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L’alpinista Tamara Lunger porta l’arrampicata, e la libertà della montagna, tra le bambine del Pakistan
Un progetto solidale per insegnare alle bambine del Pakistan ad arrampicare. È quello avviato dall’alpinista Tamara Lunger, che ci parla del suo rapporto puro con la montagna.
“La montagna ti dà sempre un’energia. In ogni posto senti qualcosa di diverso, e io provo ogni volta a interpretare cosa mi vuole dire. La montagna la sento come un’anima donna. Io parlo sempre con le anime donne”. Un rapporto con la montagna che l’alpinista Tamara Lunger ci ha raccontato e trasmesso dal primo momento che l’abbiamo incontrata. Così come siamo stati catturati dalla sua energia e la sua passione verso gli elementi che la circondano e con cui entra in contatto.
Alpinista, esploratrice, scalatrice, Tamara Lunger ha da sempre vissuto la montagna, dalle cime “di casa” altoatesine fino a quelle più alte del mondo, gli ottomila. È stata infatti la donna più giovane ad aver mai scalato il Lhotse (8.516) e la seconda donna italiana ad aver raggiunto la cima del K2 (8.609) senza ossigeno. La sua è una ricerca di un rapporto puro con gli elementi, nel loro rispetto, che l’ha portata ad avvicinarsi alle spedizioni invernali, ma che l’ha anche spinta lontana da quelle cime, per scoprire a più basse altitudini territori e culture, e anche se stessa.
Un esempio è uno delle sue ultime iniziative: tornare in Pakistan non per una spedizione, ma per insegnare alle bambine della valle di Shigar ad arrampicare, portando avanti il progetto solidale Climbing for a reason, in memoria dell’alpinista e amico cileno Juan Pablo Mohr.
Un altro esempio sono i suoi “Tamara tour”, prima in Italia nel 2020 e poi in Spagna nel 2021, che la vedono impegnata a scoprire le cime di questi paesi e avvicinarsi alle loro persone, tradizioni e storie.
Noi l’abbiamo incontrata per fare insieme un viaggio alla scoperta del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise – diventato un longform. L’obiettivo era conoscere i ventiquattro comuni che il Parco ospita e scoprire come l’equilibrio tra uomo, animali e natura è possibile. Abbiamo condiviso paesaggi, volti e storie, compresa la sua.
Chi è Tamara Lunger?
Buona domanda. È una fanciulla in continua evoluzione [ride, ndr]. Sono sempre tanto in movimento e con nuove idee. Sto poco ferma, sono costantemente in cambiamento. Ogni spedizione mi dà degli insegnamenti, anche brutti, che mi fanno tornare a casa un’altra persona.
Qual è la tua storia con la montagna, come ti ci sei avvicinata?
Siamo sempre andati in montagna col papà, lui gareggiava e noi eravamo il suo grande fan club. Abbiamo passato ogni fine settimana con lui alle gare, poi ha deciso di prendere in gestione un rifugio e quindi a 12 anni sono andata anche io. Da lì guardavo le montagne ogni giorno, mi sembravano così belle, mi sono innamorata, ogni giorno nuovamente. E poi ho detto: “Vorrei andare in montagna”. E mia mamma mi diceva: “Ma sei sempre in montagna cosa vuoi di più”. Pian piano sono cresciuta, ho cominciato con lo scialpinismo e sono entrata nella squadra nazionale. Ma nel 2008 ho sentito che tutto questo era bello ma mi mancava qualcosa, vivere la montagna con tutti i miei sensi. Nelle gare non hai tempo per guardarti in giro, devi solo correre. Il desiderio di provare un ottomila lo avevo già a 14 o 15 anni e poi ho conosciuto Simone Moro e mi ha portato la prima volta nel 2009 e da lì è cominciato. Lì mi sono sentita come lo avevo sempre sognato e ho detto ok, questo è il mio futuro. E da lì sono partita.
In questo senso, qual è il tuo approccio, il tuo rapporto con la montagna e la natura in generale?
Prima era una cosa molto di prestazione, durante le gare. Poi è diventato poco per me. Ho sempre cercato il limite da qualche parte, fin dove posso spingere senza farmi male.
Però la transizione da prestazione a godersi la natura non è stata dall’oggi al domani, ma abbastanza lunga. Ora chiedo ancora molto a me stessa, ma lo faccio con molto più rispetto verso di me.
Per anni non ho ascoltato il mio corpo, quindi prima o poi mi dovevo fermare. L’ultima volta che mi sono fermata era circa il 2017, mi sono detta “lascio il tempo al mio corpo”. Lì ho capito tantissimo. Ora il mio focus non è più la prestazione, ma vivere la natura in tutti i suoi aspetti. A volte prendendosi anche più tempo. Prima dicevo un giorno senza montagna è un giorno perso, però ora posso vivere non solo la montagna ma tutta la natura. Posso essere anche al mare e vedere la natura e godermi quello che ci è stato regalato. Sento molto di più il mio corpo, la mia intuizione, ed è tutto più bello. Prima era solo “fare” per completare qualcosa, ora è essere lì con tutti i miei sensi. E portarmi a casa molto di più.
Cosa significa essere una alpinista donna?
All’inizio non ci facevo neanche tanto caso, mi vedevo sempre una di “loro”. Non sono cresciuta sentendomi dire tu sei una donna e non sei capace, o non fare questo perché sei una donna. Noi eravamo tre figlie e abbiamo fatto tutto quello che hanno fatto i ragazzi, ci davamo anche le botte! Non mi sentivo mai inferiore, anzi volevo essere sempre più forte.
Però con il tempo ho visto che il mio punto di vista era un po’ diverso dalle altre donne. Un po’ come il mio modo di andare in montagna – con un piccolo team, sempre in inverno. Questo a me piace, l’essere da soli in montagna, con la piena responsabilità per tutto. Ma non sono in tante donne che lo fanno, o al momento non le conosco.
In generale non ho mai sentito ostilità, forse non me lo dicono, non lo so. Tanto anche dipende come sei tu. Ma non mi sono mai sentita sminuita.
Come vedi il futuro della montagna?
È uno spazio libero che sicuramente anche in futuro verrà sfruttato in modi diversi. Ci sarà la prestazione, ci sarà chi si gode la natura. Io sono molto tollerante, ognuno ha il proprio sogno. Ma ad esempio io ho un certo stile e non posso pensare di andare sull’Everest e non trovare gente. Quindi cerco le circostanze che sono perfette per me: andare su un seimila o settemila sconosciuto e inviolato. C’è spazio per tutti e per tutte le attività, con diverso spirito. L’unica cosa che spero è che aumenti un po’ la consapevolezza verso la natura, dobbiamo essere rispettosi, non sporcare e non lasciare immondizia, perché questo è ancora un grosso problema in diverse parti del mondo.
Secondo te c’è più consapevolezza ora?
Non proprio. Ho visto dei campi base molto sporchi, pieni di rifiuti, gente che buttava giù l’immondizia dalle rocce. Ho visto cose brutte. Mi chiedo se una persona vede il valore nella montagna, perché si comporta così. Certe cose non le capisco. Però a volte la montagna – ad esempio l’Everest – è solo un simbolo che loro vogliono conquistare senza essere montanari.
Anche in Cina, Pakistan o in Nepal, la gente non è ancora così avanti su questo problema. Quando vedo questo mi fa proprio male. Spero che in dieci anni le cose saranno diverse. Però anche da noi ai tempi dei nostri genitori era tutto diverso, la gente buttava tutto in giro, mentre ora c’è un’altra consapevolezza. Ci vuole tempo.
Parlaci invece del progetto Climbing for a reason, per portare l’arrampicata tra i bambini del Pakistan
È stato bellissimo perché sono entrata in questa cultura che prima avevo sempre solo sfiorato, andando in spedizione era sempre un attimo molto breve. Quando ti avvicini alla montagna, non entri veramente nella cultura. Questa volta è stata tutta un’altra cosa, molto interessante, tutto nuovo per me.
Volevamo partire con questo progetto perché anche loro, i locali, i bambini, avessero la possibilità di entrare in contatto con le loro rocce. Lì nessuno scala nonostante abbiano tanto potenziale e anche le montagne alte così vicine. Insegniamo loro a scalare, abbiamo costruito una parete artificiale e fatto delle vie su roccia. Sono molto orgogliosa perché abbiamo non solo bambini ma anche bambine. Abbiamo lottato tanto per questo e grazie a una collaborazione con Naila Yasmeen, membro dell’associazione in Pakistan, siamo riusciti.
Com’è andato l’incontro con questa cultura?
All’inizio in un villaggio ci hanno bocciato: “No, le nostre ragazze non scalano”. Eravamo molto tristi, ma Naila ha proposto di farlo nel suo paese, con lei che andava di casa in casa a chiedere personalmente di lasciare scalare le loro figlie. E così è stato. Alla fine abbiamo avuto più di 50 ragazze, dai 4 a 17 anni. Non erano sempre così tante, noi però eravamo sempre là, cercando di dare il massimo, dalla mattina alla sera. Insegnavamo i nodi, come si clippa un rinvio, sfruttavamo ogni minuto.
Erano tutti sempre insieme, ma le bambine più piccole erano molto più libere: non hanno bisogno del velo, possono indossare un vestito senza maniche. Però dai dieci in su devi diventare donna: devi vestirti come una donna, devi comportarti come tale, e certe cose non puoi farle più. Quando vedi le ragazze più piccole pensi, che bella vita che hanno ancora, dopo tra qualche anno per loro sarà tutto diverso. Per chi è nato lì contano queste cose, e quindi per me all’inizio era deludente, ma poi lo accetto perché sono loro valori. Non devo essere triste.
All’inizio ridevano e basta, era tutto divertente. Poi hanno preso confidenza, e alla fine hanno anche pianto quando siamo andati via. “Dovete tornare”, ci hanno detto. Si è creato un rapporto molto bello, non solo con noi donne ma anche con i ragazzi del team. Ed è una cosa un po’ anomala perché le ragazze sopra ai 10 anni hanno solo contatto con ragazze. Noi qui invece siamo stati visti come climbing team e senza differenza tra generi. Hanno accettato i loro insegnamenti, si sono fatte aiutare da loro. Non c’era una separazione.
Alla fine ho visto un cambiamento in loro, sono diventate più sicure, più autonome, avevano più coraggio.
Qual è il futuro del progetto?
Il muro di arrampicata rimarrà lì fisso. Vederlo funzionare è bello, ma stiamo cercando anche contributi dalla gente, per portare avanti questa cosa. Io vorrei andare lì ogni anno, anche con diversi climber a fare altre vie su roccia. Vorremmo migliorare tutto, magari creare una climbing house al chiuso perché lì l’inverno è molto duro.
È una cosa molto bella, sono molto orgogliosa. Sicuramente non finisce qui e andrà avanti.
Questo progetto è in nome di JP, Juan Pablo Mohr. Quando eravamo al campo base del K2 mi diceva che voleva fare questo progetto e mi aveva detto di farlo con lui. Poi le cose sono andate diversamente, ma noi con i suoi amici abbiamo detto che dovevamo portarlo avanti a suo nome.
La montagna mi ha regalato tanta gioia, ma allo stesso tempo mi ha rubato tanto. Quindi una volta ancora mi ha detto che le montagne sono da rispettare e che bisogna essere molto attenti e molto onesti con se stessi, cosa si può o non può fare, per ritornare sani e salvi a casa
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