Il partito di Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni in Myanmar, segnate dalla persecuzione di esponenti dell’opposizione e dall’esclusione dal voto dei rohingya.
Mentre gli occhi del mondo erano puntati sul dramma elettorale in corso negli Stati Uniti, i cittadini del Myanmar (con alcune importanti eccezioni) sono andati alle urne domenica 8 novembre per votare alle elezioni generali. Le elezioni sono state vinte dal partito National league for democracy (Lega nazionale per la democrazia, Nld) di Aung San Suu Kyi, che ha ottenuto una larga maggioranza come era successo cinque anni fa nelle prime elezioni democratiche del paese in oltre mezzo secolo.
I risultati delle elezioni in Myanmar
La Nld ha rivendicato una vittoria schiacciante giorni prima che emergesse un risultato definitivo. Le due camere del Parlamento comprendono in totale 476 seggi e per ora il partito ha vinto 346 seggi sui 412 di cui sappiamo i risultati certi. La Nld potrebbe essere sulla buona strada per guadagnare una maggioranza ancora più forte rispetto ai 390 seggi vinti nel 2015. Prima delle elezioni in molti credevano che il successo del partito al governo sarebbe stato frenato dall’emergere di nuove forze politiche e da un maggiore sostegno ai partiti delle minoranze etniche nelle regioni dove l’insoddisfazione per il governo centrale è alta. I primi risultati hanno mostrato alcuni miglioramenti per i partiti etnici negli stati di Kayah, Mon e Shan, e il principale partito di opposizione Union solidarity and development party, che è sostenuto dai militari, ha vinto finora 24 seggi.
Negli ultimi mesi il Myanmar ha assistito a un forte aumento dei casi di coronavirus: la maggior parte dei 60mila casi confermati nel paese sono stati rilevati dopo agosto. Le elezioni si sono svolte anche sullo sfondo del conflitto etnico in corso: tuttora il Tatmadaw (l’esercito del Myanmar) è bloccato nello scontro con l’esercito di Arakan negli stati di Rakhine e Chin. All’inizio di quest’anno l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha avviato un’indagine sulle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, esprimendo forti preoccupazioni per la frequenza con cui il Tatmadaw prende di mira la popolazione civile.
La difficile strada verso la democrazia
Nel 2011 la percezione generale sul Myanmar faceva sperare in una transizione verso la democrazia dopo decenni di governo militare. Nel 2015 il paese ha tenuto le sue prime elezioni democratiche dalla metà del Ventesimo secolo e questa notizia è stata accolta con ottimismo da tutto il mondo. La vincitrice del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi è diventata capa di stato de facto e molti pensavano che questo avrebbe annunciato un’era di riforme liberali. Gli ultimi cinque anni, tuttavia, hanno raccontato una storia diversa.
La costituzione del paese, redatta dal regime militare, assegna all’esercito un quarto dei seggi parlamentari, conferendogli quindi il potere di bloccare le riforme costituzionali. La forte influenza dell’esercito sulla politica del Myanmar è ulteriormente evidenziata dalla persecuzione dei rohingya, un gruppo etnico musulmano che vive nello stato di Rakhine a cui è stata continuamente negata la cittadinanza, considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo. Solo nel 2017 700mila persone rohingya sono state costrette a lasciare le proprie case, la maggior parte fuggite nel vicino Bangladesh dove ora vivono come rifugiati. Le Nazioni Unite hanno descritto la repressione dell’esercito che ha causato questo esodo di massa come “scopo genocida” e le notizie di stupri di massa, torture ed esecuzioni sommarie contro i rohingya hanno portato la Corte internazionale di giustizia a intraprendere delle indagini per stabilire se le azioni del Myanmar costituiscano una violazione della Convenzione sul genocidio.
Ai rohingya è stato negato il diritto di voto
Aung San Suu Kyi si è rifiutata di riconoscere i crimini perpetrati contro i rohingya, negando ripetutamente gli abusi e arrivando persino a evitare di chiamare per nome la minoranza etnica. Ai membri della comunità rohingya che rimangono in Myanmar è stato negato il diritto di voto nelle recenti elezioni perché non sono considerati cittadini del paese. Alla maggior parte dei politici che rappresentano questo gruppo è invece stata impedita la partecipazione alle elezioni.
Se da un lato il silenzio di Suu Kyi sulla questione potrebbe essere visto come una strategia per non inimicarsi i militari o mettere a repentaglio i processi democratici che stanno proseguendo nel Myanmar negli ultimi dieci anni, molti critici sottolineano che è imperdonabile ignorare gli abusi e le sofferenze inflitte su questa e su altre minoranze etniche nel paese. Tanto più se si considera che le azioni della leader de facto (o meglio, la mancanza di azioni) rischiano di aver accresciuto il favore della maggioranza etnica buddista Bamar, che costituisce una parte sostanziale dell’elettorato.
Le elezioni in Myanmar, “fondamentalmente sbagliate”
La ong Human rights watch ha descritto le recenti elezioni come “fondamentalmente sbagliate”, denunciando la privazione dei diritti civili dei rohingya, l’accesso ineguale dei diversi partiti ai mezzi di comunicazione statali e l’arresto e la persecuzione dei critici del governo in vista delle elezioni. Molti siti web antigovernativi sono stati bloccati e le persone che sostenevano il boicottaggio del voto sono state minacciate di arresto. Il giorno delle elezioni i seggi in tutto lo stato di Rakhine sono stati chiusi, privando oltre un milione di persone della possibilità di votare e aprendo la strada a una vittoria della Nld in uno stato in cui è profondamente impopolare.
#Myanmar: “This is not only wrong, it is dangerous,” says UNSR @RapporteurUn on mVoter2020 identifying #Rohingya as “Bengali.”
What do you think @SabatucciEU? Will EU publicly call out the app?
Nel complesso, le elezioni del 2020 in Myanmar hanno dimostrato che il paese è ancora molto lontano dal raggiungimento degli obiettivi democratici auspicati da molti. Mentre una parte significativa degli elettori ha scelto ancora Aung San Suu Kyi come migliore speranza per il futuro, il sentimento di ottimismo che ha accompagnato le elezioni del 2015, soprattutto tra gli osservatori internazionali, è quasi svanito.
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