L’Arabia Saudita continua ad essere sede di importanti eventi sportivi europei come la Supercoppa italiana tra Milan e Inter, nonostante la sistemica violazione dei diritti umani.
È di pochi giorni fa la notizia della condanna a morte di Awad Bin Mohammed Al Qarni, docente universitario saudita diventato famoso per essere uno dei più importanti critici del principe ereditario Mohammed Bin Salman. Arrestato nel 2017 con l’accusa di uso improprio dei social media al fine di diffondere opinioni ostili al regime, Al Qarni è stato sentenziato alla pena capitale. La notizia è stata diffusa dal Guardian in seguito alle dichiarazioni di Nasser Al Qarni, figlio del professore e rifugiato in Gran Bretagna, esattamente due anni dopo l’arresto dell’attivista e ricercatrice universitaria Salma al-Shebeb che, lo scorso agosto, è stata condannata a 34 anni di carcere, seguiti da altrettanti anni di divieto di viaggio all’estero, sempre con la stessa accusa di diffusione di opinioni ostili su Twitter. Il regime duro dei dissidenti si è visto anche con la cifra record di esecuzioni di pene capitali nel 2022. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International per l’Italia, l’anno scorso sono state eseguite circa 150 condanne a morte. Ed è la stessa Amnesty ad essersi espressa contro la scelta della Figc di tenere la Supercoppa italiana, mercoledì 18 gennaio, a Riyad.
Supercoppa italiana a Riyad: lo sportwashing del regime saudita
La strategia saudita di usare lo sport come strumento della ripulitura della propria immagine è cominciata qualche anno fa, nel momento in cui il principe ereditario ha iniziato ad essere più influente, ma è evidente che negli ultimi mesi siano aumentati eventi che tendono in questa direzione – anche per porsi in contrapposizione con il rivale Qatar. Non solo l’operazione milionaria per portare Cristiano Ronaldo a giocare all’al-Nasr Football Club, per il quale è stata addirittura emessa una legge ad personam per permettere al campione portoghese di vivere con la compagna Georgina Rodríguez, nonostante non siano sposati – la convivenza senza matrimonio è illegale in Arabia Saudita – ma Riyad continua ad essere sede di importanti eventi sportivi europei: il 15 gennaio si è tenuta la Supercoppa spagnola, vinta tre a uno dal Barcellona sul Real Madrid, il 18 gennaio è il turno della Supercoppa italiana, che vede il Milan contro l’Inter. Il giro di affari per questo evento si aggira sui 7,5 milioni di euro, cifra, in realtà destinata a crescere. Infatti, il Paese ha proposto alla Figc 23 milioni a stagione per un contratto a lungo termine, che porti a giocare il meglio della serie A nel deserto. Il fine ultimo? Ottenere l’assegnazione per il mondiale del 2030.
E i diritti umani in Arabia Saudita?
Esattamente come l’assegnazione al Qatardel controverso mondiale appena conclusosi, siamo nuovamente di fronte alla scelta di non vedere le condizioni dei diritti nei Paesi ospiti delle kermesse – siano esse sportive o culturali. Non solo, le dichiarazioni di Infantino al termine del Mondiale in Qatar, definito come il migliore della storia, potrebbero portare al mantenimento dello status quo, con la continua assegnazione della Coppa del mondo ai regimi autoritari, esattamente come in passato. Se per il mondiale in Qatar abbiamo visto diverse prese di posizione per il boicottaggio dell’evento, sembra, invece, che per quanto riguarda l’Arabia Saudita siano solamente le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani a porsi il problema, con l’eccezione dei tifosi britannici.
In Gran Bretagna, infatti, la polemica in merito all’ingresso dei sauditi nel calcio continua da anni, e ha avuto il suo apice il 7 ottobre 2021, quando il consorzio saudita Public investment fund ha comprato il Newcastle United, club della Premier League. Da allora, i tifosi del Newcastle continuano a protestare contro lo sportwashing del regime. In linea generale, però, delle problematiche etiche di certi regimi, sembra importare solo ai tifosi, e non alle federazioni europee e ai loro governi, che, ora più che mai, necessitano di investimenti – ma soprattutto di idrocarburi – dai Paesi del Golfo.
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