Il 27 novembre aprono le candidature per la seconda edizione di Women in Action, il programma di LifeGate Way dedicato all’imprenditoria femminile.
I giornalisti, guardiani della verità, sono per il Time “Persona dell’anno 2018”
La rivista Time ha scelto di assegnare il prestigioso titolo di “Persona dell’anno 2018” ad un gruppo di giornalisti che rischiano la vita e il carcere pur di difendere la verità.
Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ‘vendicatore’ capace di riparare torti e ingiustizie.Enzo Biagi
Proprio ieri abbiamo assistito alla consegna del premio Nobel per la Pace a Nadia Murad, testimone del genocidio degli Yazidi per mano dell’Isis, e a Denis Mukwege, il medico che ha curato più di 50mila donne stuprate dai soldati congolesi. Lei porta cicatrici, lui le ha guarite, ma entrambi hanno visto con i propri occhi che l’uomo è capace di compiere atti disumani. Ed entrambi l’hanno gridato al resto del mondo. È di questo che abbiamo bisogno: di testimoni, di persone che ci descrivano ciò che noi non possiamo – o non vogliamo – vedere.
Chi sono “i guardiani”, eletti “Time person of the year 2018”
Il giornalista è il testimone per eccellenza. È attraverso i suoi occhi che assistiamo agli eventi che accadono lontano da noi. Per questo il suo compito è così delicato: possiamo dire che sia come una finestra che ci permette di guardare il mondo. Da un lato, se non è pulita, l’immagine che vediamo non corrisponde alla realtà. Dall’altro, c’è chi auspica che neppure le imposte vengano aperte.
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È per la loro ricerca della verità, ostacolata da chi non la vuole diffondere, che “i guardiani” sono stati scelti dal Time come “Persona dell’anno 2018”. Si tratta di Jamal Khashoggi, giornalista saudita che è stato assassinato, Maria Ressa, che si batte perché il suo sito d’informazione non venga oscurato nelle Filippine, la redazione del quotidiano statunitense Capital gazette, sopravvissuta ad una sparatoria, i giornalisti birmani Wa Lone e Kyav Soe Oo, condannati a sette anni di carcere.
Jamal Khashoggi ha perso la vita in nome della verità
Il 2 ottobre di quest’anno, Khashoggi si è recato presso il consolato saudita a Istanbul, in Turchia, per richiedere un semplice documento. La sua compagna lo aspettava fuori, ma non l’ha più rivisto. Stando alle indagini, nell’edificio ad aspettarlo c’era un gruppo di soldati dell’esercito saudita: il governo stesso ha ammesso il suo coinvolgimento. Il paese è al 169esimo posto su 180 nella classifica per la libertà di stampa di Reporter senza frontiere. Khashoggi, però, non voleva catene, non ha avuto paura di parlare della severità delle politiche della famiglia reale, tanto che i suoi articoli sono apparsi offensivi ma, soprattutto, scomodi.
Maria Ressa lotta per impedire la morte della democrazia
Maria Ressa non si fa intimidire neppure dal suo presidente, Rodrigo Duterte, il quale ha dichiarato che “Rappler pubblica notizie false”. Il sito d’informazione nato con soli dodici reporter è diventato oggi la più potente arma nella lotta per la libertà di stampa nelle Filippine, e nonostante il governo faccia di tutto per sbarazzarsene – dalla revoca della licenza all’indagine per evasione fiscale, fino alle minacce di morte nei confronti della redazione – il suo amministratore delegato non ha intenzione di arrendersi. “Sono diventata maggiorenne nel 1968, ho visto i governi autoritari del sudest asiatico trasformarsi gradualmente in democrazie. Odierei, alla fine della mia carriera, assistere al fenomeno opposto”.
On Human Rights Day, groups call for accountability vs violations under Duterte https://t.co/pbo3rE2VCM via @rapplerdotcom
— Maria Ressa (@mariaressa) 10 dicembre 2018
I giornalisti della Capital gazette non hanno smesso di scrivere neppure dopo una sparatoria
Anche i giovanissimi sopravvissuti alla sparatoria nella scuola superiore di Parkland, in Florida, a cui è stata dedicata la copertina del numero di aprile, erano candidati al titolo di Time person of the year. Hanno dato vita al movimento #NeverAgain per chiedere a gran voce che le leggi sulla compravendita delle armi negli Stati Uniti vengano insaprite e gli studenti non debbano più temere di morire per colpa di un proiettile. Saranno sicuramente fieri che il riconoscimento sia stato assegnato alla redazione della Capital gazette, che nel mese di giugno ha vissuto un’esperienza simile alla loro: un uomo, risentito per un articolo che parlava delle sue molestie a danno di un’ex compagna di classe e deluso per aver intentato senza successo una causa per diffamazione, si è recato negli uffici e ha aperto il fuoco, uccidendo cinque membri dello staff. Il giorno dopo, nonostante tutto, il nuovo numero del quotidiano era sugli scaffali di tutte le edicole.
Thank you. We will not forget. https://t.co/YkeN5vBBqy
— Capital Gazette (@capgaznews) 1 luglio 2018
Wa Lone e Kyav Soe Oo sono stati condannati a sette anni di carcere per la denuncia del genocidio rohingya
Mentre Nadia Murad e Denis Mukwege lottano perché gli autori degli stupri e delle violenze nei loro paesi vengano puniti, ci sono giornalisti che vengono incarcerati senza che abbiano commesso un reato. È il caso di Wa Lone e Kyav Soe Oo, reporter birmani dell’agenzia di stampa Reuters, condannati a sette anni di prigione per violazione delle leggi sulla segretezza quando in realtà la loro unica “colpa” è quella di aver denunciato i crimini commessi dall’esercito del Myanmar nei confronti della minoranza rohingya, portando le Nazioni Unite a chiedere un processo per genocidio nei confronti dei militari.
È vero che circolano parecchie notizie false, ma è altrettanto vero che il motto: “It’s fake news!”, tanto amato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – che era certo di diventare persona dell’anno – è soltanto un’arma per screditare i media. Di sicuro il giornalismo è cambiato, si evolverà ancora; forse la carta stampata soccomberà, ma chi ha sete di scrittura, di trasparenza, di dar voce a chi non ne ha, non sarà mai sazio.
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