Il Sudafrica vieterà l’allevamento di leoni per scopi venatori o turistici. L’Italia intanto vieta commercio, detenzione e vendita di specie selvatiche.
In Sudafrica non sarà più possibile allevare leoni in cattività, né per scopi venatori né per motivi turistici. Lo ha annunciato pochi giorni fa la ministra dell’Ambiente Barbara Creecy, durante una conferenza dedicata alla conservazione. “Il gruppo di esperti scientifici ha rilevato che l’industria dei leoni in cattività pone rischi per la sostenibilità della conservazione dei leoni selvatici” – ha dichiarato Creecy, dopo aver esaminato un report di 600 pagine redatto da una commissione di esperti che ha svelato come questi allevamenti danneggino la conservazione della specie in natura senza portare vantaggi per il turismo. Tuttavia, cacciare gli esemplari selvatici resterà legale con le dovute licenze.
Il business dei falsi santuari in Sudafrica
Ad oggi, in Sudafrica, oltre 350 strutture allevano leoni, ghepardi, leopardi, caracal, serval e molte altre specie esotiche e selvatiche, come tigri, giaguari, puma, e persino ligri (un incrocio tra leoni e tigri), tenuti in condizioni totalmente inaccettabili. Molte strutture turistiche internazionali, che ospitano animali selvatici, utilizzano in maniera impropria il termine “santuario”. Per questo si usa il termine “falso santuario” per indicare tutte quelle strutture che si vendono alle persone per quello che non sono. Spacciano gli animali per recuperati o orfani utilizzandoli per il loro business, senza preoccuparsi realmente della conservazione delle specie e del benessere del singolo individuo recuperato. Bisogna anche chiedersi se si tratti davvero di un animale recuperato, perché se così fosse, l’ultima cosa che si dovrebbe fare, sarebbe farlo interagire con l’essere umano.
Infatti, le strutture realmente valide dal punto di vista etico e scientifico sono quelle che impediscono ogni forma di interazione (ad esempio toccare o stare a stretto contatto) tra turista e animali ospitati. A tal proposito, in Sudafrica i falsi santuari rappresentano uno degli introiti più redditizi per il turismo del paese. Si stima che ogni anno, circa ottomila leoni siano allevati nei finti santuari per essere poi venduti alle riserve private ed essere uccisi durante la caccia al trofeo.
Today we release the report of the High-Level Panel that was appointed to review policies, regulatory measures, practices and policy positions related to hunting, trade, captive keeping, management and handling of elephant, lion, leopard and rhinoceros https://t.co/ShSumizUkI
— Minister of Environment, Forestry & Fisheries 🇿🇦 (@BarbaraCreecy_) May 2, 2021
La vita dei leoni dal biberon al fucile
Questi leoni vengono fatti nascere e abituati all’uomo, obbligati ad interagire con turisti e volontari che spendono migliaia di dollari per poterli coccolare. I cuccioli vengono separati dalle loro madri a poche ore di vita, cosa che provoca uno stress estremo sia per loro che per le madri. Una volta giovani, dal biberon, si passa alle walking lions, le camminate con i leoni per turisti che credono che questo sia amore per gli animali, forse non considerando la vera natura del leone e lasciandosi ammaliare da racconti che, però, non hanno niente a che vedere con la vera conservazione.
Una volta adulti, le leonesse vengono usate per la riproduzione a ritmi dieci volte superiori a quelli naturali, mentre i maschi vengono portati in piccole riserve private (da qui, canned hunting – caccia in scatola), dove abituati alla presenza dell’uomo cadono vittime della caccia al trofeo.
Il cerchio della canned hunting non finisce qui perché le ossa dei leoni vengono poi commercializzate e vendute nel mercato della medicina tradizionale. Insomma, un circuito economico e turistico dalla nascita alla morte dell’animale, che viene sfruttato in ogni fase della sua vita.
Un rischio anche per la salute umana
Questo, chiaramente, si colloca anche in un’ottica di salute umana in quanto i turisti, gli allevatori, i keeper ed i tassidermisti entrano in contatto con questi animali quotidianamente. Oltre ad avere problemi legati alla scarsa igiene dei luoghi, all’alimentazione insufficiente, ai recinti piccoli e inadatti, ai ripari inadeguati, all’assenza dei minimi elementi di arricchimento ambientale e alla mancanza di cure veterinarie, questi centri non rispettano nemmeno le norme di igiene e sicurezza di cui si ha bisogno in un momento di crisi sanitaria come questo attuale.
Non dimentichiamo che la Covid-19 è una zoonosi, quindi fa parte delle malattie infettive causate da batteri, parassiti o virus che possono trasmettersi tra mammiferi e persone. La Sars, la Mers, l’Ebola e la Sars-Cov-2 hanno tutte avuto origine negli animali selvatici e, in molti casi, i pipistrelli hanno svolto la funzione di “serbatoio”. Il più delle volte queste malattie vengono trasmesse tramite un ospite intermedio (animali domestici o selvatici) per poi riversarsi sull’uomo, con il cosiddetto salto di specie. Gli agenti patogeni che causano le malattie zoonotiche si trasmettono con lo stretto contatto tra fauna selvatica e persone.
L’Italia vieta il commercio, la detenzione e la vendita di specie selvatiche
Per questo, nell’ottica di evitare nuovi focolai infettivi, i governi di tutto il mondo stanno mettendo in atto programmi di prevenzione tra cui proibire il contatto tra l’essere umano e gli animali selvatici. Non a caso, nei giorni scorsi, l’Italia ha approvato una legge delega dal Senato, i cui decreti attuativi dovranno essere emessi entro maggio 2022, che vieterà il commercio, la vendita e la detenzione di specie selvatiche ed esotiche.
È un enorme passo in avanti verso un futuro in cui gli animali selvatici saranno riconosciuti come creature da rispettare e tutelare nel loro habitat senza essere snaturalizzati o allevati per il diletto e l’egoismo umano.
Un pomeriggio di confronto sui temi della biodiversità in occasione della presentazione del primo Bilancio di sostenibilità territoriale della Sardegna.
Diversi studi hanno rivalutato, nel corso degli anni, il valore delle vespe per la salute umana, grazie al loro contributo per un’agricoltura meno chimica.