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Le industrie petrolifere del Texas chiedono la costruzione di una barriera che le protegga dalle inondazioni e da altri effetti del riscaldamento globale di cui sono responsabili.
Sono passati dieci anni dal suo passaggio, ma gli abitanti del Texas, negli Stati Uniti, non hanno dimenticato l’uragano Ike. Ha provocato la morte di 74 persone, migliaia di sfollati, danni per 37,6 miliardi di dollari (circa 32,2 miliardi di euro). All’epoca non si parlava ancora dell’impatto del riscaldamento globale sugli eventi meteorologici estremi, ma ora gli scienziati hanno le idee chiare: l’aria calda trattiene più umidità, il che si traduce in piogge più abbondanti. La temperatura delle acque nel golfo del Messico è salita di 1,5 gradi negli ultimi otto anni, stando a Brian Hoskins dell’istituto Grantham per la ricerca sui cambiamenti climatici e l’ambiente: questo può aumentare la frequenza e l’intensità dei cicloni, se consideriamo che hanno origine dal calore liberato dall’oceano.
La siccità e le ondate di caldo incrementano il rischio di incendi; l’innalzamento del livello dei mari è una minaccia per le isole e le località marine. Per questo il governo texano ha deciso di correre ai ripari, lanciando un ambizioso progetto per spostare le strade costiere più in alto e costruire una barriera che correrà lungo 100 chilometri di costa – 60 miglia, per la precisione – e si chiamerà, non a caso, Ike dike (diga di Ike).
Ike dike, costituita da argini e paratie, proteggerà gli ecosistemi, le abitazioni, le attività commerciali e… le industrie petrolifere, responsabili dell’aumento dell’effetto serra da cui si vogliono proteggere. La barriera, infatti, si estenderà lungo la baia di Galveston, dal confine con la Louisiana fino all’area industriale a sud della città di Houston che ospita una delle più grandi concentrazioni di impianti petrolchimici del mondo.
Al momento sono stati stanziati 1,9 milioni di dollari per condurre ricerche sull’impatto ambientale del progetto e capire come realizzarlo al meglio; la prima bozza dello studio sarà presentata a fine settembre mentre i risultati finali sono attesi per il 2021. Complessivamente si stima che saranno necessari 12 miliardi di dollari per il completamento dei lavori. La sezione dell’esercito statunitense specializzata in ingegneria e progettazione ne ha già concessi 3,9 per realizzare una prima parte della barriera nell’area di Freeport, Port Arthur e Orange County, la più attiva dal punto di vista petrolifero.
TX lawmakers call for an “Ike Dike” to protect gulf coast from hurricanes. @JavaheriCNN explains https://t.co/ekIVnyZM5I
— Morning Express with Robin Meade (@MorningExp) 28 aprile 2017
Nel 2017 l’uragano Harvey ha messo in ginocchio le industrie, provocando un forte aumento del prezzo del gasolio. “L’economia dell’intera nazione, non solo quella del Texas, è gravemente minacciata dalle tempeste”, ha dichiarato Matt Sebesta, giudice repubblicano, all’emittente radiotelevisiva Cbs. Non passa inosservata, però, una grande contraddizione: verranno usati i soldi dei contribuenti per proteggere dagli effetti del riscaldamento globale qualcuno che ai cambiamenti climatici contribuisce direttamente.
Nel diritto ambientale vale l’esatto contrario, esiste infatti il principio “chi inquina paga”, contenuto nella Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo e condiviso dall’Unione europea. “L’industria petrolifera sta per ricevere un grosso regalo. Non ha intenzione di sborsare un centesimo, e perché dovrebbe?” è la provocazione di Brandt Mannchen, membro del comitato esecutivo del Sierra Club, una delle più antiche organizzazioni ambientaliste degli Stati Uniti.
https://youtu.be/XRdUV4WqnDE
Il fatto che il governo statunitense voglia tutelare le industrie petrolifere, comunque, non stupisce. Il presidente Donald Trump, che ha portato il suo paese fuori dall’Accordo di Parigi sul clima, ha optato per un piano energetico che favorisce le centrali a carbone. Il nuovo direttore ad interim dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) è Andrew Wheeler, che in passato ha esercitato attività di lobbying per l’industria carbonifera, mentre il suo predecessore – Scott Pruitt, dimessosi a causa della miriade di scandali che l’hanno coinvolto – non credeva che le attività umane accelerassero i cambiamenti climatici.
Detto questo, l’idea di costruire barriere a tutela delle zone più indifese fa parte delle strategie di adattamento che i paesi possono adottare per difendersi dagli effetti del riscaldamento globale, unitamente a politiche di mitigazione per ridurre le emissioni di CO2. Non necessariamente, però, queste barriere devono essere artificiali: possono essere “muri di alberi o argini di mangrovie”. I giardini proteggono le città dalle alluvioni perché aumentano la capacità di assorbimento del terreno.
A fronte di temperature più alte, la vegetazione regala frescura: per questo vanno molto di moda edifici come il Bosco Verticale di Milano o vere e proprie città-foresta come quella di Liuzhou in Cina, ma anche per ridurre l’inquinamento urbano. Non dimentichiamo che i boschi sono in grado di evitare l’emissione di 7 miliardi di tonnellate di CO2: forse avrebbe più senso investire nella loro salvaguardia, piuttosto che nella tutela degli interessi economici.
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