Hadis Najafi, una ragazza di appena vent’anni uccisa dalle forze di sicurezza, è diventata l’ultimo simbolo delle proteste nazionali in Iran dal loro inizio il 16 settembre, dopo la morte di Mahsa Amini. La giovane, infatti, era recentemente diventata virale sui social media, dopo aver postato un video in cui mostrava come si stesse preparando a partecipare alle rivolte antigovernative che, ormai, infiammano tutto l’Iran.
La giornalista e attivista per i diritti delle donne Masih Alinejad ha annunciato la sua morte il 25 settembre. La ragazza è morta dopo essere stata colpita da sei colpi di pistola da parte delle autorità, dopo essersi tolta il velo, aver legato i capelli ed essere entrata coraggiosamente nel mezzo di una protesta a Karaj. Secondo le stime dichiarate dalle fonti governative, dall’inizio dei disordini sono morte almeno 41 persone, soprattutto manifestanti e qualche membro delle forze di sicurezza, ma in realtà la cifra effettiva è più alta.
Il gruppo norvegese Iran human rights (Ihr) ha dichiarato lunedì 26 settembre che il bilancio delle vittime è salito ad almeno 76 morti, evidenziando la complessità nel fare una stima precisa a causa dei continui shutdown di internet imposti dal regime. Sale anche il numero degli arresti: sono quasi 3mila, tra cui venti giornalisti.
Come accadde nel 2019 durante le proteste di massa contro la disoccupazione giovanile, le sanzioni americane e l’aumento della benzina, Teheran ha iniziato, sin dai primi giorni delle proteste, a bloccare l’uso dei social media, in particolare del gruppo Meta, e a tagliare l’accesso a internet, con l’obiettivo di fermare l’organizzazione delle proteste. Siamo di fronte alle più grandi interruzioni di internet dal 2019. Lo scopo di questi shutdown non è solo quello di ostacolare la mobilitazione o di bloccare la condivisione di video che mostrano la brutalità della polizia. Negli ultimi anni, infatti, il regime iraniano ha sviluppato un sofisticato sistema di sorveglianza che va al di là delle misure convenzionali di censura di internet.
According to @kentikinc aggregate NetFlow, traffic volumes to Irancell (AS44244), MCI (197207) and Rightel (AS57218) fell off within minutes of each other just over an hour ago. pic.twitter.com/9gtgrH8dWs
La rete informativa nazionale permette di dividere il cyberspazio iraniano in due universi paralleli: una rete nazionale e una globale che, per l’utente medio, sembrano simili. La rete nazionale, attraverso la quale operano servizi pubblici e che le banche e le imprese sono costrette a utilizzare, è fortemente spinta dallo Stato attraverso la pubblicità, è più economica e più veloce, ma è esposta alla sorveglianza del governo. La rete globale può essere tagliata in qualsiasi momento dallo Stato.
Questi poteri di sorveglianza informatica sembrerebbero essere combinati con le carte d’identità digitali implementate nel 2020, che permetteranno al regime di identificare i manifestanti in pochi secondi attraverso le telecamere con tecnologia di riconoscimento biometrico installate in tutto il Paese. I documenti digitali sono ormai indispensabili per accedere ai servizi sanitari o per prenotare biglietti ferroviari e aerei nazionali, e le banche dati biometriche del sistema possono essere facilmente utilizzate per individuare i manifestanti.
Sono diversi gli attivisti iraniani che hanno confermato come il governo stia utilizzando questa tecnologia per identificare le donne che stanno protestando, come le tante e tanti manifestanti arrestati nelle loro abitazioni, o il caso della donna arrestata sul bus. L’uso del riconoscimento facciale contro le donne, tra le altre cose, è parte della nuova normativadel 15 agosto 2022 con cui il governo dell’ultraconservatore Raisi ha imposto un nuovo codice di abbigliamento, la legge che ha portato all’arresto e alla morte di Mahsa Amini. L’hijab è diventato obbligatorio dopo la rivoluzione iraniana del 1979. Nei decenni successivi, le donne hanno provato oltrepassare i limiti del codice di abbigliamento imposto dal regime degli Ayatollah; addirittura speravano che con la presidenza di Rouhani si potessero fare dei passi avanti, ma così non è stato.
Il governo Raisi in Iran
Ora, con la presidenza di Raisi, la situazione è drammaticamente peggiorata. Nel tentativo di far rispettare la legge sul velo e la castità, sono state inserite delle nuove restrizioni: obbligo di indossare il velo in modo che copra anche collo e spalle, in alcuni edifici pubblici le donne non possono indossare i tacchi alti. Addirittura, la Banca Mellat, per conformarsi alla normativa, ha anche vietato ai manager uomini di avere assistenti donne.
Alcune delle donne arrestate per aver sfidato il nuovo decreto sono state identificate dopo che sono stati pubblicati online dei video che le ritraevano mentre venivano molestate sui mezzi pubblici perché non indossavano correttamente l’hijab. Una di loro, Sepideh Rashno, è stata arrestata dopo che sui social media è circolato un video che la ritraeva mentre veniva rimproverata da un altro passeggero per il suo “abbigliamento improprio”, e che è stata poi costretta a scendere dal veicolo da alcuni passanti intervenuti in suo favore. Secondo il gruppo per i diritti umani Hrana, Rashno è stata torturata, come Amini, dopo il suo arresto e successivamente costretta a scusarsi in televisione con il passeggero che l’aveva molestata.
An informed source has revealed to #HRANA that detained artist #SepidehRashno had been hospitalized due to the risk of internal bleeding, which raised the question as to whether she was tortured to make confession aired on July 30. https://t.co/lZkCvxf4wPpic.twitter.com/UoNJSK7mBR
Il volto di Neda Agha-Soltan, coperto di sangue, è diventato l’icona della lotta del popolo iraniano nel 2009. Oggi, la morte di Amini – e ora anche quella di Najafi – ha dato slancio alla lotta delle donne iraniane contro la discriminazione, il controllo dello Stato e il patriarcato. È l’accesso all’informazione che permette ai movimenti sociali di prosperare e alle ingiustizie e alle brutalità di essere documentate. La creazione di un internet globale libero e open source dovrebbe diventare una priorità internazionale in supporto ai movimenti di protesta in giro per il mondo.
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