Unione europea e Unione africana si sono incontrate a Bruxelles per trovare strategie comuni, ma è difficile riuscirci senza dare ascolto alla società civile.
Si sono registrate prossimità e distanze, insieme ad ambizione e disillusione, al summit tra Unione Europea (Ue) e Unione africana (Ua) il 17 e 18 febbraio a Bruxelles. A cinque anni dal precedente, è tornato con un carico nuovo: l’esperienza della pandemia, che ha cambiato i connotati alle relazioni globali – anche se continuiamo tutti a fare resistenza rispetto a certe lezioni che la Covid-19 ha impartito –, e la verifica del percorso compiuto dall’ultimo vertice del 2017.
L’obiettivo è rimasto identico: promuovere una dichiarazione di impegno congiunta, rinsaldare i rapporti tra universi ancora lontani e complessi, ma ormai radicalmente interconnessi, e (soprattutto per l’Europa) provare a contenere la pressione di paesi concorrenti, sempre più interessati all’Africa e presenti in modo imponente sul terreno – la Cina su tutti.
Le questioni affrontate al summit Ue-Ua
Interessante vedere da vicino i temi su cui si è misurata la differenza di approccio tra Ue e Ua che, per altro, non sono due monoliti, ma composizioni articolate. A proposito del pacchetto di investimenti, per esempio: l’Unione europea voleva presentare una lista di progetti finanziati in modo congiunto dalla Commissione europea, dagli stati membri e dalle istituzioni di finanza di sviluppo. Mentre l’Unione africana intendeva sviluppare un piano congiunto che riflettesse meglio le priorità di entrambe le parti, in particolare la questione della transizione energetica: non intendeva ridurre il dibattito al solo tema delle energie rinnovabili.
O ancora: se l’Ue preferiva annunciare una “nuova alleanza” con l’Africa, l’Ua invece – consapevole che è passato poco tempo dall’ultima proclamazione di “alleanza alla pari” – puntava sull’espressione di “partnership rinnovata”, da edificare sulle strategie esistenti. Sui vaccini, altro tema sensibile, l’Ue favorisce i diritti della proprietà intellettuale, mentre l’Ua desidera che i vaccini siano accessibili in modo equo a tutti, con tutti i mezzi possibili.
Sugli aiuti: l’Ue sostiene che “la maggior parte” dei cento miliardi di aiuti dovrebbe andare all’Africa, mentre l’Ua ritiene che “tutta” la quota debba andare all’Africa. Sulle migrazioni: l’Europa si concentra sulla prevenzione della migrazione irregolare, su ritorni e reintegrazioni; mentre l’Unione africana pone in primo piano il ritorno volontario assistito e l’ampliamento dei percorsi legali.
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Il ruolo delle organizzazioni della società civile
Prendere le misure di questi diversi posizionamenti lascia intendere lo stato dell’arte dei rapporti ai vertici: si discute, si cercano soluzioni e parole adeguate, mentre si stanziano miliardi di aiuti. Ma finché i vertici – ed è accaduto di nuovo a Bruxelles – non si paragonano e non si mettono all’ascolto della società civile, rischiano di viaggiare a un livello separato dalla realtà vera, quella che appunto opera sul terreno, copre l’ultimo miglio.
Questo spazio decisivo è abitato, percorso continuamente da chi lavora nelle organizzazioni della società civile. Per il loro compito specifico, per il loro dna, tali organizzazioni sanno riconoscere i bisogni reali delle persone più vulnerabili, delle loro comunità, insieme anche alle risorse che sono in grado di offrire. In forza di questa vicinanza al terreno, sono anche capaci di inventare soluzioni nuove, adeguate, quindi efficaci, per rispondere a quei bisogni.
Questo si traduce per esempio in un uso misurato delle risorse economiche, nella capacità di spendere e rendicontare con trasparenza, di misurare se avviene un cambiamento in meglio nella vita delle persone, di valutare in generale l’impatto di un’azione nel tempo, anche a distanza di anni. In sostanza, il valore aggiunto di queste organizzazioni sta nel fatto che non fanno atterrare dall’alto (il top down si conferma fallimentare) programmi di sviluppo, ma coinvolgono dal basso come protagonisti del loro sviluppo i beneficiari stessi dei progetti, mettendo in rete i tanti stakeholder, istituzioni private e statali, mondi diversi che solo insieme possono favorire uno sviluppo sostenibile.
Perché ancora questa resistenza a dare ascolto durante i summit e i vertici a chi sta sul terreno? Per snobismo? Miopia? Scarsa intelligenza della realtà? In ogni caso, costa caro a tutti noi. E dopo l’esperienza del 2020-2021, non ce lo possiamo più permettere.
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