La zona del Triangolo d’Ooro, al confine con il Laos e il Myanmar, è stata a lungo il regno dell’oppio e del narcotraffico. Grazie all’introduzione di colture alternative e sostenibili e all’avvio di progetti sociali, nel nord della Thailandia la piaga è stata quasi completamente eliminata.
Methanon Lancome, chiamato “Non” dagli amici, vive in un villaggio di palafitte nella foresta pluviale, circondato da terrazze di riso e campi di caffè. Sui sentieri di terra battuta color mattone che conducono al villaggio, alcune signore con gli stivali di gomma e un fazzoletto in testa riposano all’ombra delle piante di banane. Tutto intorno, l’afoso silenzio è rotto solo dal ronzio degli insetti e dallo scroscio di una cascata in lontananza.
Siamo a Doi Inthanon, la montagna più alta della Thailandia, nel nord del Paese. Qui, da alcune generazioni, la famiglia di Non coltiva e lavora i chicchi di caffè che vengono tostati e poi venduti nei mercati di Bangkok.
Questa regione tra il Laos e il Myanmar, conosciuta come il Triangolo d’oro, dove oggi regna incontaminata la foresta pluviale, nel secolo scorso fu disboscata e bruciata per far posto alle coltivazioni di papavero che alimentavano uno dei traffici di droga più proficui del mondo. Questa, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, era la terra dell’oppio.
La terra dell’oppio
Ci sono voluti più di trent’anni per trasformare il nord della Thailandia da una terra violata e bruciata, covo di narcotrafficanti, in un luogo dove la natura ha ripreso possesso del territorio, con le popolazioni indigene che hanno abbandonato la coltivazione del papavero da oppio per dedicarsi ad altre colture. Un traguardo raggiunto grazie a uno dei progetti di lotta alla droga più riusciti al mondo secondo le Nazioni Unite. Un’iniziativa che ha permesso di eliminare non solo la piaga dell’oppio, ma anche il problema del narcotraffico in una delle zone fino a pochi decenni fa più “calde” del Pianeta.
L’oppio infatti è stato sostituito da colture alternative e sostenibili, come tè e caffè, gestite ancora oggi dalle tribù indigene delle montagne del nord (Akha, Hmong, Lahu, Lisu, Yao e Karen), che vivono in villaggi fatti di capanne come quello di Non. Come risultato, tra il 1985 e il 2015 la coltivazione di “Papaver somniferum” in Thailandia è scesa del 97 per cento. E non si è più ripresa. L’area boschiva è stata ripristinata, passando dal 28 all’86,8 per cento di superficie verde.
Vivere nella giungla
“In passato, in questa zona si coltivava l’oppio. Oggi, invece, oltre al tè e al caffè, qui produciamo anche fragole, zucchine, avocado e fiori decorativi”, racconta Non, mentre serve alcune tazze di tè a un gruppo di turisti occidentali.
“Non abbiamo una grossa produzione, ma ci basta per vivere. Siamo una grande famiglia, non ci sono recinzioni a dividere le nostre case. Lavoriamo tutti insieme e poi condividiamo, siamo contenti così. Non abbiamo bisogno dei soldi. Quando arrivano i soldi, iniziano i problemi”.
Nel villaggio di Non vivono trecento persone. Ogni famiglia possiede due o tre mucche e le donne non partoriscono più in casa, ma nella clinica più vicina: adesso anche loro hanno diritto all’assistenza sanitaria, concessa alle popolazioni indigene insieme alla cittadinanza come parte del progetto di sviluppo alternativo avviato alla fine del secolo scorso per eliminare la piaga dell’oppio e offrire condizioni di vita migliori alle tribù, in buona parte originarie dei Paesi limitrofi e scappate nel nord della Thailandia per fuggire da fame, povertà, guerre e repressioni.
La lotta alla produzione dell’oppio
Tutto ebbe inizio negli anni Sessanta, quando ci si rese conto che le misure repressive contro i produttori di papavero da oppio erano controproducenti: portavano a pericolose insurrezioni e non risolvevano il problema. Si cambiò dunque strategia: bisognava offrire a queste comunità mezzi di sostentamento alternativi.
Il primo passo fu dato dall’allora re Bhumibol Adulyadej, che durante un viaggio nella provincia settentrionale di Chiang Mai visitò un villaggio dove si coltivavano i fiori di papavero. Da lì l’intuizione: la produzione e la vendita di una varietà di pesche locali avrebbe potuto generare delle entrate alternative a quelle dell’oppio.
Fu quindi istituito il Royal Project, un’organizzazione supportata dalla casa reale thailandese e da altre organizzazioni internazionali, come il fondo delle Nazioni Unite per il controllo dell’abuso delle droghe, il cui scopo era incentivare lo sviluppo alternativo nel nord del Paese. Negli anni Settanta fu avviato il primo progetto di sostituzione delle colture, affiancato da un programma di formazione delle comunità di montagna e di lotta all’analfabetismo, alla povertà e alle malattie.
Ma l’eliminazione dell’oppio entrò nel vivo solo negli anni Ottanta, quando ci si rese conto che il successo dell’iniziativa dipendeva non solamente dalla sostituzione delle colture, ma dalla volontà di migliorare il tenore di vita complessivo delle comunità. Furono così introdotte iniziative complementari per incentivare la riabilitazione dei tossicodipendenti, l’assistenza sanitaria e l’educazione. Una strategia con un obiettivo ben preciso: affrontare il problema della droga alla radice, eliminando la povertà e la mancanza di opportunità.
Le colture alternative
Negli anni questo progetto ha coinvolto più di diecimila persone appartenenti a sei gruppi etnici. E si è sviluppato ben oltre la produzione di colture alternative: per garantire una stabilità finanziaria a lungo termine, infatti, si è investito su tutte le fasi della catena di valore del ciclo produttivo, comprese le attività di branding e marketing.
Oggi i prodotti coltivati sulle terre dove un tempo si produceva l’oppio sono distribuiti nei supermercati del Paese, anche all’estero, con il marchio Doi Kham, e il caffè arabico è venduto sotto il brand Doi Tung, che dà il nome anche a un’omonima catena di caffetterie.
Doi Tung — A royal project, transforming an "Akha" tribal village (a former opium traffic route) into a beautiful garden + a swiss inspired thai chalet + a lush canopy tree top walk… absolute yum! #Thailand#thailandescapadespic.twitter.com/9TrSGLEZQi
Come risultato, il Pil della Thailandia è passato dai sette miliardi di dollari degli anni settanta ai quasi quattrocento miliardi del 2012 (dati Banca Mondiale). E secondo le Nazioni Unite, tra il 1988 e il 2018 il reddito medio delle famiglie è aumentato di oltre venti volte, passando da ottocento a 19.200 dollari. Le foreste, poi, con la loro biodiversità, sono tornate a ricoprire la terra incendiata dal sole, rivestendo di palme, bambù e liane selvagge le colline sinuose del nord.
L’uomo che ha salvato le foreste
Al progetto di riforestazione ha partecipato anche Phacharavon Yanu (letteralmente “nato sotto il Budda”), conosciuto da tutti come Jimmy. Oggi Jimmy ha 54 anni e gestisce insieme a sua moglie una graziosa guest house a Chiang Mai: sei stanze immerse tra le piante tropicali dove di giorno si cucina all’aperto e di notte ci si addormenta al suono dei gechi. Gli ospiti vengono accolti con musica jazz di sottofondo e una tazza di caffè coltivato, raccolto e tostato direttamente da lui.
Quand’era ragazzo, Jimmy ha lavorato tre anni e mezzo per il Royal Project, studiando gli alberi da ripiantare e i semi da seminare sulle pendici martoriate dall’oppio del vicino monte Chiang Dao. Suo nonno era uno sciamano specializzato in piante medicinali. E buona parte di quello che Jimmy sa sulle piante, lo deve a lui.
“In quel periodo tutti fumavano l’oppio, anche i bambini — racconta —. Io stesso l’ho fumato per sette anni. Sulle montagne vicino al villaggio dove sono nato, c’erano campi di papavero ovunque: ogni famiglia tagliava dieci ettari di foresta all’anno per produrre l’oppio. E così, oltre alle foreste, fu distrutto l’intero ecosistema”.
Le origini della piaga dell’oppio
“Ma il problema dell’oppio non è iniziato con le popolazioni indigene”, ci tiene a precisare Alberto de la Paz, che per vent’anni ha guidato l’Hilltribe museum and education center nella città di Chiang Rai e ha fatto parte della Population and Community development Association (Pda), nata per sostenere le popolazioni dei villaggi tribali della Thailandia. “All’inizio del Novecento dietro alla produzione di questa droga, vietata solo nel 1958, c’erano enormi interessi legati al monopolio dell’oppio detenuto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali: interessi che ovviamente si scontravano con quelli delle autorità locali dell’epoca. Per contrastare il monopolio britannico si fomentò la coltivazione dei papaveri fra le tribù indigene di questa regione, che prima furono incentivate a produrre l’oppio e poi criminalizzate non appena la droga fu messa al bando”.
Secondo Alberto de la Paz, il progetto di lotta all’oppio ha avuto indubbiamente delle ricadute positive. Ma non è tutto oro quel che luccica: le popolazioni indigene del nord della Thailandia continuano a essere marginalizzate e discriminate.
“Soffrono ancora oggi di varie forme di razzismo — racconta —. Loro stessi vorrebbero seppellire la loro appartenenza etnica. Sognano infatti di lasciare i villaggi e trasferirsi nelle città, senza capire che di questo passo la loro cultura, le loro usanze e le loro tradizioni sono destinate a morire”.
Una strategia replicabile?
La lotta della Thailandia contro la coltivazione del papavero da oppio e il narcotraffico è durata più di tre decenni e ha richiesto ingenti investimenti. A fare la differenza, è stata la consapevolezza che il problema della droga era soprattutto un problema sociale, la cui soluzione doveva concentrarsi sulle persone, sulle loro esigenze e sulle loro difficoltà: provare a coinvolgere, integrare ed emancipare le comunità locali è stato determinante. Come ha fatto notare Alberto de la Paz, bisognerebbe aprire una lunga parentesi sugli effetti collaterali dell’emancipazione delle tribù indigene, che oggi stanno abbandonando le loro tradizioni secolari per sposare i nostri modelli occidentali, complice anche l’opera di conversione al cristianesimo portata avanti dai missionari fra le minoranze tribali.
Inoltre è doveroso precisare che il fenomeno della droga non è stato eliminato al cento per cento: il traffico al confine con il Laos e il Myanmar esiste ancora oggi, seppur in misura ridotta, e la produzione di sostanze stupefacenti si è spostata dalle coltivazioni rurali ai laboratori cittadini dove si creano droghe sintetiche.
Tuttavia, l’esperienza della Thailandia ci insegna che le radici profonde del problema affondano in buona parte nella povertà, nella mancanza di opportunità e nella marginalizzazione sociale. Si dovrebbe dunque partire da qui, per cercare soluzioni analoghe da applicare anche in altre regioni del mondo. Perché se è vero che non esiste una soluzione unica impeccabile e replicabile in serie, è anche vero che esistono buoni modelli da cui prendere spunto.
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