Le terre agricole sono un bene comune. O perlomeno dovrebbe esserlo, visto che sono la fonte del cibo, dell’acqua e delle risorse naturali da cui dipende la vita di tutti noi. Nella realtà dei fatti, però, questo basilare diritto è sistematicamente infranto. La conferma arriva da uno studio pubblicato dalla International land coalition, un’alleanza di 250 organizzazioni intergovernative e della società civile, in collaborazione con Oxfam. Ne emergono dati inequivocabili: un ridottissimo nucleo di colossi dell’agroindustria possiede il 70 per cento delle aree coltivabili.
Le terre agricole sono nelle mani di pochi
Misurare questo particolare tipo di disuguaglianza è tutt’altro che semplice. In affiancamento al coefficiente di Gini, lo studio adotta altre metodologie che offrono una visione d’insieme più completa. Arrivando a conclusioni definite “scioccanti”.
A partire dall’inizio del Ventesimo secolo le terre agricole sono state distribuite in modo sempre più equo, ma negli anni Ottanta qualcosa è cambiato. Questo trend si è rovesciato rapidamente fino ad arrivare agli estremi a cui assistiamo oggi. Nel mondo ci sono 608 milioni di aziende agricole, ma le più grandi – che numericamente sono appena l’1 per cento del totale – controllano il 70 per cento delle zone coltivate. I piccoli proprietari che non arrivano ai due ettari, viceversa, sono la stragrande maggioranza (per la precisione, l’84 per cento) ma si devono accontentare delle briciole. Gestiscono infatti appena il 12 per cento delle aree e sono pressoché tagliati fuori dalla filiera alimentare dominata dalle grandi corporation. Senza un deciso intervento della politica – sottolineano i ricercatori – il potere economico finirà sempre più nelle mani di pochi.
Lo strapotere dei colossi dell’agroindustria è palese negli Stati Uniti, dove 980mila coltivatori non raggiungono i cinquemila dollari annui di fatturato, mentre l’80 per cento del valore di produzione va al 7 per cento di grandi proprietari. Ma anche l’Unione europea non è da meno. La dimensione media di una tenuta è quasi raddoppiata nell’arco di cinquant’anni, passando dai 12 ettari degli anni Sessanta ai 21 del 2010. Oggi la metà delle aree coltivate è controllata dal 3 per cento dei proprietari.
Allargando lo sguardo, lo studio arriva a sostenere che quest’iniquità ha un impatto negativo sul sostentamento dei 2,5 miliardi di persone che vivono di coltivazioni su piccola scala. Che spesso corrispondono alle fasce più povere della popolazione globale.
Cause e conseguenze di un potere sempre più accentrato
Queste cifre sono il risultato di decenni in cui il mercato è stato pressoché libero di regolarsi da sé, portando all’affermazione di un modello agricolo intensivo su larga scala. La meccanizzazione richiede meno forza lavoro e crea quindi meno reddito per i coltivatori diretti, spostando il valore aggiunto verso le big dell’agribusiness. La crescente finanziarizzazione del cibo ha fatto il resto, spiegano gli autori del report. Ora che anche le materie prime sono commodities, a tenere le redini della produzione alimentare sono sempre più spesso i fondi d’investimento distanti migliaia di chilometri.
Icambiamenti climaticisono al tempo stesso causa e conseguenza del fenomeno. Causa, perché rendono i terreni sempre meno fertili e produttivi in vaste aree del Pianeta. Conseguenza, perché le monocolture industriali hanno un impatto molto più pesante in termini di emissioni di CO2. Anche l’emergenza sanitaria in corso può essere letta sotto questa lente. Spiega il report: “La Covid-19 è l’ultima zoonosi in ordine di tempo a emergere da una combinazione di allevamento di animali in condizioni malsane e pressione sui territori e sugli animali selvatici, inasprite dagli stessi fattori che contribuiscono alla disuguaglianza nel possesso delle terre agricole”.
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