Elena, malata terminale, ha scelto di morire in Svizzera, accompagnata da Marco Cappato.
In Italia la Consulta dice che si può aiutare solo chi “è tenuto in vita da strumenti di sostegno”.
Per Cappato, che ora rischia 12 anni di carcere, esiste una discriminazione tra malati.
Marco Cappato rischia di nuovo una condanna fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio. Il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni si è autodenunciato ai Carabinieri per aver fornito a una donna gravemente malata l’aiuto necessario per recarsi in Svizzera a sottoporsi all’eutanasia.
Sto entrando nella stessa caserma dell’autodenuncia per dj fabo. Ci hanno sbarrato la strada delle leggi di iniziativa popolare e Parlamentare, dei referendum. Non ci arrendiamo. pic.twitter.com/gHIqMsimti
Lo stesso aiuto che nel 2017 aveva garantito a Fabiano Antoniani che era rimasto tetraplegico e completamente cieco in seguito a un incidente stradale. La vicenda di Dj Fabo – come era conosciuto Fabiano – aveva scosso le coscienze degli italiani con un impatto notevole sulla discussione politica: dopo l’incriminazione per aiuto al suicidio, il caso di Cappato era finito nelle mani della Corte costituzionale che, il 26 settembre 2019, aveva stabilito:
non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
La stessa Corte costituzionale, nel 2018, aveva rinviato una prima volta la sentenza chiedendo al parlamento di varare una legge sul fine vita da lì a un anno: una richiesta tuttora rimasta inevasa dal momento che, con la fine anticipata della legislatura, il disegno di legge approvato lo scorso marzo dalla Camera dei deputati, ma non ancora dal Senato, rimarrà bloccato.
“La discriminazione violenta contro le persone malate non è stata superata nelle aule parlamentari – ha spiegato Cappato recandosi a presentare l’autodenuncia –, spero possa accadere in quelle di tribunale”.
La storia di Elena
Elena, questo il nome della donna che si era rivolta a Cappato nelle scorse settimane, aveva ricevuto la diagnosi di microcitoma polmonare a inizio luglio 2021. Da subito i medici le avevano detto che avrebbe avuto poche possibilità di uscirne: dopo vari tentativi di cure, le è stato detto che c’erano pochi mesi ancora di sopravvivenza, con una situazione che, via via, sarebbe diventata sempre più pesante. “Elena ha appena confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso”, ha annunciato Marco Cappato una volta in Svizzera.
Ecco il messaggio che la signora Elena ha voluto lasciare a tutti noi. Oggi, verso le ore 11 mi recherò presso la stazione dei Carabinieri in via Fosse Ardeatine a Milano per autodenunciarmi.
Nel suo ultimo videomessaggio, Elena ha spiegato le ragioni che l’hanno portata a decidere di morire: “Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere della propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola”.
Questa è la frontiera tra Svizzera e Italia. Domattina a Milano mi autodenuncerò per l'aiuto che ho fornito alla signora Elena, che ha scelto di interrompere le proprie sofferenze. In Svizzera è legale. In Italia rischio 12 anni di carcere. pic.twitter.com/CQzSt7IBE2
Si dirà: se la Corte Costituzionale ha già dato ragione una volta a Cappato, perché non dovrebbe farlo ancora? Perché il caso di Dj Fabo e quello di Elena differiscono in un punto, fondamentale: Elena, infatti, non era nella condizione di essere “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, quindi tecnicamente non rientra nei casi previsti dalla sentenza 2019 della Corte costituzionale per l’accesso alla tecnica in Italia.
A seguito dell'aiuto dato ad Elena perché fosse libera di scegliere, in Svizzera, come morire, Filomena Gallo, avvocato e segretario nazionale dell'Associazione Luca Coscioni, spiega le ragioni dell'autodenuncia di Marco Cappato e cosa rischia.Elena non era "tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale", quindi il suo caso non rientrava nei casi previsti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale per poter ottenere aiuto alla morte volontaria. Cappato rischia dunque fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio.
I requisiti espressi dalla Consulta, invece, erano stato riconosciuti per la vicenda legata a Federico Carboni (noto come Mario), il primo caso di suicidio assistito in Italia avvenuto lo scorso 17 giugno. Ecco perché in questo caso Cappato rischia fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio.
La legge sul suicidio assistito in Italia
Neanche se fosse già in vigore la legge sul suicidio assistito, Cappato sarebbe “protetto”: il testo approvato dalla Camera infatti detta condizioni molto simili a quelle della Corte costituzionale spiegando che, per consentire l’accesso alla morte medicalmente assistita, la persona richiedente deve trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni:
aver raggiunto la maggiore età al momento della richiesta;
essere capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli;
essere adeguatamente informata;
essere stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e averle esplicitamente rifiutate o volontariamente interrotte;
essere affetta da una patologia attestata, dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura, come irreversibile e a prognosi infausta oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, e che tali condizioni cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che il richiedente trova assolutamente intollerabili;
essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente.
Una serie di condizioni che hanno portato Cappato e l’Associazione Luca Coscioni a esprimere diverse volte le proprie critiche, soprattutto riguardo la disparità di trattamento tra malati nutriti artificialmente, per esempio attraverso flebo e sondino, e malati ancora in grado di farlo autonomamente.
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