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The war show, il film sulla guerra in Siria ci offre un nuovo sguardo
Il documentario The war show mostra un gruppo di giovani amici filmarsi per tre anni durante la guerra in Siria. In questa intervista esclusiva, il co-regista Andreas Daalsgard svela i retroscena dell’opera.
Una lente intima sulla guerra in Siria e allo stesso tempo uno sguardo più allargato. Un altro punto di vista. Il documentario The war show, che sta circolando in vari festival (tra i quali, in Italia, la Mostra del cinema di Venezia 2016 e Sguardi altrove 2017 – sezione Diritti Umani di Milano) è una storia di amicizia, un road movie, ma anche una testimonianza storica unica. Filmando le vicende di un gruppo di giovani, liberi e appassionati, descrive la complessità di quanto è accaduto in Siria negli ultimi sei anni. Nell’intervista che segue il co-regista danese Andreas Daalsgard, specializzato nei film di denuncia, ci spiega che ha aiutato la collega siriana Obaidah Zytoon a selezionare un lunghissimo girato dopo che era fuggita in Turchia.
La gioventù annientata dalla guerra in Siria
Nel marzo del 2011 la conduttrice radiofonica Obaidah Zytoon decide di partecipare alle manifestazioni pacifiche contro il regime oppressivo di Assad e di filmarle. Con un gruppo di artisti e attivisti si muove fra le strade delle prime proteste, che presto si trasformano in luoghi terrificanti sorvegliati dai cecchini e dalle forze di sicurezza. Obaidah e i suoi amici iniziano a vivere sotto lo stesso tetto a Zabadani, nel sudovest del Paese, mentre scoppia la guerra. Condividono tutto, paure, speranze, analisi, cene e anche momenti di svago. Si spostano nella capitale Damasco. Raggiungono Homs, roccaforte dei ribelli, e anche il confine turco, per una pausa sulla spiaggia. Fra loro c’è il musicista metal già perseguitato negli anni precedenti che assomiglia a un giovane Franco Battiato; l’aspirante poeta che sorride sempre; la ragazza timida che abbandona il velo; quella più temeraria impegnata politicamente; il nerd informatico, un cagnolino.
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“Dove saremo quando l’estate sarà finita?”, si chiede uno di loro. E un altro dice: “Nel 2014 saremo tutti morti”. Il conflitto, in effetti, si inasprisce. Alcuni di loro moriranno o spariranno. Altri saranno imprigionati e torturati. I sopravvissuti, come Obaidah, dovranno scappare all’estero. Guardando questo film si ha la sensazione che un’intera generazione che aspirava alla democrazia sia stata spazzata via. “Per colpa del regime di Bashar al Assad, prima di tutto”, ci spiega Daalsgard che aggiunge: “È stato complice dello Stato Islamico (o Daesh, ndr) e di altri gruppi estremisti islamici. Ha usato le immagini spaventose per costruire la narrativa dominante, ovvero che da una parte ci fosse un governo siriano laico e dall’altra degli estremisti sunniti. Il vero avversario del regime non sono gli estremisti, ma la società civile, i manifestanti pacifici. Assad ha perseguitato pesantemente gli oppositori democratici, ma ha liberato fondamentalisti e criminali dalle prigioni”. Di seguito l’intervista a Andreas Daalsgard.
Perché ha deciso di aiutare Obaidah a realizzare un documentario sul suo girato?
Pensavo che del conflitto siriano si conoscesse veramente poco. Cercavo più punti di vista. Per questo ho accettato l’invito di Obaidah in Turchia per valutare il girato che aveva raccolto in quattro anni, a partire dalla rivoluzione in Siria. E lì mi resi anche conto che era una persona speciale, per i suoi pensieri ed emozioni.
Cosa l’ha colpita di quel primo incontro ad Antiochia, vicino al confine siriano?
Obaidah si sentiva in dovere di raccontare ciò che aveva vissuto e filmato. Era un’esplosione di analisi e riflessioni sul conflitto, sui suoi amici, sulla sua storia personale. Tuttavia, voleva che tutto questo materiale venisse trattato nel modo più giusto, ovvero che si rispettassero la verità, la privacy e la sicurezza delle persone filmate e dei loro famigliari.
È mai stato in Siria?
No. Ho già lavorato in Paesi in guerra e la mia cinepresa era sempre così vicina a ciò che filmavo. Decisi, però, che recarsi in Siria era inopportuno e pericoloso. È stato un lavoro diverso dai precedenti. Ho dovuto trovare un linguaggio comune con Obaidah, prima di tutto sul piano umano. Le cose che puoi fraintendere perché parli un’altra lingua e provieni da un’altra cultura sono così tante. Succede a tutti. Quando si invita qualcuno a casa si deve essere aperti all’ascolto.
E all’inaspettato…
Mi sono sorpreso più volte. Ero il tipico occidentale che trova eccitante il Medio Oriente, ma che ha dovuto confrontarsi con la realtà. Mi hanno colpito per esempio le scene in cui Obaidah filma gli spari nelle strade o il fatto che nella sua città Zabadani di 25mila abitanti esistano addirittura 12 milizie diverse.
Perché avete scelto il titolo The war show?
Il conflitto siriano è il più filmato e fotografato, ma anche il più inaccessibile ai giornalisti. Alcune zone sono off limits. Sono stati i locali a fornirci le immagini attraverso i social media e gli smarphone. Nonostante fosse molto rischioso manifestare, i cortei sono stati filmati diventando dei flash mob. La gente si organizzava sui social media e velocemente migliaia di persone si radunavano in piazza, anche solamente per quindici minuti a causa dei cecchini e della repressione poliziesca. Tutto ciò veniva filmato, rendendo la cinepresa l’unico mezzo per mostrare al mondo quanto stava accadendo. Purtroppo, in questa guerra il ruolo delle riprese è diventato essenziale anche per la propaganda del regime di Assad e per le milizie estremiste. Daesh è riuscito a ottenere fondi e a reclutare combattenti grazie a un’incredibile uso dei social. C’è anche stata una complicità fra il regime e lo Stato Islamico.
In che modo?
Il regime ha usato le spaventose immagini di Daesh per costruire la narrativa dominante. Ha rafforzato l’idea che da una parte ci fosse un governo siriano laico e dall’altra degli estremisti sunniti. Il vero avversario del regime non sono gli estremisti, ma la società civile, i manifestanti pacifici. Assad ha perseguitato pesantemente gli oppositori democratici, ma ha liberato estremisti e criminali dalle prigioni. Ci sono leader dei Fratelli Musulmani (l’organizzazione egiziana che mira a porre l’islam al centro della vita politica e sociale della comunità musulmana, ndr) che rapidamente sono diventati leader dell’organizzazione terrorista Al Qaeda. Il regime, che rappresenta la minoranza sciita alawita, propaganda la convinzione che se i sunniti (60 per cento della popolazione) prenderanno il potere, in quanto estremisti taglieranno la testa a cristiani, ebrei e sciiti. Ci sono documenti che dimostrano come l’intelligence siriana abbia contribuito a creare Jabhat al Nusra e Al Qaeda in Siria. E l’esercito siriano non ha attaccato prima lo Stato Islamico, ma i ribelli più moderati.
Per il regime di Assad è meno pericoloso Daesh di un movimento pacifico?
Certamente. Ma non è una strategia nuova. Molti siriani descrivono il regime come una mafia che usa la violenza e la tortura per creare uno Stato del terrore e restare al potere. Una mafia che negli ultimi decenni si è arricchita. Se lasceremo Assad al comando, la Siria continuerà a essere dominata da gruppi criminali cinici ed estremamente violenti. Probabilmente ci sarà un’altra guerra.
Nel suo film una compagnia di giovani amici che vuole libertà e democrazia viene annientata dal conflitto. Alcuni muoiono, altri spariscono o sono imprigionati e torturati. Altri ancora, come Obaidah, sono costretti a fuggire all’estero. Sembra che il movimento pacifico sia stato spazzato via. È così o esiste ancora una resistenza democratica?
Molti siriani con cui ho parlato hanno perso le loro case e sono sparsi nel mondo. Restano in contatto attraverso i social media, ma non hanno più un territorio. Chi è rimasto è stato così pesantemente colpito dalla repressione, dagli estremisti e dai bombardamenti che ora è impegnato in una lotta per sopravvivere. Con così tanta pressione e così tanto dolore è davvero difficile trovare uno spazio per una resistenza che miri alla pace.
Alcune scene sono così reali da sembrare filmiche. Quella in cui i manifestanti pacifici incontrano il corteo estremista è degna di un western, tragico e poetico come in un film di Sergio Leone. O le riprese della gita al mare che esprimono una tenerezza universale, quella fra giovani speranzosi, innamorati e scanzonati, come è giusto che siano tutti i giovani.
Nell’estrema frammentazione e casualità del girato abbiamo dovuto costruire una narrazione. C’erano molte scene intense come queste. Credo che sia accaduto qualcosa di simile alle persone che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale. Quando è scoppiata la rivoluzione molti siriani si sono trovati a vivere in modo molto diverso dal contesto fino ad allora repressivo. Sono usciti di casa, anche le donne, si sono aiutati a vicenda, si sono riuniti come Obaidah e i suoi amici sotto uno stesso tetto, formando una nuova famiglia. Hanno cominciato a cercare la loro vera identità. Il girato catturava questa freschezza. Lo stile del film protegge questi momenti, come fossero cartoline di una generazione.
Questo lavoro così drammatico e potente l’ha cambiata in qualche modo?
In ogni tipo di documentario e film ciò che mi interessa e colpisce è la vita. La prima volta che ho incontrato l’arte avevo tredici o quattordici anni. Lessi i libri dei beat e conobbi questa immensa freschezza, questa immensa vita. Nel girato di Obaidah, però, è tutto vero. È la sua storia intima. Quindi mi sono messo al suo servizio affinché queste riprese diventassero un documento storico.
Nella nostra società, dove l’intrattenimento schiaccia l’informazione onesta, il documentario può ancora avere una funzione di denuncia?
Il tempo per produrre informazione è limitato e le risorse per essa sono evaporate. Il documentario, al contrario, non essendo sottoposto alla fretta ma scavando in profondità, è oggi molto popolare. Ci sono festival ovunque. Non so se i documentari possono cambiare il mondo, ma di certo sono rilevanti. Offrono prospettive senza le quali saremmo molto più poveri in termine di conoscenza.
I siriani hanno potuto vedere The war show?
So che in Siria è arrivato illegalmente. Invece, nei Paesi in cui lo stiamo proiettando noi, tra cui il Festival di Dubai, molti espatriati siriani vengono a vederlo. Le reazioni sono positive e intense. Altri siriani si sentono motivati a raccontare la loro storia. La loro cultura è una delle più antiche. In Siria ci sono un patrimonio e una spiritualità millenari. I rifugiati siriani sono pieni di risorse. Credo che il film ricordi loro anche questo.
Lo stesso vale per gli iracheni, afflitti da una guerra dimenticata, dalla quale è scaturita anche quella siriana.
Le basi per i conflitti di Iraq e Siria sono state messe ancora prima del 2003: durante l’occupazione israeliana e precedentemente con la definizione colonialista dei confini.
Cosa pensa dei muri che in Europa stanno innalzando contro i migranti?
La negazione dei diritti umani peggiora la situazione. Servono istituzioni e centri di assistenza e accoglienza che abbiano cura dei rifugiati siriani come di coloro che provengono da altri Paesi. Se innalziamo muri, i rifugiati arriveranno lo stesso. Creeremo solo un disastro umanitario. Inoltre, bisognerebbe sostenere quei Paesi, come il Libano, che stanno accogliendo la maggior parte dei rifugiati siriani, ma non hanno le risorse per garantire loro una vita dignitosa, per costruire scuole e offrire lavoro. I rifugiati siriani non sono scappati in massa nel 2011 o nel 2012, ma a partire dal 2015 a causa dei bombardamenti e dopo un lungo periodo in cui hanno perso la fiducia nel futuro. I rifugiati non migrano perché lo desiderano, ma perché non hanno scelta. Quello che dobbiamo fare è procurare loro un’altra opzione.
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