Duisburg, Germania, 15 agosto 2007. Sono le due del mattino. Un ragazzino esce dal ristorante italiano Da Bruno. Si chiama Tommaso Venturi, ha appena festeggiato fino a tarda notte il suo diciottesimo compleanno. Con lui escono altre cinque persone. In quattro salgono su una Volkswagen e altre due su un furgone. Non fanno in tempo ad accendere i motori che su di loro si riversa una pioggia di colpi. Decine e decine. Il commando che li assalta non si accontenta e si avvicina alle vittime, “finendole” con colpi alla testa. Il più giovane aveva 16 anni, il più grande 39. Alcuni di loro, nel corso delle autopsie, risulteranno quasi irriconoscibili.
Com’è strutturata la ‘ndrangheta al suo interno
Quella che è passata alla storia come la strage di Duisburg è stata perpetrata in Germania ma affonda le proprie radici nella provincia di Reggio Calabria. Le persone uccise erano tutte originarie della zona: Siderno, San Luca, Corigliano Calabro. Tutti nati all’ombra delle “locali”, raggruppamenti di ‘ndrine, ovvero cosche malavitose appartenenti alla ‘ndrangheta che prendono il cognome di una o più famiglie. Non gruppi di appartenenza che prendono il nome da quartieri, come nel caso della mafia siciliana.
Un fattore da non sottovalutare. Le ‘ndrine sono composte da parenti. Ciascuno con vari gradi: dal capo, che ha potere di vita e di morte su tutti. Chi si occupa di amministrare i proventi delle attività illecite. E chi funge da “ministro della guerra”, che organizza gli omicidi e la difesa della “locale” qualora questa sia attaccata.
La strage tedesca fu parte di una faida che veniva da lontano, dagli inizi degli anni Novanta, e che contrapponeva le ‘ndrine degli Strangio-Nitra a quelle dei Pelle-Vottari-Romeo. Di quest’ultima, a dispetto del cognome, faceva parte Sebastiano Strangio, chef e proprietario del ristorante. Scelto, assieme agli altri, per regolare conti in sospeso. Soprattutto, l’episodio di Duisburg ha acceso la luce su quanto si siano ormai allungati i tentacoli di quella che oggi è la più potente mafia italiana. E anche, in qualche modo, la più misteriosa.
60mila uomini, 400 ‘ndrine, tentacoli in 30 paesi
Per capire cosa sia la ‘ndrangheta oggi è utile comprenderne il passato. Risalendo fino alle origini, allacciando i fili della memoria del XX secolo e arrivano a delineare l’immagine del mostro attuale. Costituito – secondo un’indagine di Demoscopika del 2013 – da una colossale armata di 60mila uomini, raccolti in 400 ‘ndrine, e operativi in almeno 30 paesi del mondo. Capaci di generare un giro d’affari da 53 miliardi di euro. Il doppio del fatturato del colosso bancario Deutsche Bank, tanto per rimanere in Germania.
Un impero, un esercito a difenderlo, uno stato nello stato per organizzarlo, i proiettili per chi lo mette in pericolo. Segreta nella composizione. Segreta nell’organizzazione. Misteriosa perfino nella nascita. Si narra che tutto nacque dalla storia di tre fratelli, cavalieri spagnoli, che fuggirono dall’Inquisizione nel XV secolo e si rifugiarono in Italia: uno in Sicilia, dove fondò Cosa Nostra, uno in Campagna, dove pose le basi della Camorra, e infine uno, appunto, in Calabria. Ma fin qui si tratta di leggende, buone per alimentare la narrazione dei mafiosi di oggi di una mafia plurisecolare, a suo modo mistica e intrinsecamente indistruttibile.
Le origini della ‘ndrangheta, tra mito e massoneria
Più facilmente, le origini della ‘ndrangheta possono essere fatte risalire ad una società segreta di tipo massonico, fondata nel XVII secolo. A lungo la struttura non fu opposta ai poteri pubblici, ma alla metà dell’Ottocento cominciò a dedicarsi sempre più ad attività illegali, all’epoca del banditismo, che in Calabria è stato particolarmente presente. Si cominciò con furti di bestiame, espropriazioni forzate, contrabbando, racket sulle produzioni agricole locali.
Fu nel 1861 che il prefetto di Reggio Calabria invocò per la prima volta attività criminali, che vennero definite in realtà “camorristiche”. Sette anni più tardi, le elezioni comunali vengono annullate per evidenti pressioni mafiose su candidati ed elettori. Alcune sentenze, a partire dal 1877 parlano di “una setta che non ha paura di niente”. Nel 1928 si cominciò a parlare della Famiglia Montalbano (da cui l’omonimo romanzo di Saverio Montalto apparso per la prima volta nel ’73).
Occorrerà attendere l’immediato secondo dopoguerra per sentire parlare per la prima volta di ‘ndrangheta in alcune riviste specializzate. I quotidiani nazionali cominceranno a definire con tale nome la criminalità organizzata calabrese a partire dagli anni Cinquanta. Un nome anch’esso strano, misterioso, difficile da pronunciare. Troncato all’inizio da un apostrofo. Quasi fosse una lingua diversa. Ad alimentarne l’aura di mistero e i contorni da setta.
Come si entra nella ‘ndrangheta, rituali ed esoterismo
Esattamente come nel caso delle regole, dei rituali. L’affiliazione alla ‘ndrangheta, ad esempio, ne prevede uno specifico. Sempre quello, da decenni e decenni. Per entrare nelle cosche calabresi si passa per il ruolo di “contrasti onorati”. Una specie di anticamera, nel corso della quale si viene posti sotto osservazione. Una volta superata questa fase, si viene portato in un localebattezzato in nome dei tre cavalieri spagnoli: qui viene presentato da almeno sette ‘ndranghetisti. Uno dei quali garantisce per lui con la vita. Si dispongono a “cerchio formato” e tengono le braccia conserte. Poi inizia il rito, in nome dell’Arcangelo Gabriele e di Santa Elisabetta.
Vengono pronunciate frasi impregnate di esoterismo e l’affiliato quindi giura che non avrà rapporti con chiunque porti una divisa o una toga. Né a un prete. A nessuno che abbia giurato fedeltà a qualcosa che non sia la ‘ndrangheta. Infine, il capo incide con un coltello una croce sul pollice sinistro della mano dell’affiliato, fa cadere alcune gocce su un’immagine sacra e la brucia. È il “battesimo”. Indelebile. A vita.
È così che, negli anni Cinquanta, entrò nelle cosche calabresi uno dei suoi capi più celebri. Giuseppe Morabito, detto ‘utiradritto (perché particolarmente abile a sparare), arrestato dopo 12 anni di latitanza in un paesino sull’Aspromonte. Una storia, la sua, che corre parallela a quella della ‘ndrangheta.
Il “ruolo” della mafia nella società calabrese
Così, col tempo, quest’ultima – come tutte le mafie – assume un controllo quasi totale del territorio. È diventata capace di dare risposte alla popolazione, occupando gli enormi spazi lasciati colpevolmente vuoti dallo stato. Ma l’esercizio del potere non si è arrestato ai confini economici e politici, conquistandosi i favori del popolo distribuendo lavoro e briciole dell’immensa ricchezza via via accumulata. “La mafia calabrese era ad esempio in grado di regolare problemi che i poteri politici non avrebbero comunque potuto governare, come nel caso dei conflitti d’onore – ha spiegato lo storico Enzo Ciconte alla trasmissione Blu Notte di Carlo Lucarelli –. Se un giovanotto insidiava una ragazza, i genitori non si rivolgevano certo ai carabinieri. Per questo si rivolgevano agli ‘ndranghetisti, perché se intervenivano loro, di certo quella ragazza nessuno l’avrebbe più guardata”.
Indisturbata, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, la mafia calabrese comincia ad espandersi geograficamente. È presente nel campo dell’edilizia e dell’intermediazione agricola. Quando si decise di completare l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, una pioggia di miliardi verrà intercettata dalle ‘ndrine. Tramite pizzo e subappalti pilotati.
L'ultima inchiesta svela "rapporti sistematici" tra la criminalità e la politica per condizionare anche alcune elezioni nel Crotonese. Smantellata la cosca dei "Papaniciari"https://t.co/EI2T7rapbj
— Agi Agenzia Italia (@Agenzia_Italia) June 27, 2023
Ma in quell’affare, così come negli appalti per il polo chimico di Saline Ioniche e per il quinto impianto siderurgico di Gioia Tauro, si inserisce una “nuova ‘ndrangheta”. Che non deve scalare l’organizzazione, poiché a differenza di Cosa Nostra, l’architettura della mafia calabrese è orizzontale. Per prendere il potere occorre però uccidere chi non vuole intercettare ad ogni costo i tanti miliardi in arrivo dallo stato.
La prima guerra della ‘ndrangheta e il “salto in avanti”
Antonio Macrì boss di Siderno, nella Locride, si opponeva a questo “salto in avanti”. Il 20 gennaio 1975 viene ammazzato in auto da un commando che gli scaraventa addosso 18 colpi. È l’inizio di una guerra. I giovani, come i De Stefano di Reggio Calabria, vogliono cambiare marcia e per farlo vogliono sbarazzarsi della vecchia guardia. I boss storici vengono ammazzati uno per uno. Tranne Morabito, che si è adeguato e accordato con i De Stefano.
Per intercettare gli appalti servono però basi di capitali. Per trovarli, servono nuove strategie. La ‘ndrangheta decide di cominciare ad avere contatti con colletti bianchi, politica e poteri forti. Anche attraverso il controllo di traffici illeciti di ogni tipo e l’ingresso nelle logge massoniche. In precedenza, erano già stati allacciati rapporti con la destra estrema italiana, a cominciare da Junio Valerio Borghese, già comandante della X Mas nell’epoca fascista e poi promotore del tentativo di golpe del 1970, che sarebbe stato appoggiato proprio da centinaia di affiliati calabresi.
L’ombra delle cosche sui “moti di Reggio” e la strage di Gioia Tauro
È in questa ottica che occorre analizzare anche la rivolta di Reggio Calabria dello stesso anno, i cosiddetti “moti di Reggio”, iniziata il 5 luglio. Casus belli, il passaggio del capoluogo regionale a Catanzaro. Scoppia una rivolta che dura quasi un anno, capeggiata dal Movimento sociale italiano, da uomini di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. E dalle ‘ndrine. Finirà con l’ingresso in città dell’esercito, impiegato per la prima volta sul territorio dalla Seconda guerra mondiale, e con la promessa da parte dello stato di porre a Reggio il polo siderurgico, con investimenti per 10mila posti di lavoro.
Finirà anche con la strage di Gioia Tauro, del 22 luglio 1970, con il direttissimo Siracusa-Torino fatto saltare in aria con una bomba, provocando sei morti e 77 feriti.
La stagione dei rapimenti, da Cesare Casella al piccolo Marco Fiora
Per i capi bastone il problema resta però quello di sempre: ottenere capitali – buoni per comprare droga e poi rivenderla, così come per creare ditte utili per partecipare ad appalti e subappalti – la ‘ndrangheta sceglie i rapimenti. Nasce la stagione dei sequestri di persona. Lunghissimi, infiniti. Costringendo le vittime a vivere in condizioni disumane. Carlo De Feo, ingegnere rapito a Casoria (in provincia di Napoli) nel 1983; John Paul Getty III, figlio dell’omonimo magnate del petrolio; Carlo Celadon, diciottenne (831 giorni di prigionia); Cesare Casella, diciannovenne (741 giorni).
E moltissimi altri, da Mario Airaghi a Mirella Silocchi, da Roberta Ghidini a Giuseppe Scalari: 139 in tutto tra gli anni Settanta e Ottanta. Alcuni dei quali sono sono più tornati, come Andrea Cortellezzi e Rodolfo Cartisano. Fino al sequestro più infame, odioso e disumano, quello di Marco Fiora, strappato ai genitori all’età di sette anni, il 2 marzo 1987, a Torino, e tenuto immobilizzato in un buco sottoterra per diciassette mesi.
La seconda guerra di ‘ndrangheta e l’omicidio del giudice Scopelliti
Gli ‘ndranghetisti intascarono così miliardi e miliardi, che furono investiti, appunto, nel traffico di droga e negli appalti. A cominciare da proprio quelli, innumerevoli, per la Salerno-Reggio Calabria. E con i soldi arrivano le invidie, le lotte di potere. “Risolte” con la seconda guerra della ‘ndrangheta, tra il 1985 e il 1991, che si chiuderà con 700 omicidi. E con le condanne a morte, eseguite, a uomini dello stato come il giudice Antonino Scopelliti, ammazzato il 9 agosto 1991 mentre era in vacanza a Villa San Giovanni con due colpi di fucile alla testa.
Nel frattempo i miliardi aumentano. E la ‘ndrangheta comincia ad internazionalizzarsi, sfruttano l’emigrazione che nel corso dei decenni si muove dalla Calabria, soprattutto per aprirsi a nuovi mercati di distribuzione della droga. Arrivano capitali e stupefacenti in Canada, negli Stati Uniti. Nella cittadina di Griffith, in Australia, arrivano da Piatì i soldi per acquistare terreni, ottenuti con alcuni sequestri effettuati in Lombardia. Vengono trasformati in grandi piantagioni di canapa indiana. Chi capisce e si oppone viene fatto fuori.
Il Siderno Group e l’internazionalizzazione della mafia calabrese
In Canada opera il Siderno Group, così battezzato dalla polizia locale. La ‘ndrangheta riesce a far transitare i soldi dei sequestri in una banca di Toronto, per trasferirli in un istituto di credito di New York. Da lì, vengono usati per comprare cocaina in Colombia, che si fa quindi arrivare a Marina di Gioiosa Ionica.
In Italia si susseguono operazioni di polizia, centinaia di processi, migliaia di arresti, compresi quelli di boss storici come Morabito, sequestri di droga e armi. Eppure, la ‘ndrangheta appare sorprendentemente resiliente: “Quello che colpisce – ha raccontato il giudice Vincenzo Macrì a Blu Notte – da un osservatore esterno è che nonostante ci siano stati nel corso degli anni centinaia di procedimenti a carico di tutte le cosche della provincia di Reggio Calabria, con centinaia di ergastoli e migliaia di anni di reclusione comminati, ebbene tutto ciò non ha provocato un vero e proprio indebolimento di questa organizzazione. Che a detta di tutti è oggi la più forte, la più potente, la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale. Appare insensibile alla repressione investigativa e giudiziaria”.
L’omertà “consanguinea” delle ‘ndrine
Ma per quale motivo la ‘ndrangheta riesce a restare in piedi e a prosperare? “Ciò è dovuto in parte alla sua struttura organizzativa – prosegue Macrì – che le consente di essere presente in modo capillare sia in Italia che all’estero, ma soprattutto è dipeso dall’enorme potere economico che ha acquisito con la droga”. E che le consente di investire, soprattutto nel terziario, con la distribuzione alimentare, e nell’immobiliare, non solo in Italia.
Inoltre, la mafia calabrese può godere di un’omertà molto più forte di quella di Cosa Nostra. I collaboratori di giustizia continuano ad essere molti meno rispetto a quelli delle cosche siciliane. A pesare è il vincolo familiare: gli appartenenti alle ‘ndrine sono consanguinei. Parlare, vuol dire condannare fratelli, genitori, figli, zii, cugini.
Gli affari della ‘ndrangheta valgono il 3 per cento del Pil italiano
E vuol dire scalfire un impero. “Il giro d’affari annuo stimato per la ‘ndrangheta è superiore a quello di grandi multinazionali come ad esempio la catena McDonald’s – ha spiegato il criminologo Vincenzo Musacchio a RaiNews –. I maggiori guadagni ovviamente arrivano dal traffico internazionale di cocaina e di altri stupefacenti, con guadagni intorno ai 30 miliardi di euro. Dal riciclaggio del denaro sporco arriva la seconda fonte di guadagno con circa 20 miliardi. Poi seguono le truffe e le frodi a organi pubblici, il traffico d’armi, le estorsioni e l’usura, gli appalti pubblici, la prostituzione, l’immigrazione clandestina e il lavoro nero che portano cifre molto più modeste”.
Così, il giro d’affari della ‘ndrangheta si situa oggi tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno. Più della mafia messicana, più di Cosa nostra, più della camorra, più delle triadi cinesi. Superata a livello internazionale solo dalla Yakuza giapponese e dalla mafia russa. Soprattutto, più del 3 per cento del Prodotto interno lordo italiano. Uno stato nello stato.
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