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Teach for Italy: un ponte verso l’uguaglianza educativa. Intervista ad Andrea Pastorelli
Andrea Pastorelli, direttore generale di Teach for Italy, spiega come giovani talenti possano diventare agenti di cambiamento nelle scuole svantaggiate.
Teach for Italy è un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di affrontare e ridurre le disuguaglianze educative in Italia. Il progetto si inserisce nella più ampia rete internazionale Teach for All, nata nel 1989 negli Stati Uniti con Teach for America e oggi attiva in più di sessanta paesi.
L’idea alla base è quella di reclutare e formare giovani talenti, i cosiddetti fellow, che si impegnano a insegnare per almeno due anni nelle scuole coinvolte in contesti svantaggiati, con l’intento di elevare la qualità dell’istruzione pubblica e stimolare un cambiamento positivo e duraturo nell’ecosistema educativo. Il programma di formazione professionale, offerto alle persone che superano le selezioni iniziali, mira a equipaggiarle con le competenze necessarie per diventare agenti di cambiamento nelle scuole e comunità in cui operano. Con l’ambizione, nel lungo periodo, di costruire un sistema in cui l’accesso a un’istruzione di qualità non sia più determinato dal contesto socio-economico di origine.
Questo modello si è già ampiamente dimostrato efficace nel mondo ed è arrivato in Italia a fine 2019. Abbiamo contattato Andrea Pastorelli, direttore generale di Teach for Italy, per farci raccontare la sua genesi ed evoluzione nel nostro paese.
Ci sono delle competenze che una persona dovrebbe già possedere per accedere ai vostri programmi?
Da ottobre a maggio apriamo una campagna di reclutamento e chiunque può fare domanda, anche chi è già all’interno del mondo della scuola. Non ci sono limiti di età né discriminazioni. Quella di entrare nella nostra rete di fellow è un’opportunità che offriamo a chi ha la voglia di coglierla: la possibilità di intraprendere in modo gratuito un percorso formativo d’eccellenza che dura due anni, con un’esperienza retribuita nell’insegnamento. Una volta entrati nelle scuole o nei centri di formazione professionali, infatti, le nostre e i nostri fellow percepiscono regolare stipendio dallo stato italiano.
Per diventare fellow è necessario superare le selezioni durante le quali valutiamo undici competenze trasversali, che sono un misto fra soft skills e le 21st century skills dell’Unione europea, dell’Ocse e dell’Unesco. In particolar modo, cerchiamo tre ingredienti. Il primo è la volontà di fare un percorso altamente trasformativo per sé stessi: essere consapevoli del fatto che il sistema educativo italiano è rotto e iniquo e avere la volontà di buttarsi in una missione sociale enorme risolvere questa priorità. Valutiamo anche la consapevolezza sociale e le competenze relative al volere e al sapere stare con i ragazzi: l’empatia, la diplomazia, la capacità di comunicare e gestire situazioni difficili. Durante le selezioni facciamo simulazioni di situazioni reali, per capire come si comporterebbero le persone candidate.
Come identificate le scuole in contesti di svantaggio dove lavorare?
Abbiamo una partnership con il ministero a livello centrale, regionale e provinciale in tutti i territori in cui operiamo. Insieme alla Fondazione Agnelli, una delle più importanti sulla ricerca educativa, abbiamo sviluppato un “indicatore di marginalizzazione” attraverso il quale analizziamo tutti i dati pubblici sulle scuole di un certo territorio. Identifichiamo le scuole con i più alti tassi di abbandono e di studenti che ripetono l’anno e, in alcuni casi, vediamo quanti studenti terminano quella scuola e poi si iscrivono all’università o al livello scolastico successivo.
Compariamo poi questi dati con quelli del contesto in cui la scuola si colloca: dal valore delle case alla percentuale di criminalità. Infine, mettiamo insieme questi indicatori, che sono in tutto dodici, e ricaviamo un macro indicatore che ci aiuta a determinare che investire in una specifica scuola può fare la differenza.
Come si colloca il nostro paese nel panorama internazionale, ed europeo nello specifico, a livello di sistema scolastico e di disuguaglianza educativa?
Noi partiamo proprio da questa domanda e la risposta è uno dei motivi per cui è nata Teach for Italy nel 2019. Se compariamo dati come la percentuale di abbandono scolastico precoce o le percentuali di Neet, che sono i giovani sotto i trentacinque anni che non lavorano, non studiano e non si formano, scopriamo che il nostro paese ha percentuali molto alte. In alcune regioni italiane, i neet sono più del 33 per cento: quasi il triplo della media europea.
Siamo il fanalino di coda sul fronte delle diseguaglianze educative e, soprattutto, siamo messi molto peggio rispetto a paesi ad alto reddito come Canada, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda. Inoltre, siamo considerevolmente sotto la media per gli investimenti sul sistema educativo negli ultimi trent’anni. E adesso iniziamo a vederne le conseguenze in tutti gli ambiti, dall’edilizia scolastica alla mancanza di 220mila insegnanti e dirigenti scolastici.
Un altro dato indicativo è quello sulle competenze degli studenti, che sono in continuo peggioramento soprattutto in matematica e scienze, comprensione del testo e digitale. Anche se non siamo i soli: la maggior parte dei paesi ad alto reddito, infatti, registra un declino continuo pur investendo più di noi. Il nostro primo obiettivo, quindi, è quello di contrastare questo calo continuo delle competenze. Il secondo è di lungo periodo: vogliamo che tutti i nostri fellow, che speriamo nei prossimi anni saranno migliaia, rimangano all’interno della scuola per rafforzare il sistema dall’interno. Non solo come docenti, ma come dirigenti scolastici e oltre.
Alcuni dati dimostrano come il cosiddetto ascensore sociale in Italia sia bloccato da anni. Solo quattro italiani su dieci si aspettano una posizione sociale migliore per i propri figli. Come si inserisce la scuola in questo contesto?
La scuola da sola non può essere l’unico ingrediente di mobilità sociale, ma è sicuramente uno degli ingredienti chiave e l’Italia è una delle prove più lampanti a livello internazionale. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il nostro era un paese a maggioranza analfabeta che, dagli anni Cinquanta ai Settanta, in una sola generazione, è passato a saper leggere e scrivere. Questo ha permesso il famoso boom economico degli anni Settanta-Ottanta e il sorpasso nei confronti della Gran Bretagna.
La scuola pubblica ha giocato un ruolo centrale, per poi fermarsi a metà degli anni Novanta e primi anni Duemila. Secondo me, questo è accaduto perché abbiamo incominciato a disinvestire nella scuola sia a livello politico che economico. La scuola che abbiamo fatto noi proveniva da un sistema finanziato e strutturato. Adesso, se scegli la strada dell’insegnamento, devi essere preparato a cinque anni di precariato (se sei fortunato) e senza una continuità didattica. Oltre alla scuola, ci sono sicuramente tante altre ragioni. La realtà è che l’Italia è sempre stato un paese con pochissima mobilità sociale, come evidenziato da uno studio di qualche anno fa per il quale le famiglie più ricche di Firenze sono le stesse da seicento anni.
In Italia siete attivi da fine 2019, quindi siete nati praticamente in epoca Covid. Cosa ha significato avviare questo progetto in un periodo così complesso?
È dal 2017 che lavoriamo a questo sogno di Teach for Italy, ci sono voluti un paio di anni per costruirlo e siamo partiti a fine 2019 e con i primi programmi nel 2020. Chiaramente, è stato uno dei momenti peggiori per lanciare una non profit in campo educativo, con le scuole chiuse e il paese in lockdown. Eravamo in pochi, avevamo pochi soldi e zero esperienza. Abbiamo subito dovuto trasformare tutto in un programma digitale e i nostri primi docenti hanno iniziato a insegnare con la dad. È stata una sfida enorme, un periodo in cui sono invecchiato tantissimo! Però, è stata anche un’enorme opportunità.
Il Covid è stata una cartina al tornasole. Negli ultimi dieci-quindici anni, la scuola in Italia non ha mai avuto un peso sociale o politico importante come durante l’epoca Covid. Quando si ha un bambino, come genitori si fa di tutto per potergli offrire la migliore istruzione. Eppure, quando andiamo a votare, la scuola non è mai nella lista di priorità. Durante il Covid, invece, ci siamo resi conto quanto la scuola sia centrale per il funzionamento della società. In quei mesi, noi siamo partiti con quindici docenti in dieci scuole in cui i nostri fellow hanno fatto benissimo, essendo stati formati anche al digitale, tant’è che molti di loro hanno fatto formazione agli altri docenti per rendere la dad innovativa e coinvolgente. Insomma, sono stati subito percepiti come risorse eccezionali. Questo senso sociale di riscatto della scuola ci ha aiutato a creare una coalizione di persone (anche esterne) che hanno capito la sfida che volevamo lanciare e che ci hanno permesso di non morire ma, anzi, di fortificarci e dimostrare il valore della nostra missione.
Quanti sono i vostri fellow e quali le regioni dove operate?
Prima di tutto vorrei lanciare una call to action: fino a metà maggio sono aperte le nostre selezioni. Nel 2023 abbiamo ricevuto più di mille domande per 45 posti. Quest’anno, stiamo puntando ad averne 1.400 domande per poter selezionare circa 60 fellow e arrivare a settembre 2024 a un totale di cento docenti in 70 scuole. Abbiamo un piano triennale che ci vede arrivare a cento scuole in contesti id svantaggio all’anno e vorremmo selezionare almeno 120 profili ogni anno dal 2025 in poi. Siamo presenti principalmente in Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana e in Campania, Sicilia e Sardegna, ma nei prossimi anni vorremo coprire tutte le regioni.
Al momento, sta andando molto bene: le application ci sono e le persone ci conoscono, ma vorremmo essere ancora più conosciuti. Per questo lavoriamo molto con le università, ma anche con le aziende. La nostra può essere una bella opportunità per tutte queste persone che a un certo punto si sentono un po’ vuote e vogliono fare qualcosa di diverso, di realmente impattante.
Come misurate l’impatto delle vostre iniziative sulle scuole, sugli insegnanti e sugli studenti?
Lo misuriamo su tre livelli. Il primo è l’impatto sui nostri docenti, sulla loro crescita nei due anni sia a livello personale che professionale. Come migliorano sia a livello didattico, ma anche come gestiscono lo stress. Il secondo livello di impatto che monitoriamo è quello sugli studenti, anche in questo caso a livello sia didattico sia metacognitivo: come si sentono dopo un anno passato con un nostro docente, qual è il loro rapporto con la scuola, se sono sereni e felici di andarci, cosa pensano di sé stessi e del loro ruolo all’interno della scuola, quali sono i loro sogni e le loro aspirazioni per il futuro.
Infine, misuriamo il nostro impatto a livello scolastico: facciamo sondaggi in ogni scuola in cui siamo e analizziamo i risultati con il dirigente scolastico e all’interno della scuola e della comunità educante. Da quest’anno, coinvolgiamo anche i genitori per capire cosa pensano del percorso educativo del proprio figlio o figlia. Questo è anche un modo di coinvolgerli e responsabilizzare le famiglie verso il percorso educativo dei propri figli e figlie.
In altri paesi, il metodo Teach for All è presente da quasi trent’anni. Ci puoi indicare qualche esempio a dimostrazione del fatto che progetti di questo tipo hanno un reale impatto sul sistema scolastico/educativo?
Le prime tre organizzazioni nate trent’anni fa e poi vent’anni fa sono Teach for America, Teach First e Teach for India. Tutte e tre hanno degli esempi di impatto eccezionali. Il primo esempio è quello dell’est di Londra. Teach First oggi è una realtà molto grande che inserisce circa duemila insegnanti all’anno. A fine anni Novanta avviò un programma concentrandosi proprio sull’est di Londra che, all’epoca, era uno dei distretti scolastici più fallimentari. In vent’anni, quelle scuole sono state totalmente trasformate sotto la guida proprio di molti ex fellow, che si chiamano alumni, diventati dirigenti scolastici o entrati nel ministero: la percentuale di ragazzi di quel distretto che adesso va all’università è oggi triplicata.
Altro discorso per Mumbai, in India, dove gli alumni si sono resi conto che il problema era negli slum: i bambini che arrivavano da lì lasciavano subito la scuola pubblica perché non parlavano l’inglese, lingua usata per le lezioni. Quindi, si è creata una rete di scuole in tutti gli slum per trasmettere ai bambini le stesse competenze degli altri.
Infine, l’esempio di Washington Dc. Quando nacque Teach for America, era uno dei distretti con i più bassi risultati di tutti gli Stati Uniti. Negli ultimi trent’anni, il sistema è stato completamente ristrutturato, anche dal punto di vista della racial justice: fino a 10-15 anni fa, tutti gli insegnanti erano bianchi, ma l’80 per cento degli studenti era nero. Si è lavorato molto anche sulla diversity del corpo insegnante e sull’inclusione di role model diversificati. Questa è una cosa che facciamo anche noi come Teach for Italy e a cui stiamo lavorando: ogni anno abbiamo una percentuale sempre più ampia di docenti che rispecchiano percorsi ed esperienze più simili agli studenti ai quali andranno a insegnare.
Dopo le scuola superiori, tu ti sei spostato dall’Italia per studiare e successivamente iniziare la tua carriera professionale all’estero. Poi sei tornato in Italia, per dedicarti a un progetto che ha proprio come focus l’educazione. Come mai questa scelta?
Io ho vissuto in Cina, in Africa, negli Stati Uniti, a Londra e ovunque ho sempre creato buone relazioni con la comunità italiana. Quando vivi con gli italiani fuori dall’Italia, ti rendi conto quanto ci manca il nostro paese. Il problema è che molti non trovano le opportunità giuste. Invece, non riuscivo a capire perché i miei amici, che in Italia ci vivevano, non vedevano l’ora di andarsene, erano esasperati; ogni volta che tornavo trovavo un paese sempre più povero a livello economico, culturale e sociale. Questo, forse, è stato lo scatto che mi ha fatto tornare: per contribuire a quella che, secondo me, è per importanza una delle missioni nella top 5 o top 3 del nostro paese. Dopo tanti anni, dopo aver aiutato altri paesi tramite le Nazioni Unite con grande orgoglio e soddisfazione, volevo fare qualcosa per l’Italia.
Se non riusciamo a rendere i nostri sistemi educativi più equi e a renderli di nuovo ascensori sociali, la nostre società non ha grandi chance di sopravvivere in un mondo che diventa sempre più complesso, sempre più competitivo, sempre meno stabile. Nei prossimi quindici anni l’intelligenza artificiale ci bombarderà. Se come società non abbiamo le competenze sociali, economiche, culturali per affrontare queste sfide, i nostri paesi continueranno a indebolirsi e impoverirsi.
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