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Elementi naturali e riutilizzo di materiali per l’architettura del futuro, è la visione di Studio Albori
Mix fra studio di architettura e laboratorio di costruzioni, Studio Albori utilizza tecniche naturali come la paglia e promuove il riuso dei componenti edilizi.
Lontani dal sistema mediatico e dalla ricerca di visibilità, hanno conquistato nel tempo una fama specifica e consolidata attraverso il ‘passaparola’, partecipando a mostre e convegni internazionali e tenendo laboratori sociali in diverse città italiane.
Parliamo dello Studio Albori – fondato a Milano nel 1993 da Emanuele Almagioni, Giacomo Borella e Francesca Riva – che lavora sui temi dell’architettura e del paesaggio, con attenzione alle questioni energetiche e ambientali, nel loro intersecarsi con la dimensione dell’abitare quotidiano.
Abbiamo incontrato Giacomo Borella, uno dei tre fondatori, per parlare del loro metodo di lavoro fuori dagli schemi rispetto agli studi di architettura tradizionali e della loro visione di progetto.
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Quali sono le affinità che accomunano i componenti del vostro studio?
Abbiamo aperto lo studio nel 1993, eravamo insieme all’università e avevamo già fatto progetti insieme. Ci ha accomunato l’amicizia e la condivisione di valori, il modo di guardare l’architettura e il tipo di architettura che ci interessava. Ognuno di noi ha il proprio modo di vedere le cose, ma sono molto intrecciati l’uno con l’altro e si sono sviluppati nel corso del tempo.
L’attitudine alla sostenibilità che vi caratterizza era già un presupposto del vostro lavoro all’inizio o è maturata nel tempo?
Ci abbiamo messo un po’ a tradurla in qualcosa che incidesse sull’architettura, che mettesse in discussione i modi consueti di progettare. Uno dei nostri primi progetti, iniziato già prima di aprire lo studio, alla fine degli anni Ottanta, è stato una cooperativa di abitazioni a Porta Romana, a Milano, ed è un edificio che appartiene a quella che, un po’ per ridere, potremmo chiamare la nostra fase ‘modernista’. È un’architettura che assomiglia a quelle degli anni Venti, sia come materiali sia come tecniche utilizzate, che nell’edilizia cooperativa e standard sono ancora quasi le stesse: telaio in cemento armato, tamponamenti in mattoni forati, intonaco. Materiali che ancora la maggior parte degli architetti usa, ma che oggi noi impieghiamo difficilmente.
Il tema dei rapporti dell’architettura con l’ambiente e con il modello di sviluppo sotteso lo abbiamo sviluppato man mano che lavoravamo e abbiamo trovato una strada mentre la percorrevamo. Quindi questo ha messo in discussione quasi tutti i punti di riferimento che avevamo avuto fino a quel momento. Abbiamo rimesso in discussione un po’ tutto senza molto tempo da dedicare alla pura teoria, ma facendolo sul campo e ancora adesso stiamo continuando a sperimentare cose che prima non sapevamo fare. Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo progettato diverse costruzioni in paglia, che sono in cantiere adesso. Stiamo imparando nel realizzare questi progetti, anche grazie alla collaborazione con Cming, lo studio di Carlo Micheletti, che è uno dei maggiori esperti di tecnologie alternative in Italia.
Quali difficoltà riscontrate soprattutto con i clienti e con l’espletamento delle pratiche edilizie nel praticare in modo sistematico un modello di architettura alternativa sostenibile?
Bisogna valutare caso per caso. È molto diverso se si attua un progetto in una città come Milano o in campagna, montagna o collina. Ci sono tanti livelli di difficoltà. Direi che il problema principale è che è molto diffusa la pia illusione che si possano fare architetture ecologicamente sensate senza cambiare le nostre aspettative e le nostre abitudini. Un esempio: l’aria condizionata, che da noi fino a trent’anni fa era una cosa rarissima e oggi sembra diventata un’esigenza primaria, si può affrontare in diverse maniere. L’ideale sarebbe riuscire a comprendere che se ne può benissimo fare a meno. Ovvio, se costruisco un edificio in cemento armato e completamente vetrato, quella è un’architettura che implica automaticamente l’aria condizionata. È una scatola che si surriscalda e l’immissione di aria fredda artificiale è assolutamente necessaria. Quasi tutta l’architettura contemporanea è fatta così ancora adesso. E magari poi ha i certificati Leed, Gold, Platinum ecc. perché oramai tutto viene venduto come se fosse ‘green’, anche la scatola di cemento armato. E il progettista di solito è convinto che sia ‘green’! Si tende ancora a pensare che sia una questione che riguarda gli impiantisti, e non gli architetti.
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Il primo elemento è cercare di fare un’architettura che, per come è fatta, minimizzi la necessità di ricorrere al riscaldamento o raffrescamento artificiale. Se è una nuova costruzione è molto più facile, se è una ristrutturazione o recupero è molto più complesso perché implica di intervenire in modo molto più cospicuo, isolando tutto quello che prima non lo era… Ma anche nel caso di un nuovo edificio, o di un edificio recuperato molto ben curato in termini di bilancio energetico complessivo, ciò che è necessario mettere in discussione è l’aspettativa di poter schiacciare un bottone e avere 21 gradi garantiti in inverno, o in estate quando fuori ce ne sono 40. È prima di tutto questa mentalità che è nociva per l’ambiente e che è necessario scalfire.
Cosa pensa della domotica?
Penso che sia una baggianata: noi siamo per il minor impiego possibile di tecnologie inutili, anche se molto aggiornate. Non abbiamo ancora trovato nulla di necessario in quell’ambito. Si può farne tranquillamente a meno. È una cosa che riguarda un mercato, dei bisogni che sono stati inventati e che ti fanno credere necessarie cose come poter accendere il forno quando sei in autostrada. Per fortuna non ci è quasi mai capitato un committente che ci chiedesse di approfondire questi temi. Cerchiamo di scollegare completamente gli aspetti ecologici dalla domotica, di essere abbastanza ‘radicali’ e di non avere un atteggiamento di tipo ‘promozionale’ su questi temi importanti, che vanno affrontati seriamente. Non ci interessa farli diventare dei temi da vendere o da gonfiare per ragioni di immagine, fatto è però che l’architettura è una disciplina collettiva. Nasce da molte istanze diverse: c’è un committente, c’è un costruttore, c’è un mercato delle costruzioni, ci sono delle istituzioni che regolano e decidono se una cosa si può fare o no, e in una società in cui la questione ambientale viene vista soprattutto in termini di immagine o, se va bene, tecnocratici, questo confronto – o spesso scontro – è piuttosto difficile.
Non è una contraddizione promuovere sempre più spesso l’architettura sostenibile e al contempo mettere sempre più ostacoli burocratici alla sua realizzazione?
Sono questioni che riguardano quel dedalo inestricabile che è oramai il sistema normativo e regolativo. Però non mi sembra che ci siano specifici ostacoli burocratici alla sostenibilità, quanto piuttosto che la pazzia normativa sia tale da ostacolare di fatto la possibilità di fare un’architettura sensata. Ormai è molto difficile che un architetto capace di destreggiarsi nel coacervo burocratico sia anche contemporaneamente un bravo architetto. Diciamo che è un sistema che nel suo complesso, e non solo a causa della burocrazia, in questo momento tende a incentivare la produzione di un’architettura fintamente ecologica.
Il nodo sta, dunque, nella necessità di un cambio delle regole per l’applicazione di questi principi innovativi dell’architettura sostenibile?
Il cambio di mentalità della committenza è avvenuto ancora in una piccolissima minoranza. Il problema, però, di questo ‘accanimento normativo’ non attiene neppure specificatamente ai temi dell’ecologia e dell’ambiente, è una specie di rete che pervade un po’ tutto il campo dell’edilizia, una sorta di ‘onnipotenza’ per cui si crede che si possa regolare tutto. Cercando di regolare confusamente tutto si finisce per non regolare niente.
Qual è il vostro approccio per realizzare soluzioni architettoniche innovative?
La parola ‘innovativo’ è a dir poco equivoca. Per esempio: è evidente che il mezzo più sensato per muoversi in città sia la bicicletta. È un mezzo innovativo? No: è stato inventato due secoli fa. L’automobile più ‘innovativa’ rimane una scemenza al confronto di una bici. Credo sia più utile, quindi, usare parole meno ambigue, come ‘sensato’ o ‘decente’. L’approccio visivo-estetico, nel senso basso in cui si tende a impiegare questi termini, è un approccio molto povero, limitato. Ci sono cose molto più importanti. Se ci interessa che qualcosa possa sopravvivere, non ci sono alternative alla sensatezza ecologica. Ad esempio, decidere di non utilizzare la pietra locale perché è troppo limitante, perché si vuole avere la scelta di tutte le pietre del mondo, non è un ragionamento che sta in piedi dal punto di vista ambientale. Se ognuno nel suo piccolo facesse una valutazione del ciclo di vita complessivo cambierebbe, forse, anche i propri gusti estetici.
Cosa si dovrebbe o si potrebbe fare secondo lei per diffondere il concetto della sostenibilità e favorire il cambio di mentalità nei comportamenti della vita quotidiana?
È un problema che esula dall’architettura, ma è di filosofia di vita e di politica. Non si può pensare di avere un rapporto più decente con il pianeta e con chi lo abiterà in futuro se non si rimette in discussione in modo radicale la ‘religione’ dell’accumulazione del denaro. Molti esempi di architetture presuntamente ecologiche di successo sono invece parte integrante di questa ideologia, fondata sullo sfruttamento della natura e degli uomini, sono una sorta di decorazione ‘green’ di questa ideologia.
Siete un modello di studio di architettura non comune. Come lavorate?
Siamo un piccolo studio che lavora con progetti di piccola e media dimensione e non partecipa alle competizioni sul mercato generale degli incarichi. La nostra è una committenza prevalentemente privata. I progetti ci arrivano in gran parte attraverso il passaparola, amici, parenti e per una serie di occasioni che capitano con persone che hanno visto qualche nostro edificio e ci chiamano, come è successo a seguito della casa solare di Vens, in Valle d’Aosta. A volte capita che ci invitino, come è successo a Chicago nel 2015 dove siamo stati chiamati a costruire un’architettura temporanea alla Chicago architecture biennial.
Il riuso dei materiali edilizi è un tema portante nei vostri progetti. Come lo applicate?
Alla Biennale di architettura di Chicago abbiamo costruito un’architettura con materiali di seconda mano. Sapevamo che con la crisi del 2008 negli Stati Uniti sono fioriti molti centri che fanno demolizione delle case e che invece di portare i materiali in discarica decostruiscono gli edifici, li smontano e rivendono i pezzi, la componentistica edilizia di seconda mano. Abbiamo chiesto a uno di questi centri di affittarci una certa quantità di materiali, descritti via email o al telefono, per realizzare con le nostre mani sul posto una costruzione più o meno improvvisata. Alla fine della mostra, dopo quattro mesi, loro l’hanno smontata e riportata in magazzino e a quel punto erano diventati materiali di terza mano, ancora belli e perfettamente funzionanti. Ci piacerebbe fare un centro di smontaggio e vendita per il riuso della componentistica edilizia a Milano, ma per ora non ci siamo riusciti.
Ci racconti la vostra attività di laboratorio di costruzione…
Certi lavori non ci limitiamo a progettarli, ma li realizziamo noi direttamente e manualmente. Abbiamo un piccolo laboratorio qui, e quando capitano dei lavori più grossi chiediamo ospitalità fuori. Per la Triennale tre anni fa all’hangar Bicocca abbiamo realizzato una costruzione temporanea all’aperto, un portico estivo con ventilatori e sedie. Non potendo affittare i materiali usati come a Chicago, perché qui non è possibile, abbiamo investito il budget pensando a un edificio che potesse poi essere ricostruito e utilizzato da un’altra parte, smontandolo e rimontandolo poi in tutt’altro modo. Lo abbiamo fatto in modo un po’ improvvido, perché dopo aver costruito l’edificio abbiamo dovuto trovare qualcuno che tenesse gratuitamente tutti i materiali in deposito.
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Sono ancora lì dopo varie ipotesi di riutilizzo… la prima era di farlo diventare un padiglione per un’aula scolastica all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini per un’associazione di amici che insegnano l’italiano ai rifugiati. Però bisognava trovare i soldi per farlo e non li abbiamo trovati. Dovrebbe ora, dopo varie vicende, diventare un edificio comunale al parco delle Cave. Tutti questi materiali erano già usati, quindi sarà la loro terza vita. La base sono delle enormi casse da imballaggio, di 3 metri per 3, che erano servite per il trasporto delle opere d’arte di Valla Panza di Biumo a Varese. Noi le usiamo come setti murari portanti, riempiti di paglia. È un processo di riutilizzo dei materiali interessante.
Chi considerate come vostri maestri?
Abbiamo maestri diretti: gli architetti Alvaro Siza, da cui ho lavorato prima di laurearmi; e Umberto Riva, che è un nostro carissimo amico, da cui abbiamo lavorato una trentina di anni fa sia io che Francesca, che è sua nipote. Da loro abbiamo imparato enormemente. Parallelamente, il maturare della coscienza ecologica ci ha come costretto a rielaborare tutto in un modo diverso. I maestri indiretti sono tanti, ma nella parte più adulta nel nostro lavoro, più che riferirci a qualche architetto in particolare, abbiamo una passione per l’architettura che si faceva prima che esistessero gli architetti. Uno dei miei libri del cuore rimane Architecture without architects di Bernard Rudofsky.
A quali progetti state lavorando?
Stiamo lavorando a progetti che utilizzano la paglia: un maneggio per cavalli, costituito da quattro piccoli edifici complessivamente, sul lato veronese del Garda. Anche sul lago Maggiore, a Laveno, stiamo realizzando una casa in paglia. La tecnica della costruzione in paglia è semplicemente magnifica, per diverse ragioni. Intanto la paglia è un prodotto di scarto della coltivazione dei cereali, e se ne produce molta di più di quanta se ne usa; quindi significa fare architettura con gli scarti. In secondo luogo, è un materiale che sfugge al monopolio dell’industria, è un prodotto in qualche modo de-industrializzato: non viene prodotto in uno stabilimento o in un capannone, ma in mezzo a un campo; chi te lo vende non è un produttore di paglia, ma uno che fa un altro mestiere, è un contadino. Proprio per questo, ha delle dinamiche di approvvigionamento che tendono spontaneamente ad essere corte: non fai arrivare le balle di paglia dalla Germania o dalla Cina, ma ti conviene prenderle nel posto più vicino.
Un altro aspetto stupendo è che questa tecnica è stata inventata, e viene trasmessa e appresa, fuori dalle normali sedi produttive, professionali e universitarie: ha una storia e una vita che è eminentemente alternativa ad esse, e quindi sfugge in gran parte alle loro logiche, molto spesso mefitiche. È una tecnica viva e frugale, un frutto moderno dell’ingegno e dell’inventiva anonima, che è una cosa rarissima. Il cantiere della costruzione in paglia ha qualcosa di festoso, di divertente: per spingere le ballette dentro alla struttura in legno si danno dei gran colpi con dei martelloni giganti, anche loro fatti di legno – di solito ce li si costruisce da sé, con un avanzo di trave e un manico di badile –, che sembrano quelli dei fumetti, o delle comiche. Anche la sicurezza diventa quasi un gioco: per collocare una balla in alto nel muro, in pochi secondi si dispongono un po’ di ballette in forma di scala, e si sale. Se si cade, si cade su un materasso di balle di paglia, e si rimbalza. La costruzione in paglia non costa più di una costruzione di standard medio-basso, ma permette di costruire muri e tetti allo stesso tempo super-isolati, traspiranti e massivi, con un effetto di deumidificazione dell’aria interna alla casa.
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