Per due volte in sei mesi Biden ha preso le parti di Taiwan nell’eventualità di un’aggressione cinese all’isola.
Gli Usa avevano finora mantenuto un’ambiguità strategica su Taiwan: fornivano armi ma non garantivano protezione militare.
Il cambio di passo di Biden potrebbe essere volto a scoraggiare un esito simile a quello ucraino.
È bastata una parola, un semplice “Yes”, per creare una crisi diplomatica tra gli Stati Uniti e la Cina riguardo a Taiwan. L’isola indipendente de facto, che Pechino continua a considerare parte del proprio territorio, è diventata oggetto di una domanda in una conferenza stampa in Giappone del presidente americano Joe Biden. Quando il giornalista gli ha chiesto se Washington interverrebbe militarmente per difenderla in caso di attacco cinese, il capo della Casa Bianca ha risposto in modo affermativo. Tre lettere che sono state lette come una rivoluzione nella politica orientale degli Usa, la fine dell’”ambiguità strategica” che li ha sempre contraddistinti sul tema.
Un recap su Taiwan
All’inizio del secolo scorso l’impero cinese era in crisi profonda e la caduta della dinastia Qing nel 1912 con la rivoluzione Xinhai portò alla nascita della Repubblica di Cina, guidata dal partito nazionalista Kuomintang. Quest’ultimo creò un governo contrapposto a quello di Pechino, guidato dai giapponesi, e negli anni successivi alla prima guerra mondiale creò un fronte comune assieme al neonato partito Comunista.
Presto l’idillio tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti si ruppe. Le rivolte operaie e proletarie alimentate dal primo in alcune aree del paese portarono a una forte repressione da parte del leader del Kuomintang Chiang Kai-shek, che creò un suo governo nella città di Nanchino. I comunisti si organizzarono con una Repubblica sovietica alternativa nel Jiangxi, poi Mao Zedong fondò uno stato a Yan̓an. Le due realtà si riavvicinarono dopo l’invasione giapponese della Cina nel 1939, ma la situazione degenerò alla fine della seconda guerra mondiale con la guerra civile che li contrappose. Vinsero i comunisti, che nel 1949 fondarono la Repubblica popolare di Cina. Il leader del Kuomintang fuggì sull’isola di Taiwan, dove proseguì l’esperienza della Repubblica di Cina, una democrazia appoggiata dagli Stati Uniti e dal resto dell’Occidente che Junki Terao su Internazionale ha definito “l’altra versione della storia se la storia avesse preso una piega diversa”.
A partire dagli anni Settanta la comunità internazionale, sull’onda della normalizzazione dei rapporti con Pechino, ha smesso di riconoscere Taiwan e il suo governo come i rappresentanti della Cina e l’isola ha perso anche il suo seggio all’Onu, dato alla Cina continentale comunista. Oggi Taiwan è riconosciuta solo da una manciata di paesi, tra cui la Città del Vaticano, mentre la gran parte degli altri, compresa l’Italia, vi mantengono relazioni commerciali cordiali che non sfociano però nel campo politico. Pechino continua a considerarla invece una provincia ribelle, per quanto detenga governo, elezioni, diplomazia e istituzioni proprie.
Frequentemente si verificano episodi di tensione nell’area, per esempio lo sconfinamento di aerei cinesi nel suo spazio aereo e la legge antisecessione del 2005 contro l’indipendenza dell’isola, che si alternano a momenti di maggiore distensione, come l’incontro del 2015 tra i presidenti Xi Jinping e Ma Ying-jeou. In ogni caso quello di Taiwan resta un dossier molto delicato.
La politica Usa su Taiwan
I rapporti tra gli Stati Uniti e Taiwan sono stati ottimifino agli anni Settanta, tanto che Washington considerava l’isola come l’unica rappresentante della Cina. Poi, con la visita del presidente Richard Nixon nella Repubblica popolare nel 1972, lo scenario è cambiato e la normalizzazione dei rapporti con la Cina continentale ha portato a mettere in secondo piano Taiwan, con cui comunque le relazioni politiche ed economiche sono rimaste buone. Con il Taiwan Relations Act del 1979 gli Usa hanno riconosciuto all’isola alcuni dei privilegi propri di una nazione sovrana (compreso l’invio di armi per l’autodifesa), pur non considerandola come tale.
In generale, la posizione degli Stati Uniti su Taiwan viene definita di “ambiguità strategica”. Da una parte c’è un sostegno militare ed economico al paese, dall’altra non è mai stato detto a chiare lettere in che modo Washington reagirebbe a un’eventuale aggressione cinese all’isola. Ma nell’ultimo anno le cose sono cambiate.
Il nuovo corso di Biden
A ottobre 2021 il presidente Biden, durante un’intervista alla Cnn, aveva dichiarato che il suo paese sarebbe stato pronto a prendere le armi per difendere Taiwan in caso di un attacco da parte di Pechino, frase che seguiva la definizione di “prepotente e aggressiva” data alla politica estera cinese da parte dell’ambasciatore americano Nicholas Burns. La Cina non l’aveva presa bene e aveva chiesto agli Usa di “non mandare segnali ai secessionisti”. Sembrava che la crisi fosse rientrata, anche perché lo staff della Casa Bianca era intervenuto rassicurando che la politica Usa nella regione non era cambiata. Invece nelle scorse ore è risalita la tensione.
Durante una conferenza stampa in Giappone un giornalista ha chiesto a Biden se il suo paese interverrebbe militarmente a Taiwan in caso di aggressione cinese, a differenza di quanto sta facendo in Ucraina. Il presidente Usa ha risposto senza esitazioni “Yes” e se due indizi fanno una prova, il fatto che questo sia stato detto per due volte nel giro di pochi mesi fa credere che effettivamente qualcosa stia cambiando, per quanto di nuovo la Casa Bianca abbia poi corretto il tiro e ribadito che l’ambiguità strategica prosegue.
VIDEO: President Joe Biden says United States would defend Taiwan militarily if Beijing invaded the self-ruled island.
"That's the commitment we made… We agreed with the One China policy, we signed on to it… but the idea that it can be taken by force is just not appropriate" pic.twitter.com/gWkmj2y7d9
Stavolta peraltro la risposta affermativa di Biden è arrivata nel contesto della guerra in Ucraina, in quello che appare un chiaro avvertimento alla Cina a non provare a emulare Mosca. L’annessione di Taiwan è da tempo nell’agenda di Pechino e Xi Jinping in passato ha dichiarato che la questione sarebbe stata risolta dalla sua generazione. Subito dopo l’aggressione russa all’Ucraina molti analisti hanno guardato proprio a Taiwan, prevedendo la possibilità che possa verificarsi un effetto domino. La nuova linea americana potrebbe essere volta a scongiurare tutto questo.
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