mascherina. È diventata la nostra uniforme quotidiana. Penso che sia giunto il momento di mettere la mascherina e di abbassare la maschera, perché questo momento paradossalmente ce lo consente. Spesso abbiamo detto: “Speriamo che tutto torni ad essere come prima”. Io spero vivamente di no perché le cose non stavano andando bene, se mai stavano andando sempre più velocemente. Parlo del mio settore, cioè quello della moda: tutto era più “routinante”, il rapporto con la moda stessa era diventato bulimico ed era diventato un sistema trita-tutto. Calendari, numeri, sempre più collezioni, sempre più pezzi e sempre più metodi poco sostenibili per convincere le persone a spendere, a comprare, a far parte di questo meccanismo consumistico. Ecco, ora stiamo ricominciando a respirare.
Questo vedo in una nuova umanità: un altro tempo, un altro approccio, un altro respiro. Io personalmente sto imparando a respirare di nuovo proprio con chi ho cominciato questo cammino, cioè le mie artigiane, che hanno deciso di non fermarsi. Il secondo giorno di lockdown le ho chiamate tutte e ho chiesto loro di riprendere a lavorare. La cosa che mi ha commosso è che tutte immediatamente hanno detto di sì, pur non avendo garanzia alcuna di vendere o di fare numeri. Fiducia totale a fondo perduto.
Come si può applicare una nuova umanità al mondo della moda?
Un grande passo sarebbe già solo mantenere la metà delle bellissime promesse fatte durante il primo lockdown, in cui c’è stata una specie di conversione mistica sincronizzata, però forse più legata ai tempi social che non a quelli umani. Sono state dette cose bellissime, sono stati espressi concetti fondati e ragionevoli, però poi non so cosa sia successo. La fine del lockdown e la ripresa dei nostri ritmi sembra aver cancellato molte di queste intenzioni. Ecco, riprenderle invece, rimanere coerenti con quello che si era detto, ricreare questo rapporto più sano. Bisogna accettare di produrre meno, che significa guadagnare meno. Meno avidità, meno ingordigia, meno in generale. Quel meno sarà sicuramente migliore, farà sicuramente stare meglio tutti quanti. Noi vendiamo sogni, creatività e trasmettiamo questa idea al mondo. Quante volte questi sogni e questa creatività sono alimentati dalla miseria stessa, dunque dal loro opposto. Dovremmo fare un passo indietro tutti quanti, redistribuire questi sogni e rimanere più coerenti. Vediamo bellissime campagne pubblicitarie, in cui il messaggio che passa spesso non coincide con quello che succede dietro le quinte. Inclusione e diversity sono due concetti sempre più spinti all’estremo, poi però non c’è coerenza con quella che è la forza lavoro.
L’inclusione è uno dei valori fondanti della società che il calendario Lavazza 2021 vuole mettere in luce, insieme a solidarietà, tolleranza e sostenibilità. A che punto siamo in Italia su questi temi?
Nella moda essenza e apparenza non sono neanche lontane parenti. Il percorso è veramente lungo. Stiamo un po’ scimmiottando – nonostante questo atteggiamento non appartenga agli italiani e al Made in Italy, che è sempre stato faro culturale nel mondo – opportunisticamente ciò che succede negli Stati Uniti, cercando di fare bella figura. Non basta promuovere la diversity e la multiculturalità, dobbiamo accettare di esserlo e orgogliosamente sentirci un crogiolo di razze come, di fatto, è quella italiana. Dovremmo accettare che la chimera purista non esiste, noi italiani per primi siamo il bellissimo risultato della multiculturalità, che a questo punto nel nostro Paese è chiaramente e fortunatamente irreversibile.
Da dove deriva questa scarsa accettazione della multiculturalità?
Troppi fantasmi e troppe ferite che hanno bisogno di essere riaperte per essere curate. Dobbiamo ripassare e ricordare ciò che siamo, ciò che è stato. Noi meglio di molti altri sappiamo cosa significa la migrazione. Ricordiamoci che in molti locali e ristoranti l’ingresso era vietato agli ebrei, ai cani, ai neri e anche agli italiani. Chi meglio di noi può capire. Non siamo una razza pura, le razze pure non esistono, siamo splendidamente misti, siamo tutti dei métisse.
In che modo la moda può contribuire?
Anziché affannarsi a non sembrare razzista, dovrebbe smettere di esserlo per davvero. Con un collettivo di designer e creativi del Made in Italy, con vari background culturali, durante l’ultima settimana della moda, siamo riusciti ad avviare una campagna, grazie anche alla Camera della Moda, in cui abbiamo promosso alcuni talenti del Made in Italy non bianchi. Anche per iniziare a contrastare questo concetto per cui essere italiani, essere parte del Made in Italy significa essere bianchi. Non è così. Questi talenti e designer che abbiamo presentato fanno tutt’altro nella vita perché nessuno ha ancora dato loro un’opportunità. So che il momento è difficile ma comunque è necessario. Questo significherebbe anche dimostrare quanto il Made in Italy sia un’eccellenza non solo attraverso le collezioni ma anche e soprattutto attraverso le persone.
Qual è il sentimento nei confronti della sostenibilità all’interno della Camera della Moda?
In Italia c’è un grande impegno di tutte le aziende per allinearsi a quelli che sono degli standard di sostenibilità. Ma ricordiamoci che garantire che non ci siano coloranti o allergeni, e poi non pensare alla vita e alle mani che hanno fatto quel capo è un boomerang. Io con il Laboratorio delle Nazioni inizio proprio da lì: dalle persone.
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