Un documentario che racconta la vita attorno ad una grande quercia attraverso gli occhi dei suoi abitanti. Un film per tutti dal 25 gennaio al cinema.
La trama del film The Post di Steven Spielberg è un inno alla libertà di stampa
Con il film The Post, Steven Spielberg racconta la grande fuga di notizie che ha svelato al mondo la verità sulla guerra in Vietnam e ribadisce – oggi più che mai – l’importanza della libertà di stampa.
Essere attuali raccontando fatti successi oltre quarant’anni fa. È ciò che è riuscito a sintetizzare il regista Steven Spielberg nel thriller politico The Post che punta i riflettori su argomenti fondamentali come la libertà di stampa e la parità di genere, riportandoci nell’America degli anni Settanta.
Lo spunto parte da un momento storico cruciale, il primo grande scandalo nel mondo dell’informazione: la pubblicazione dei Pentagon papers, un rapporto di settemila pagine sul coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, pieno di segreti tenuti volontariamente nascosti all’opinione pubblica. Una fuga di notizie senza precedenti che nel 1971 ha svelato al mondo la verità sui crimini di guerra americani, innescando uno scontro sia legale che ideale tra la Casa Bianca e gli organi di stampa.
La trama del film The Post in uscita a febbraio
Il film si concentra sulla vicenda vissuta dalla redazione del Washington Post, il quotidiano che nel 1971 ha deciso di pubblicare i segreti governativi contenuti nei rapporti secretati chiamati Pentagon papers. Nonostante il blocco imposto dalla Corte federale al concorrente New York Times, il primo a divulgare una piccola parte dei documenti, su richiesta dell’allora presidente Richard Nixon.
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I protagonisti della pellicola sono la coraggiosa proprietaria del giornale Katharine Graham, prima donna della storia alla guida di un quotidiano, interpretata dall’attrice Meryl Streep, e l’impetuoso e determinato direttore Ben Bradlee, cui presta il volto Tom Hanks. Insieme i due affrontano la più grande sfida della loro vita, giocandosi carriera, reputazione e libertà, in nome del diritto di tutti i cittadini americani di conoscere la verità sull’operato del proprio governo.
Una storia politica e un racconto umano
Sono tanti i meriti e i punti di forza di The Post, in uscita nelle sale italiane il primo febbraio e che, dopo le sei candidature ai Golden Globe, si preannuncia già uno dei favoriti ai premi Oscar. Oltre ad essere un thriller politico dal ritmo avvincente e senza sbavature, il film di Steven Spielberg è anche un racconto umano, drammatico e penetrante e, insieme, una fotografia malinconica e affascinante di un’epoca scolpita nell’immaginario collettivo.
Un’epoca in cui i pacifisti lottavano per porre fine alla guerra in Vietnam, in cui le donne erano confinate ai margini dal potere e dalla società e in cui le redazioni dei giornali erano ancora pervase dal ticchettìo incessante delle macchine da scrivere. Un’ambientazione lontana da quella moderna, in cui Spielberg riesce a costruire una storia di stringente attualità, raccontando vicende umane e momenti storici rivoluzionari con dimestichezza e pathos. D’altra parte, aveva già dimostrato di saper raccontare la Storia, con capolavori come Schindler’s List o Salvate il soldato Ryan (solo per citarne alcuni).
Una vera e propria urgenza, quella sentita dal regista, di dover affrontare il tema della libertà di stampa nel corso dell’amministrazione Trump. Urgenza tale da spingerlo a interrompere i suoi precedenti impegni, per girare il film in soli 43 giorni, affiancato da due star di Hollywood liberali e democratiche, ma allo stesso popolari e amate universalmente come Tom Hanks e Meryl Streep.
Steven Spielberg: “La libertà di stampa oggi è più in pericolo di prima”
“Io credo che la libertà di stampa sia un diritto che consente ai giornalisti di essere i veri guardiani della democrazia”, ha detto Spielberg durante la conferenza stampa che si è tenuta a Milano il 15 gennaio a cui LifeGate ha partecipato. “Questo è quello che mi è stato insegnato quando ero bambino e che resta per me una verità incontrovertibile. I fatti inauditi del 1971, quando Nixon cercò di bloccare i Pentagon papers sono stati il primo tentativo di ostacolare questa libertà. Oggi ci troviamo ancora una volta di fronte a una minaccia reale, e forse anche peggiore di allora, alla libertà di stampa”.
Non stupisce, dunque, che la stampa statunitense abbia accolto con entusiasmo la pellicola: “Da parte dei giornali americani abbiamo ottenuto grande sostegno”, prosegue il regista, “loro si trovano a respingere quasi quotidianamente gli attacchi che subiscono dall’amministrazione e a lottare contro la disinformazione, che troppo spesso etichetta come fake news (bufale), le notizie che non piacciono al presidente”.
Sull’argomento è intervenuta anche Streep: “Amy Pascal (la produttrice del film, ndr) ha acquistato la sceneggiatura sei giorni prima delle ultime elezioni e tutti pensavamo che il suo sarebbe stato uno sguardo un po’ nostalgico sul passato, che avrebbe mostrato quanta strada era stata fatta da allora, in previsione della nomina del primo presidente donna (la candidata democratica Hillary Clinton ndr). Invece, dopo le elezioni (e la vittoria di Trump, ndr) c’è stato un aumento delle ostilità nei confronti sia della libertà di stampa, che delle donne, proprio al vertice del governo. Quindi il film è diventato una riflessione su quanta strada dobbiamo ancora fare”.
Meryl Streep è Katharine Graham: donna rivoluzionaria che cambiò la Storia
Il film ha già riscosso ampi consensi dalla critica, anche a prescindere dal messaggio politico e “soprattutto grazie alla figura di Katharine Graham, che si è trovata ai vertici della sua professione, in un mondo governato dagli uomini”, spiega Spielberg, “Il nucleo emotivo del mio film è affidato proprio a lei”. Una sfida resa magistralmente dalla sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer e da una delle più sentite interpretazioni di Meryl Streep.
Moglie e madre di quattro figli, Katharine Graham si ritrovò improvvisamente tra le mani la guida del giornale di famiglia (era appartenuto al padre) quando suo marito Phil morì suicida. All’età di 46 anni e senza aver mai lavorato prima decise, per il bene dei propri figli, di farsi carico di una enorme responsabilità. Un gesto rivoluzionario per quei tempi, che la portò a essere la prima donna menzionata nel Fortune 500, l’elenco annuale delle imprese statunitensi di maggior successo.
Un ruolo perfetto per Streep, quello di Kay Graham, divenuta simbolo dell’emancipazione femminile in ambito professionale e paladina della libertà di stampa. L’attrice l’attrice de Il diavolo veste Prada e The iron lady è, infatti, un’attiva sostenitrice del Comitato di difesa dei giornalisti e, più recentemente, del progetto Time’s Up: un fondo da 13 milioni di dollari, destinato alle vittime di molestie sessuali sul lavoro, nato sulla scia del caso Weinstein e della campagna #MeToo.
Cosa hanno svelato i Pentagon paper
Lungi dall’essere una semplice rievocazione storica, The Post assume la forma di una vera e propria denuncia politica e sociale nei confronti della nostra epoca. Uno strumento di riflessione sulla necessità di fare memoria del passato e delle conquiste fatte, non dandole per scontate ma vigilando sul presente, come ribadito da Meryl Streep a Milano. Ecco perché, nel 2018, è ancora interessante e fondamentale conoscere la storia di quello che accadde nel 1971 e film come questo diventano un’occasione preziosa per tutti per un ripasso di quelle pagine.
Cogliendo proprio questo stimolo ripercorriamo brevemente quegli avvenimenti e iniziamo col raccontare cosa sono i Pentagon papers (documenti del Pentagono) al centro della vicenda.
Sono noti col nome di Pentagon papers i documenti top secret, composti da settemila pagine, che raccontano del coinvolgimento del governo Usa nella guerra in Vietnam, una delle più impopolari e drammatiche della storia americana recente. Una mole immensa di segreti governativi, collezionati da quattro amministrazioni: dal presidente Henry Truman a Dwight Eisenhower, fino a John Kennedy e Lyndon Johnson.
La loro raccolta era stata commissionata nel 1967 dall’allora segretario alla Difesa Robert McNamara (protagonista di un altro documentario staordinario, The fog of war: la guerra secondo Robert McNamara), che aveva commissionato questo studio, per ricostruire la “storia delle decisioni degli Usa in Vietnam dal 1945 al 1966”. Questo rapporto dimostrava, in sostanza, il crescente coinvolgimento e la criticità della condizione in cui versava l’esercito americano nella guerra, svelando errori, fallimenti, assassini, violazioni delle Convenzioni di Ginevra, elezioni truccate e bugie raccontate al Congresso e al popolo. Fatti e verità che, se rese pubbliche, avrebbero minato la credibilità e la reputazione dei governi. Come, effettivamente, avvenne, dopo la loro diffusione.
Ricordiamo che la guerra in Vietnam è costata la vita a oltre 58mila militari statunitensi e a un milione di persone. A decidere di rendere pubblici questi documenti, in nome della libertà di stampa garantita dal primo emendamento della costituzione americana, è stato l’analista militare Daniel Ellsberg, coinvolto nella stesura del rapporto fin dall’inizio. Dopo aver fotocopiato tutti i documenti, ha tentato di consegnarli al Congresso, senza successo. Così ha deciso di proporli al New York Times, il quotidiano più venduto e famoso d’America, riuscendo a ottenerne l’appoggio.
Il primo articolo è uscito il 13 giugno 1971 scatenando le reazioni del presidente Richard Nixon che il 15 giugno ha chiesto e ottenuto il blocco della pubblicazione dalla Corte federale per motivi di “sicurezza nazionale”. Ma mentre il Times si appellava alla Corte suprema il Washington Post è riuscito a entrare in possesso dei documenti e a pubblicarli sulle sue pagine, rischiando l’imputazione per tradimento e oltraggio alla corte. Molti altri giornali, incoraggiati dal gesto del Post, hanno iniziato a pubblicare approfondimenti sui Pentagon paper e il 30 giugno dello stesso anno la Corte suprema decide di respingere l’ingiunzione contro la loro pubblicazione. La libertà di stampa, tutelata dal primo emendamento, era stata garantita.
Le conseguenze dei Pentagon papers, dal Watergate a WikiLeaks
Una delle conseguenze più eclatanti e dirette della pubblicazione dei Pentagon papers è stato lo scandalo politico del Watergate, nel 1972. La clamorosa fuga di notizie sul Vietnam aveva spinto il presidente Nixon a mettere in piedi una squadra segreta (poi ribattezzata dei “plumber”, ovvero “idraulici”), incaricata di intercettare e chiudere eventuali “perdite”: fughe di notizie riservate. Uno dei primi incarichi degli agenti è stato quello di spiare le sedute psichiatriche di Daniel Ellsberg, la gola profonda dei Pentagon papers, al fine di screditarlo. La scoperta delle intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del comitato nazionale del Partito democratico, che aveva sede nel Watergate Hotel, è stata – ancora una volta – frutto di un’inchiesta giornalistica del Washington Post, portata avanti dai giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein. Inchiesta che ha portato alle dimissioni dello stesso Nixon.
I Pentagon papers diventano ufficialmente pubblici grazie a Obama
40 anni dopo i fatti narrati in The Post, il presidente Barack Obama ha deciso di rendere pubblici, nel 2011, i 47 volumi dei Pentagon Papers. Una scelta di trasparenza in contrasto, però, con l’atteggiamento tenuto dallo stesso Obama su altre questioni di natura simile. È del 2010 il caso della pubblicazione su WikiLeaks di migliaia di documenti militari sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite all’attentato alle Torri gemelle del 2001, che però sono stati tenuti segreti dal governo americano.
La gola profonda è stata, questa volta, l’allora soldato Bradley Manning. Considerato da molti un eroe, Manning è stato arrestato e detenuto in condizioni poi definite disumane. Tanto che fu lo stesso Daniel Ellsberg, allora ottantenne, a manifestare davanti al carcere di Quantico, dov’era detenuto Manning, definito “suo erede”.
“Gli americani devono poter leggere gli Afghanistan paper. Oggi, non fra 40 anni. Il meccanismo è sempre lo stesso: un presidente viene trascinato in guerra per non esporre il fianco alle accuse di debolezza da parte dei generali e degli avversari politici. E per controllare le gole profonde, oggi la Casa Bianca ha più strumenti che ai tempi di Nixon”, ha dichiarato Ellsberg.
Dopo sette anni di detenzione e una condanna di oltre trenta, nel gennaio 2017 Manning si è visto commutare la pena proprio da Obama che, il 17 maggio 2017, gli ha concesso la libertà.
Lo scandalo Datagate
Un altro caso di fuga dei notizie in nome del diritto dei cittadini di conoscere la verità sull’operato del governo è quello di Edward Snowden, ex tecnico della Cia, l’agenzia di spionaggio americana, che ha portato allo scandalo del Datagate. Nel 2013 Snowden ha consegnato quotidiano britannico Guardian alcuni file riguardanti i programmi di sorveglianza di massa (telefonica ed elettronica) portati avanti dai governi statunitense e britannico. Misure adottate dai governi per la “sicurezza nazionale”, ma in contrasto con la tutela della privacy. Anche in questo caso il presidente Obama ha reagito duramente con Snowden, definendolo un hacker. Per molti era già un paladino della libertà. Da allora Snowden non è più tornato negli Stati Uniti, dove lo attenderebbe un processo per spionaggio. Oggi vive in Russia con un permesso di residenza temporaneo. La sua sua storia è stata raccontata nel film Snowden, questa volta a firma del regista Oliver Stone. Un altro film con cui Hollywood mette a nudo l’America, in nome dei più alti e universali ideali di verità e libertà. Un’altra visione da non lasciarsi scappare.
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