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Climate limbo, le migrazioni nell’era dei cambiamenti climatici
Il documentario Climate limbo racconta la situazione dei migranti climatici, il cui numero è in crescita esponenziale e che, tuttavia, vivono ancora oggi in una sorta di indefinita zona grigia.
Fin dagli albori della nostra specie le popolazioni di Homo sapiens sono state costrette a spostarsi a causa dei mutamenti del proprio ambiente. Proprio l’instabilità climatica avrebbe spinto i nostri antenati ad abbandonare il continente africano per sfuggire ad ambienti sempre più desertici e ad iniziare il progressivo processo di colonizzazione del pianeta. La mobilità rappresenta dunque una strategia adattiva consolidata dell’uomo per far fronte ai cambiamenti climatici. Oggi però questi cambiamenti stanno avvenendo ad un ritmo estremamente elevato, come mai era accaduto nella storia del pianeta, e un numero sempre maggiore di persone è costretto a migrare.
Tra il 2008 e il 2014 si stima che 184 milioni di persone siano state costrette ad abbandonare le proprie terre a causa di mutamenti climatici e ambientali. Entro il 2050 potrebbero esserci 250 milioni di nuovi migranti, i migranti climatici. A queste persone, che si trovano in una zona grigia, in attesa che il mondo si accorga di loro, vuole dare voce Climate limbo, documentario scritto da Elena Brunello e diretto da Paolo Caselli e Francesco Ferri che verrà presentato alla prossima edizione di CinemAmbiente.
Il limbo dei migranti climatici
I rifugiati climatici, come evidenzia il titolo del documentario prodotto dalla Ong piemontese APS Cambalache, vivono in una sorta di limbo, a causa di un vuoto normativo, e nonostante il numero sia in crescita esponenziale, la loro condizione non è ancora riconosciuta. “Al migrante climatico non si può applicare lo statuto di rifugiato, la più alta forma di protezione internazionale – spiega Elena Brunello. – Questo perché la convenzione di Ginevra si basa sulla paura fondata di persecuzione, in questo caso difficilmente si può dimostrare davanti a un giudice che il cambiamento climatico sia agente di persecuzione nei confronti di una persona o di un popolo”. Per colmare questo vuoto normativo si stanno vagliando tre possibilità, realizzare strumenti legislativi nuovi, aggiungere parti alla convenzione di Ginevra o, addirittura, riformare la convenzione.
“Nel frattempo i migranti climatici si trovano a vivere la condizione di rifugiato, ad essere percepiti come tali dalla società e anche da sé stessi, senza tuttavia che questo status di protezione venga loro riconosciuto. Si trovano pertanto in una sorta di limbo, non appartengono a nessuna categoria vera e propria. Vivono come dei fantasmi: non vengono visti e non si sente neppure quasi parlare di loro né, tantomeno, la loro voce”.
[vimeo url=”https://vimeo.com/326538596″]Video Cano Cristales[/vimeo]
Rendere vicini i cambiamenti climatici
Nonostante la stretta ed evidente correlazione tra i cambiamenti climatici e il nostro benessere, questo argomento ha ancora oggi scarsa presa sul grande pubblico. Climate limbo riesce però nell’impresa di rendere meno distante un fenomeno che, effettivamente, possiamo già toccare con mano anche nel nostro Paese. “Per provare ad avvicinare le persone che vivono in Italia e in Occidente al tema dei cambiamenti climatici abbiamo deciso di intervistare persone che lo stanno vivendo in prima persona nel nostro Paese, come agricoltori, migranti climatici che vivono in Italia, climatologi e giuristi”, afferma Paolo Caselli. “Solitamente quando sentiamo parlare di cambiamenti climatici pensiamo agli orsi polari, ai narvali, alle alluvioni in Bangladesh, tutti questi fenomeno sono reali chiaramente, ma ciò non vuol dire che in questi luoghi i mutamenti climatici si manifestino di più rispetto, ad esempio, a Milano –dichiara la sceneggiatrice del documentario. – Ci tenevamo a togliere un po’ di questo “fascino esotico” che ha il cambiamento climatico come qualcosa di relegabile sempre ad un posto lontano e dire che gli effetti sono sotto i nostri occhi, in posti vicini allo spettatore”.
Storie da un mondo impazzito
Il documentario realizzato da Dueotto Film mira a mostrare il lato umano dei migranti climatici, ricordandoci che per loro fuggire e abbandonare le loro case è una necessità. “Come ho fatto ad arrivare in Italia non ne ho idea, non l’avevo pianificato, mi sono ritrovata qui e per arrivare ho davvero rischiato di morire”, dice nel film Queen, giovane donna fuggita dalla Nigeria che ha chiesto lo status di profugo climatico. “In Bangladesh il mare mangia la terra e uccide l’agricoltura – ha raccontato Rubel, profugo climatico del Bangladesh. – Nel mio Paese è molto difficile vivere. Il mare ha portato via la mia casa, il mare porta via tutto”.
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Perché non si parla di rifugiati climatici
Eppure nel dibattito sui migranti, continuamente strumentalizzato dai politici, non si fa praticamente mai riferimento alla questione dei rifugiati climatici. “Perché è un fenomeno “nuovo”, che sta venendo fuori ora – prova a spiegare uno dei registi, Francesco Ferri. – Fino a poco tempo probabilmente neppure i rifugiati stessi percepivano l’effettiva realtà del problema, ovvero che ciò che li costringeva a scappare dai loro paesi era il cambiamento climatico”. Il clima di intolleranza verso i migranti, particolarmente forte in Italia, potrebbe essere invece la spiegazione di questa omissione secondo Elena Brunello. “Nel momento in cui si riconosce a queste persone lo stato di rifugiato climatico questo implica automaticamente un costo per le istituzioni che dovrebbero garantire determinati diritti. Per cui parlare di rifugiati climatici, introducendo così nel dibattito mediatico una nuova e gigantesca categoria di migranti, implicherebbe probabilmente una reazione di paura e un’ulteriore chiusura da parte delle persone”.
Un mondo connesso
Uno degli aspetti che sembra emergere con forza dal documentario è il desiderio di evidenziare l’interdipendenza tra uomo e ambiente e accrescere la consapevolezza circa le conseguenze delle nostre azioni. “Il film mostra eventi che visivamente possono sembrare lontani fra loro, come lo scioglimento dei ghiacciai o il declino delle api, ma c’è un collegamento palese, facciamo parte di un unico ecosistema – conferma Francesco Ferri. – Se una parte di questo ecosistema, in questo caso l’uomo, impazzisce avrà delle conseguenze sull’intero sistema. Evidenziare questo collegamento è una delle cose che ci premeva, l’obiettivo era creare un documentario corale che raccogliesse testimonianze diverse per far capire che tutto è collegato, che ogni persona con le sue azioni individuali può determinare cambiamenti in questo insieme che è il pianeta Terra”.
La sequenza iniziale del film, finanziato attraverso il Consorzio delle Ong piemontesi con il contributo dell’Unione europea, è emblematica e mette in risalto l’attuale stato di crisi ambientale. È una scena apparentemente idilliaca, si vedono degli svassi che nuotano in un lago circondato da montagne, la nebbia rende quasi oniriche le immagini, in sottofondo però si sente il suono extradiegetico di una sirena, sempre più forte, che genera una dissonanza quasi insopportabile, per ricordare che siamo in una situazione di emergenza e la vita sul pianeta è in grave pericolo.
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