Il Sudan chiude 17 anni di guerra civile con un accordo di pace storico

La firma degli accordi di pace tra il governo del Sudan e i gruppi ribelli apre un nuovo capitolo per il paese dopo 17 anni di guerra civile.

Sembra essere iniziata una nuova era per il Sudan, un’era all’insegna della pace. Dopo una lunga guerra civile, il 31 agosto scorso il governo del paese e il Sudan revolutionary front (Srf), organizzazione che riunisce i ribelli degli stati sudanesi del Darfur occidentale, del Kordofan meridionale e del Nilo azzurro, hanno raggiunto un’intesa per porre fine a un conflitto che ha lasciato sul terreno centinaia di migliaia di morti. Non è la prima volta che viene siglato un accordo di pace, ma questa volta dovrebbe essere quella giusta, nonostante alcuni gruppi ribelli si siano tenuti fuori dal testo.

Un conflitto in Sudan durato 17 anni

Da decenni il Sudan vive diversi focolai di conflitto sul suo territorio. Tra i più noti a livello internazionale c’è quello del Darfur, regione occidentale dove dal 2003 si è acceso lo scontro tra i Janjawid, miliziani arabi di origine nomada appartenenti alle tribù dei Baggara, minoritari nell’area ma maggioritari nel resto del paese, e la popolazione nera non Baggara della regione, rappresentata dai gruppi ribelli del Sudan liberation movement/army (Slm/a) e del Justice and equality movement (Jem).

Il villaggio di Chero Kasi, in Darfur, distrutto dai Janjawid
Il villaggio di Chero Kasi, in Darfur, distrutto dai Janjawid ©
Scott Nelson/Getty Images

Lo scontro nasce da ragioni etnico-religiose, ma anche economiche, relative all’accesso alla terra e alla suddivisione dei proventi del petrolio di cui è ricco il territorio. Il governo di Karthoum dall’inizio ha appoggiato indirettamente i Janjawid, autori di carneficine nei confronti delle popolazioni originarie del Darfur, che hanno causato nel corso degli anni la fuga dal territorio di milioni di persone, in quella che è una delle peggiori catastrofi umanitarie del ventunesimo secolo. Il sostegno del governo centrale alle stragi compiute dalle milizie islamiste nei villaggi non Baggara ha portato in più occasioni all’accusa di crimini di guerra nei confronti del presidente Omar Al Bashir. Secondo le Nazioni unite, dall’inizio del conflitto sarebbero state uccise più di 300mila persone in Darfur e si contano 2,5 milioni di sfollati.

Altri focolai di tensione riguardavano poi il Kordofan meridionale e il Nilo azzurro, dove gli scontri sono iniziati nel 2011 in una sorta di prosecuzione della guerra civile sudanese del 1983, vedendo contrapposti il governo e il Sudan people’s liberation movement/army (Splm/a).

Una pace che accontenta tutti

Un accordo di pace relativo al Darfur era già stato firmato nel 2006, ma dopo pochi mesi i combattimenti erano ripresi. Questa volta però dovrebbe andare diversamente. Il percorso che ha portato alla firma del 31 agosto è stato lungo e nulla è stato lasciato al caso. La caduta del regime di Bashir nel 2019 e l’insediamento del nuovo governo presieduto dall’ex funzionario dell’Onu Abdalla Hamdok hanno inoltre dato il via a un rinnovamento e a una stabilizzazione politica del Sudan sicuramente più coerente con un percorso di pace credibile.

Gli accordi prevedono otto protocolli. Tra le misure più importanti, spiccano la maggiore autonomia concessa ai  governi del Nilo azzurro, del Kordofan meridionale e del Darfur occidentale; l’istituzione di una commissione che garantisca la tutela dei diritti delle comunità cristiane nel sud del paese; l’integrazione entro 39 mesi dei combattenti del Sudan people’s liberation army-north (Splm-n) nell’esercito sudanese; il mantenimento del 40 per cento della ricchezza prodotta in Kordofan meridionale e nel Nilo azzurro in questi territori; l’attribuzione a rappresentanti di questi territori di diversi seggi nelle istituzioni politiche centrali; il ritorno in patria dei milioni di sfollati fuggiti durante il conflitto a causa delle violenze e delle persecuzioni.

“Il governo ottiene un risultato fondamentale”, spiega a LifeGate Camillo Casola, ricercatore per il programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). “La pacificazione delle regioni meridionali del Kordofan meridionale e del Nilo azzurro, oltre che del Darfur, rientrava tra le priorità dell’agenda politica del primo ministro Hamdok e costituiva senza dubbio l’espressione di una necessità fondamentale in vista di una stabilizzazione del paese, precondizione per il successo della transizione democratica avviata un anno fa. E senza dubbio la capacità di giungere a un accordo comprensivo di pace garantisce alle istituzioni della transizione sudanese un ritorno politico, in termini di credibilità anche nei confronti della comunità internazionale, molto importante”.

I ribelli del Sudanese Justice and Equality Movement (Jem)
I ribelli del Sudanese justice and equality movement (Jem) © Scott Barbour/Getty Images

Anche per i gruppi armati ribelli, però, il testo degli accordi è positivo. “Essi hanno ottenuto concessioni politiche importanti, in termini di power sharing, wealth sharing, autonomia politico-amministrativa e riorganizzazione degli assetti istituzionali dello stato, riforma e professionalizzazione dell’esercito”, continua Casola. “Sulla carta, ciascuna delle parti può vantare un successo (relativo) a seguito della firma degli accordi di pace”.

I rischi per il futuro

Non tutti i gruppi ribelli hanno però posto la loro firma sugli storici accordi di pace del 31 agosto. La fazione facente capo ad Abdel Aziz al-Hilu e quella guidata da Abdel Wahid al-Nur hanno denunciato come il testo continui a dedicare troppa poca attenzione alle minoranze etniche e religiose del paese. In particolare, essi richiedono che venga introdotto un principio di laicità dello stato.

Le prospettive appaiono comunque rosee e a dominare è l’ottimismo, dal momento che i gruppi non firmatari continuano a dichiararsi interessati alla pace e hanno affermato la volontà di proseguire con i negoziati. Il 3 settembre il primo ministro Hamdok e il ribelle al-Hilu hanno firmato una dichiarazione d’intenti in cui tra le altre cose si afferma che la separazione di stato e religione dovrà essere posta a fondamento della nuova costituzione sudanese, come richiesto dai non firmatari degli accordi di pace. Un segnale positivo per la fine definitiva del conflitto.

Gli accordi di pace appaiono insomma ben più resistenti di quelli del passato. “Il governo sembra finalmente affermare una concreta volontà politica di venire incontro alle istanze e alle rivendicazioni dei gruppi armati e, più in generale, alla necessaria inclusione nelle dinamiche politiche ed economiche nazionali delle élites periferiche, storicamente marginalizzate. Anche i gruppi armati sembrerebbero avere chiara la percezione di trovarsi di fronte a un’occasione storica per ottenere reali concessioni sul piano politico”, sottolinea Casola. “Resta da vedere, però, se le istituzioni a Khartoum saranno in grado di dare effettiva implementazione agli accordi, se questi si riveleranno effettivamente inclusivi e se i gruppi armati, a fronte di un possibile deficit di attuazione, non possano trovare politicamente conveniente tornare a contrapporsi in armi allo stato centrale. Ovviamente, non è detto che alla pacificazione dei conflitti tra stato e gruppi armati firmatari corrisponda necessariamente la pacificazione, a un diverso livello, degli scontri comunitari o delle tensioni inter-etniche che spesso ne sono state all’origine, soprattutto in Darfur”.

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