Circa 2,5 milioni di persone rischiano di morire a causa della carestia provocata dalla guerra in Sudan. Continua la pulizia etnica in Darfur.
La guerra in Sudan sta causando la peggiore carestia degli ultimi 40 anni. Secondo una ricerca pubblicata dal think thank olandese per le relazioni internazionali Clingendael alla fine di maggio, i cui contenuti sono stati confermati dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, si stima che entro settembre 2,5 milioni di persone potrebbero morire di fame, in particolare in Darfur e in Kordofan.
Dall’aprile 2023, il conflitto oppone l’esercito (Saf) guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, alle forze paramilitari di supporto rapido (Rsf) del suo ex vice, il generale Mohamed Hamdane Daglo detto Hemedti. Secondo l’Acled, la guerra ha provocato almeno 16.650 vittime, ma le stime sono al ribasso, e il ferimento di almeno 30mila civili. La crisi umanitaria è catastrofica: il numero di sfollati supera la cifra di 10 milioni, di cui circa due milioni di richiedenti asilo all’estero, circa 25 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari, 3,5 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni vivono in uno stato di malnutrizione acuta.
Una carestia senza precedenti
Il Sudan sta affrontando una carestia che potrebbe diventare peggiore di qualsiasi altra che il mondo abbia mai visto dopo quella verificatasi in Etiopia negli anni Ottanta, che portò alla morte di circa un milione di persone tra il 1983 e il 1985. Gli aiuti umanitari continuano ad essere bloccati da parte delle due fazioni in conflitto, che utilizzano perciò palesemente la fame come arma di guerra.
Con gran parte dell’attenzione mondiale concentrata su Gaza, teatro di un’altra carestia causata dall’uomo, il Sudan sta dunque silenziosamente scivolando verso un disastro umanitario di proporzioni storiche, con una copertura mediatica e una preoccupazione globale quasi nulla. Al momento, il Paese ha ricevuto solo il 16 per cento degli aiuti umanitari che sarebbero necessari.
Pulizia etnica e crimini contro l’umanità in Darfur
Nelle ultime settimane l’epicentro del conflitto e della crisi umanitaria è la città di El Fasher, la capitale del Nord Darfur, una delle ultime enclave delle Sar nel Darfur ormai sotto il controllo delle Rsf. Medici senza frontiere ha annunciato pochi giorni fa la chiusura dell’ultimo ospedale operativo della città, a causa delle continue incursioni delle Rsf che, oltre a provocare morti e feriti, hanno saccheggiato la struttura, portando via anche delle ambulanze.
Nonostante le continue richieste da parte delle Nazioni Unite di interrompere l’assedio della città, i combattimenti continuano. Giovedì 13 giugno, infatti, il Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione con 14 voti a favore e l’astensione della Russia chiedendo la fine dell’assedio di El Fasher, ma gli scontri hanno portato ad una escalation dopo che le Sar hanno inflitto gravi perdite alle Rsf.
Diverse organizzazioni umanitarie e internazionali accusano i gruppi paramilitari di stare commettendo in Darfur crimini di guerra, tra cui episodi di pulizia etnica. Il procuratore capo della Corte penale internazionale Karim Khan, subito dopo aver richiesto mandati di cattura per la guerra a Gaza, ha lanciato un appello affinché i testimoni inviino prove a sostegno dell’indagine urgente aperta dal suo ufficio sulle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità nella regione sudanese del Darfur.
Il ruolo delle potenze estere nel conflitto
Gli aiuti umanitari insomma non arrivano, mentre i crimini di guerra continuano e i rifornimenti di armi da parte delle varie potenze che appoggiano le due fazioni in conflitto non si sono mai fermati. L’ambasciatore sudanese presso le Nazioni Unite Al-Harith Idriss al-Harith Mohamed ha accusato gli Emirati Arabi Uniti di essere responsabili del proseguimento della guerra: una versione respinta però dal rappresentante di Abu Dhabi.
Non è la prima volta che da Khartoum arrivano queste accuse. Sono diversi infatti gli attori internazionali che appoggiano le due fazioni in conflitto: da una parte le Rsf sono appoggiate dagli Emirati, i cui diplomatici sono stati espulsi a dicembre dal Paese, mentre Egitto, Turchia, Iran e in parte anche la Russia sostengono le Saf.
Sul tema, l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite Linda Thomas.-Greenfield si è molto spesa, in particolare nella riunione della settimana scorsa del Consiglio di sicurezza. La diplomatica ha dichiarato che Washington si è “impegnata” con Abu Dhabi, alleata statunitense, sulla questione. Tuttavia, il resoconto della Casa Bianca dell’incontro avvenuto tra Biden e lo sceicco degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan al vertice del G7 appena conclusosi in Puglia non ha menzionato il Sudan.
Questo costituisce uno dei tanti motivi per cui gli Stati Uniti sono accusati di ipocrisia da parte di molti Paesi, in particolare del Sud globale: Washington da una parte chiede la fine delle forniture di armi alle parti coinvolte nel conflitto in Sudan; dall’altra continua a fornire miliardi di dollari di armi a Israele durante la sua offensiva su Gaza.
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