George Floyd, il cittadino afroamericano morto dopo un intervento brutale della polizia, è divenuto in poche ore un simbolo doloroso per gli Stati Uniti. Minneapolis da giorni è in fiamme, con migliaia di persone scese in piazza per protestare per un’uccisione che lascerà il segno nella memoria cittadina. Anche nel resto del paese le manifestazioni si sono diffuse a macchia d’olio. Con decine di città coinvolte, tra cui Los Angeles, New York e Detroit, dove un ragazzo di 19 anni che stava partecipando ai cortei è stato ucciso da spari provenienti da un’automobile in corsa. Altre tre persone hanno perso la vita in circostanze simili altrove, mentre in 25 grandi centri urbani è stato proclamato il coprifuoco: l’ultima volta che si era arrivati a numeri simili era nel 1968, con l’omicidio di Martin Luther King.
Perché tutto questo sta succedendo in quella che viene chiamata “la democrazia più grande del mondo”? Il caso George Floyd, in realtà, ha ben poco di eccezionale. Si tratta piuttosto della classica goccia che ha fatto traboccare un vaso colmo di rabbia e indignazione popolare. La morte di un nero nelle mani dello stato non infatti è qualcosa di inusuale negli Stati Uniti: nelle stesse ore in cui si consumava la tragedia di Minneapolis, per esempio, un transgender afroamericano perdeva la vita in Florida dopo essere stato colpito dagli spari della polizia.
Il caso Minneapolis
Il problema è dunque nazionale, ma se c’è una città che ben rappresenta questa situazione, quella è proprio Minneapolis. Nel 2019, è stata classificata come la quarta più pericolosa area metropolitana degli Stati Uniti per i neri americani. Si tratta di un centro urbano che presenta autentici casi di segregazione e di ghettizzazione. Il colore della pelle funge dunque da stigma a livello sociale.
“In quanto afroamericani, i dati mostrano che siamo dieci volte più esposti, rispetto ai cittadini bianchi, agli arresti e alle uccisioni della polizia in questa città”, spiega Trahern Crews, uno dei portavoce dell’associazione Black lives matter Minnesota. “Si tratta di un problema sistemico legato al razzismo, ma non solo. A Minneapolis abbiamo le più grandi disparità economiche e le più grandi forbici di ricchezza tra bianchi e neri a livello nazionale, stesso discorso per le disparità a livello sanitario, e via dicendo. Tutto questo rende più facile per la polizia farci del male, senza che ne derivino delle responsabilità”.
Il caso Floyd è l’ultimo di una lunga serie
Il ginocchio del poliziotto Derek Chauvin che per nove minuti ha premuto sul collo di George Floyd, portando al decesso, non è insomma nulla di nuovo storicamente. La novità sta semmai nel fatto che tutto questo sia stato documentato. “Violenze come queste nei nostri confronti avvengono da sempre negli Stati Uniti”, sottolinea Crews. “A cambiare le cose è stata la diffusione delle fotocamere, uno degli strumenti più forti che potessimo avere a disposizione contro la brutalità della polizia e il razzismo istituzionale. Essa oggi ci permette di mostrare al mondo quello che abbiamo vissuto in questo paese nel corso dei secoli”.
The White House went dark as protesters demonstrated against racial police violence and the killing of #GeorgeFloyd, some lighting fires. Police fired tear gas and pepper spray at them.
George Floyd è la quinta persona a morire per mano della polizia a Minneapolis dal 2017: in quattro casi su cinque si trattava di afroamericani. Prima ancora era toccato ad altri neri come Philando Castile nel 2016 o Jamar Clark nel 2015. Episodi conclusi nel peggiore dei casi con assoluzioni, nel migliore con semplici congedi – a parte nell’unico caso in cui a sparare fu un agente afro-americano, Mohamed Noor, condannato poi a 12 anni e mezzo. In città, solo l’1% dei reclami relativi ad abusi di polizia presentati dal 2012 hanno portato ad una condanna. Inoltre, i neri hanno rappresentato oltre il 60 per cento delle vittime nelle sparatorie della polizia di Minneapolis dalla fine del 2009 al mese di maggio del 2019.
Non sono mai stati presi provvedimenti
Chauvin in passato aveva già raccolto diversi reclami per i suoi modi violenti, senza che si fosse mai arrivati a sanzioni disciplinari, oltre a essere stato coinvolto in sparatorie contro sospettati. Lo stesso passato tribolato riguarda un altro degli agenti presenti al momento dell’arresto di Floyd, Tou Thao. Elementi che confermano la nomea razzista e violenta della polizia di Minneapolis. Un aspetto ben sintetizzato nelle scorse ore dall’arresto in diretta del giornalista nero dell’emittente Cnn o dagli spari contro gli abitanti alle finestre. “Non si è mai riusciti ad andare verso un processo di democratizzazione della polizia cittadina a causa dell’opposizione strenua dei sindacati di polizia locale”, spiega Crews.
“Si potrebbero fare tante cose per migliorare la situazione, a partire da una rinegoziazione del contratto tra la città di Minneapolis e la federazione di polizia locale”. Black lives matter e le associazioni per i diritti umani locali hanno avanzato tante proposte nel corso degli anni, da quella che prevede l’introduzione di un’assicurazione personale di responsabilità professionale per gli agenti, a un database sulla cattiva condotta. Fino a un divieto di trasferimento lavorativo negli altri stati per i poliziotti colpiti da sanzioni. Ma nulla è mai stato accolto. “La violenza della polizia va avanti indisturbata, si continuano a terrorizzare i neri americani, qui come altrove”, chiosa Crews.
La mossa con il ginocchio è stata usata altre volte
Tra i tanti punti delicati, proprio la “mossa dello strozzamento” con il ginocchio, quella che ha portato alla morte di George Floyd. Gli ufficiali di Minneapolis possono usare questa presa per rendere incosciente il sospettato in caso esso mostrasse resistenza attiva, mentre se la situazione è particolarmente critica è contemplata anche l’uccisione. Che è esattamente quanto avvenuto con Floyd, sebbene i video dimostrino che egli non stesse opponendo alcun tipo di resistenza. Sul quotidiano americano New York Times hanno definito l’episodio come “street justice”, una situazione molto diffusa negli Stati Uniti in cui un poliziotto punisce un sospettato per il suo atteggiamento, imprimendogli una sorta di lezione per il futuro.
Il problema di fondo di questa violenza sta proprio nelle ampie maglie concesse agli agenti nelle loro azioni, come è con la mossa dello strozzamento. I rapporti del dipartimento di polizia di Minneapolis sottolineano che nel 2019 questa presa potenzialmente mortale è stata usata in 56 occasioni, nella maggior parte contro quegli afroamericani. Che costituiscono però solo un quinto della popolazione. Che Bob Kroll, presidente della Police officers federation of Minneapolis, la federazione degli agenti di polizia della città, avesse uno stemma con scritto white power sulla propria giacchetta non deve allora essere un caso.
Il problema a Minneapolis, ma in fin dei conti negli Stati Uniti tutti, è dunque doppio e sta nella discriminazione razziale nei confronti dei sospettati, ma anche nella violenza endemica nel corpo di polizia, una violenza legalizzata. Come ha dettoTeresa Nelson, direttrice legale dell’Aclu (American civil liberties union, organizzazione governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali) del Minnesota, nel caso di George Floyd gli agenti hanno violato la disciplina interna, ma il problema vero sta a monte, in quella stessa disciplina che consente di rendere incosciente un sospettato senza troppi fronzoli.
Un problema nazionale
“Il video della morte di Floyd è orribile ma non sorprendente; terribile ma non insolito, e raffigura una tipologia di incidente che accade periodicamente negli Stati Uniti”, ha scrittoJelani Cobb sul quotidiano New Yorker.
La storia americana è in effetti coerente con quella di Minneapolis e ci dice che di fatti così ne succedono tanti, troppi. Se in certi casi del passato la reazione della popolazione si è fatta sentire, per il resto tutto si risolve abitualmente nel silenzio, al quale contribuisce una certa omertà delle istituzioni. Nel 2019 la polizia statunitense ha ucciso 235 neri e 370 bianchi. Se si guarda all’uccisione di persone disarmate, quelle di bianchi e neri si equivalgono. Il problema però è che gli afroamericani costituiscono solo il 13 per cento della popolazione statunitense, un dato che racconta bene come in proporzione sia molto più probabile perdere la vita durante un controllo di polizia se si è neri.
Oggi George Floyd è divenuto un simbolo. E anche questo non è un caso. Lo è per il contesto in cui è avvenuto il suo omicidio. Lo è per la brutalità delle immagini circolate, che hanno offerto una fotografia senza filtri di una cosa di cui si conosceva l’esistenza ma che spesso non è stata visibile. Lo è anche per il momento storico in cui tutto questo è avvenuto. La pandemia di coronavirus ha messo in mostra più che mai le disuguaglianze sociali nel mondo. Da più parti si è sottolineato come negli Stati Uniti il virus abbia colpito in modo sproporzionato e più forte gli afroamericani: il tasso di mortalità di questi ultimi è stato di tre volte superiore a quello dei bianchi.
"The truth is: Things like this happen when people feel powerless," says Bibi Abdullah, whose mother's restaurant was destroyed in Minneapolis.
"It came to this because we have people that do not care in positions of power, and it should not be that way."https://t.co/LWFfFUX3OC
La morte di un afroamericano per mano dello stato, proprio lì, proprio ora, proprio in quelle circostanze, ha rappresentato una scintilla in un contesto già profondamente segnato da tensioni, precarietà, rabbia e dolore. Minneapolis e il suo passato sono solo la punta dell’iceberg di un problema nazionale. Oggi quell’iceberg sta venendo a galla.
Keenan Anderson era rimasto coinvolto in un incidente stradale. Gli agenti lo hanno colpito col taser e immobilizzato con forza. È morto per arresto cardiaco.
Colpevole di tutte le accuse. Questo è il verdetto raggiunto dalla giuria nei confronti di Derek Chauvin, l’agente di polizia che ha ucciso George Floyd a Minneapolis lo scorso 25 maggio. Chauvin era accusato di omicidio colposo (manslaughter), omicidio di terzo e secondo grado, che prevedono pene rispettivamente fino a 10, 25 e 40 anni
Ad agosto nel Wisconsin un agente aveva sparato all’afroamericano Jacob Blake colpendolo 7 volte alle spalle. Il procuratore ha deciso di non perseguirlo.
Brandon Bernard, arrestato nel 1999, è stato giustiziato in Indiana. È la prima esecuzione in 130 anni ad avvenire durante la transizione presidenziale.
“Per quanto giovane, la mia generazione è già scesa in piazza, in modo pacifico e rispettando le misure anti Covid, per protestare contro l’odio razziale. Realizzeremo il sogno di mio padre”. Così ha detto Yolanda Renee King, la nipote dodicenne di Martin Luther King, dai gradini del Lincoln memorial, gli stessi da cui suo nonno aveva
Nella notte i campioni dell’Nba non sono scesi in campo contro il razzismo. Negli Stati Uniti si fermano anche calcio, baseball, tennis e basket femminile.
Nel Wisconsin, Jacob Blake, un uomo afroamericano, è stato ripetutamente colpito alle spalle da una serie di colpi d’arma da fuoco esplosi dalla polizia.