
Nelle scuole messicane è entrato in vigore il divieto governativo di cibo spazzatura per contrastare l’emergenza obesità nei bambini.
La storia della pizza ha origini antichissime, anche se è solo nell’ultimo secolo che il sapido disco di pasta, mozzarella e pomodoro s’è involato nell’olimpo gastronomico mondiale. L’usanza di collocare gli alimenti sopra un piatto di farina impastata e cotta è diffusa ovunque e in tutte le epoche. Vediamo come, in Italia, man mano prende forma
La storia della pizza ha origini antichissime, anche se è solo nell’ultimo secolo che il sapido disco di pasta, mozzarella e pomodoro s’è involato nell’olimpo gastronomico mondiale. L’usanza di collocare gli alimenti sopra un piatto di farina impastata e cotta è diffusa ovunque e in tutte le epoche. Vediamo come, in Italia, man mano prende forma per diventare il piatto simbolo dell’italianità nel mondo, la cui arte è appena stata riconosciuta patrimonio dell’umanità Unesco.
Nasce l’agricoltura. Diecimila anni fa nel Vicino Oriente gli uomini cominciano a coltivare specie vegetali selezionate, farro e piccolo farro, orzo, legumi e lino. La cottura su pietra di polente di cereali tostati e macinati o di pane azzimo risale al Neolitico inferiore.
Il ruolo degli Egizi nella vicenda della pizza è quello degli scopritori del lievito. Con la lievitazione gli impasti di cereali schiacciati o macinati diventano, dopo la cottura, morbidi, leggeri, più gustosi e digeribili. Si diffonde il pane.
L’attuale frumento deriva da quello romano attraverso selezioni e incroci fra i diversi tipi di farro allora conosciuti. La parola “farina” deriva da “far”, nome latino del farro. I contadini impastano la farina di chicchi di frumento macinati con acqua, erbe aromatiche e sale, e poi pongono questa focaccia rotonda a cuocere sul focolare, al calore della cenere. I romani a volte usano dischi di pane a mo’ di piatti per contenere pietanze sugose.
Arriva in Italia con i Longobardi un vocabolo del germanico d’Italia (gotico, longobardo): “bizzo-pizzo”, dal tedesco “bizzen”. Collegato all’inglese “bite” e “bit”, significa morso. Da morso a boccone, a pezzo di pane, fino a focaccia, è un percorso logico che i linguisti chiamano un comune processo di traslato metonimico, una sineddoche a catena.
Nel latino medievale del Codex cajetanus di Gaeta viene per la prima volta chiamata “piza” una focaccia. È in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano. Il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che oltre all’affitto ogni anno erano dovute ai proprietari “duodecim pizze” a Natale e altrettante a Pasqua. Verso il Mille compare anche il termine picea, non sappiamo se in alternativa o per indicare una preparazione diversa, nel senso di avere già il disco di pasta coperto da ingredienti colorati e saporosi prima di mandarlo in forno. Però il termine pizza indica ancora oggi nel sud d’Italia non solo la classica pizza, la schiacciata condita e mandata in forno, ma anche molti tipi di dischi di pasta ripieni e fritti, focacce ripiene o preparazioni simili. Si parla di pizze di nuovo nel 1195 in un documento di Penne in Abruzzo.
Nel latino medievale della Curia romana si legge “in panatteria, scilicet guindalis, pizis, caseo, lignis” e in un testo dell’Aquila del secolo XIV “pissas quatuor et fladonem unum” (il fladone è un tipico prodotto da forno abruzzese e molisano). Una “piczas casey, pizzas de pane” compare in un documento di Celano del 1387-88. Fioccano attestazioni da mezza Italia, fino alla “piza panis” nel cancelleresco di Pesaro del 1531.
Nella sua Descrizione dei luoghi antichi di Napoli, il poeta e saggista Benedetto Di Falco dice che la “focaccia, in Napoletano è detta pizza”.
Il cuoco personale di papa Pio V, Bartolomeo Scappi, nella sua Opera del 1570 cita per la seconda volta la pizza, ma è un dolce fatto pestando in un mortaio mandorle, pinoli, datteri e fichi freschi, uva passa, unendo acqua di rose, rossi d’uovo, zucchero, cannella e mosto d’uva. Il tutto andava poi tirato in una sfoglia da infornare alta circa tre centimetri. Comunque, è il primo a legare la pizza a Napoli e si tratta pur sempre di una base su cui mettere sopra qualcos’altro. “In essa pizza si può mettere d’ogni sorte condite” precisa il cuoco papale.
Nel Seicento esce un’operetta deliziosa napoletana di Giovan Battista Basile, il Cunto de li Cunti, cioè il racconto dei racconti, serie di storie legate l’una all’altra a catena. Ce n’è una intitolata “Le due pizzelle”, ma non si capisce esattamente che cosa siano, salvo il fatto che almeno una è fatta con un disco di pasta ripiegato su un ripieno.
Recita il Cunto de li Cunti: “Fra tanto, partuto lo marito, essa, ch’era cossì cannaruta come potrona, non attese a d’autro c’a pigliare mappate de farina ed agliare d’uoglio ed a fare zeppole e pizze fritte”
E ancora nel racconto “le due pizzelle”: “Ma se me vuoi bene, mamma mia, dammi na pizzella, ca me la voglio magnare a chell’acqua fresca” – e “da dintro no panaro pigliaie na bella pizzella, che lo iuorno ‘nante avea fatto lo furno de pane, e la dette a Marziella”.
La tradizionale schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso continua a incontrare il favore delle popolazioni del Meridione, l’olio d’oliva prende il posto dello strutto, si aggiunge il formaggio, si ritrovano le erbe aromatiche. Agli albori del XVII secolo fa la sua apparizione una ricetta dal profumo di basilico, la pizza “alla Mastunicola” (in dialetto, del maestro Nicola). Da qui in poi il basilico assurge a ingrediente basilare e privilegiato della pizza.
È solo nella seconda metà del ‘700 che si sparge infine in cucina in Italia l’uso di una bacca esotica, importata dalle Americhe: il pomodoro. Inizialmente, era solo una pianta decorativa.
Bisogna dunque aspettare oltre al Settecento per veder comparire la pizza col pomodoro.
Le prime notizie riguardo alla pizza napoletana vengono fatte risalire a metà Settecento. Vincenzo Corrado è cuoco, filosofo e letterato italiano. Uomo di grande cultura, è soprattutto un grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il ‘700 e l’800 nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. Scrive un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli, Il cuoco galante, in cui osserva come fosse già costume del popolo condire la pizza e i maccheroni con il pomodoro.
La pizza è popolarissima presso il popolino, ma la disdegnano baroni, principi e regnanti. Fino all’arrivo di Ferdinando I di Borbone che, patito delle osterie dove andava di nascosto, ama in maniera smisurata la pizza. Tanto che aveva tentato più volte di introdurla nei menù di corte. Così decide, per farla assaggiare alla consorte Maria Carolina e alle dame di corte, di farla cuocere nei forni di Capodimonte, vicino a quelli da cui escono le preziosissime ceramiche. Assume per questo il miglior pizzaiolo della città, Antonio Testa, che diviene monzù (chef del regno).
La prima ricetta della pizza come la conosciamo oggi è probabilmente riportata in un trattato dato alle stampe a Napoli nel 1858, che descrive il modo in cui in quegli anni si prepara la “vera pizza napoletana”. Quando la città era ancora la capitale del regno delle Due Sicilie, Francesco De Bourcard in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti scrive:
Prendete un pezzo di pasta, allargatelo, distendetelo, col mattarello e percuotendolo con le palme delle mani conditelo con olio o strutto, cuocetelo al forno, mangiatelo e saprete cosa è la pizza.
Bourcard arriva a citare una sorta di pizza Margherita ante litteram, con mozzarella e basilico: “Altre (pizze) sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone di sopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella”. Il pomodoro è opzionale: “talora si fa uso”, scrive l’autore napoletano di origine svizzera. Tra l’altro, per il condimento si può usare “quel che vi viene in testa”.
Ecco qui il pizzaiolo, “chi fa e vende pizze, a Napoli” preciserà puntigliosamente il dizionario Zingaretti del 1922. Ce lo presenta la scrittrice Matilde Serao, la prima donna fondatrice di un giornale in Italia, tra le testimonianze raccolte in Napoli d’allora scritte con Edoardo Scarfoglio: “Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano”. Sempre qui, la Serao racconta del primo tentativo della pizza di espatriare. Fallito!
Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma… Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana.
La leggenda più diffusa sulle origini della pizza margherita vuole che nel giugno 1889 sia stato il cuoco Raffaele Esposito, proprietario della pizzeria Brandi, a proporre su invito dei funzionari regi il delizioso piatto alla regina d’Italia Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. La preferita della regina pare sia stata la pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico, anche per rappresentare i colori della bandiera italiana.
Quattro i tipi di pizze che vengono cucinate in quell’occasione: la bianca con strutto, basilico, pecorino e pepe cioè la Mastu Nicola, la pomodoro, alici, aglio, origano e olio, la pomodoro, mozzarella, basilico, olio e pecorino e il calzone fritto con ricotta e cicoli. Le prime tre vengono cotte nel forno del casamento Torre, una casetta di campagna, all’interno dell’agrumeto personale dei reali nell’allora reggia – oggi museo con bosco.
La classica opera di Pellegrino Artusi del 1891, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, riporta tre tipi di pizza, ma tutti e tre sono dolci.
“A Federico II, napoletano in tutto, piacevano quei cibi grossolani, dei quali i napoletani son ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze” scrive Raffaele De Cesare nel saggio storico La fine di un regno.
Nel Dizionario Moderno edito da Hoepli nel 1905, nota guida alla selva dei neologismi di allora, Alfredo Panzini così si esprime: “Pizza: nome volgare di una vivanda napoletana popolarissima. Consiste in una specie di sfoglia o stiacciata di farina lievitata moltissimo. Cosparsa di pomidoro, formaggio fresco, alici ecc., a piacimento del cliente, mettesi al forno dove gonfia e cuoce lì per lì”.
Nel 1907 il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana suggerisce che pizza provenga in realtà da “pinza” (dal latino ‘pinsere’, schiacciare). Klein suggerisce invece un prestito dal greco medievale ‘pita’, torta (parente anche dell’aggettivo latino piceus). Una preparazione in qualche modo simile sopravvive in Veneto e Friuli, dove la pinza (l’etimologia della parola è la stessa, sempre dal greco pita) è un dolce di farina e frutta secca, piuttosto basso e cucinato in una teglia da forno.
La collezione di ricette regionali della gastronoma Ada Boni Il talismano della felicità include la ricetta di pizza che contempla esattamente gli ingredienti oggi canonici, la mozzarella e il pomodoro.
Nel mese di maggio, quasi tutti i vecchi pizzaioli napoletani procedono alla stesura di un breve disciplinare firmato da tutti e registrato con atto ufficiale dal notaio Antonio Carannante di Napoli.
Il Parlamento italiano stabilisce con precisione i tipi di farina, di lievito, di sale e di pomodori ammissibili per poter definire autenticamente una pizza Margherita. Si dichiara anche che la pasta va battuta con le mani e che la mozzarella deve provenire esclusivamente dalle zone geografiche tradizionali.
Dal 5 febbraio 2010 la pizza è ufficialmente riconosciuta come Specialità tradizionale garantita della Unione europea. Durante la votazione del 9 dicembre 2009 a Bruxelles i rappresentanti della Polonia sono i soli ad astenersi, smacco difficile da spiegare e da dimenticare. Sarà l’aria o l’acqua, ma alcuni dicono che la vera pizza napoletana va assaporata in una delle migliaia di pizzerie di Napoli e provincia. Quella classica è la pizza margherita, con pomodoro, mozzarella e basilico fresco in abbondanza ed un filo di olio extravergine d’oliva. La variante con la mozzarella di bufala va fatta con attenzione in quanto è un prodotto caseario che rilascia molto succo, rendendo la pasta della pizza bagnata. Tutte le altre varianti con aggiunte di ingredienti ed additivi non vengono riconosciute dai veri pizzaioli napoletani che sono soliti affermare: “Nun’ è cercate sti pizze complicate ca fanno male ‘a sacca e ‘o stommaco patì” (Non cercate pizze elaborate che sono costose e deleterie per lo stomaco).
Come dimenticare la soddisfazione sul volto di Julia Roberts che gusta la pizza nel film Mangia, prega, ama. Il capitolo ‘mangia’ consacra l’italianità a tutto tondo e questa splendida e intensissima inquadratura ricorda a tutto il mondo la bontà della vera pizza napoletana. La scena è realmente girata nella Antica pizzeria da Michele a Forcella (storico quartiere popolare di Napoli). Che, dopo aver servito pizze a chiunque passasse da Napoli, da Bill Clinton a Maradona, ha poi aperto a Roma in via Flaminia, in Giappone a Fukuoka e a Tokyo (nel quartiere di Ebisu), a Londra proprio questo mese in Baker street e a breve a Barcellona in carrer De Consell De Cent. A Milano prenderà il posto dell’ex ristorante di Joe Bastianich e Belen Rodriguez.
A coronamento di una storia così ricca di ingredienti, di tradizioni, di variazioni e di colori, sta per arrivare la decisione tanto attesa. Dopo un iter iniziato sette anni fa arriva per l’arte dei pizzaiuoli napoletani il riconoscimento finale con il voto, dal 4 all’8 dicembre in Corea del Sud, del Comitato Intergovernativo Unesco per la salvaguardia del patrimonio immateriale.
The art of Neapolitan ‘Pizzaiuolo’ just inscribed on the Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity. Congratulations, #Italy! #IntangibleHeritage #12COMhttps://t.co/z6xL98TZk4 pic.twitter.com/HmANxOadG7
— UNESCO (@UNESCO) 7 dicembre 2017
Ciò che ha portato un piatto di così basso lignaggio a divenire un simbolo italiano famoso in tutto il mondo, un pianeta in cui si mangiano 5 miliardi di pizze all’anno, sembra quasi una magia. Fatta di pane, pomodoro, mozzarella e basilico.
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