- Cosa succederà alla transizione ecologica ora che il piano italiano per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi (Pitesai) è stato approvato? La domanda è lecita soprattutto alla luce dello scoppio del conflitto Russia-Ucraina e del caro materie prime che tocca lo scenario nazionale e globale da oltre un anno.
- L’Italia e l’intera Unione europea rischiano di pagare a caro prezzo la forte dipendenza dall’importazione di energia, che ridurranno con il piano d’azione REPowerEU.
- La volontà di diventare energeticamente autosufficienti rischia di rendere più attrattiva, soprattutto nel breve periodo, la ricerca dei combustibili fossili.
Che fine farà la transizione energetica se il piano per la prospezione, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi (Pitesai) sul territorio nazionale ha preso il largo? E se si torna a parlare di carbone per produrre energia in un momento di crisi, gettando un’ombra sul termine del 2025 per il phase out?
Come siamo arrivati al Pitesai
Irrompe (seppure aspettato da tempo) nell’attuale scenario energetico la chiusura dell’iter di approvazione del Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai) con “regole certe dopo anni di attesa”, scrive il ministero della Transizione ecologica in una nota stampa. “Fortemente voluto” dal ministro Roberto Cingolani, dovrà “accompagnare la transizione del sistema energetico nazionale definendo le priorità sia in un’ottica di decarbonizzazione – in linea con gli accordi internazionali di tutela dell’ambiente e della biodiversità – che del fabbisogno energetico”.
Le tre facce della sostenibilità – ambientale, sociale ed economica –, si legge in nota, sono stati i capisaldi della redazione del piano. Prima dell’approvazione e della pubblicazione in gazzetta ufficiale c’è stato un lavoro di mappatura condotto dall’Ispra-Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale e dalla società di ricerca Rse-Ricerca sul Sistema Energetico. A questo è seguita una proposta elaborata dal Mite, sottoposta al processo di valutazione ambientale strategica (Vas) e, infine, approdata alla fase di consultazione pubblica interna.
Lo scorso 29 settembre 2021 il piano è tornato al dicastero per essere oggetto di una fase di interlocuzione con la Conferenza Unificata delle Regioni. A fine anno è arrivato il parere positivo, con il vincolo di valutazione di possibili attività connesse a permessi di ricerca limitandole esclusivamente al gas e se presentate dall’1 gennaio 2010 (dunque, retroattive).
Cosa prevede il piano
Il Pitesai consente agli operatori di 15 regioni – dal Friuli alla Puglia escludendo le aree dove non c’è gas quindi Liguria, Toscana (fatte salve le concessioni in essere), Umbria, Valle D’Aosta, Toscana, Trentino Alto Adige, Liguria e Sardegna – di dare il via a nuove trivellazioni in mare e a terra. Riduce l’estensione dell’area di estrazione – al 42,5 per cento della terraferma e al 5 per cento della superficie marina – senza porre limiti temporali alle concessioni esistenti. Richiede, poi, il rispetto di criteri ambientali, sociali ed economici “definiti sulla base delle caratteristiche territoriali e ambientali delle aree di studio” e legate a “vincoli normativi, regimi di protezione e di tutela a vario titolo e di particolari sensibilità/vulnerabilità alle attività”, seppure saranno “ove applicabile, dinamici e adattativi” e costantemente aggiornati.
Come si legge nel documento, il Pitesai prevede:
- “la chiusura alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di tutte le aree marine e terrestri non comprese nell’ambito territoriale di riferimento della pianificazione e valutazione del piano”;
- “l’individuazione di due livelli di analisi differenti delle aree idonee per la valorizzazione della sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle attività di ricerca ancora da avviare e di quelle di ricerca o coltivazione già in essere”. Il primo livello definisce “le aree dove potranno essere in futuro presentate nuove istanze per lo svolgimento potenziale di attività di prospezione/ricerca/coltivazione”. Il secondo “le aree idonee alla prosecuzione dei procedimenti amministrativi e di quelle, già oggi occupate da titoli minerari”
Da subito stimolerà la “razionalizzazione, in termini di maggiore efficientamento delle aree impiegate”, per la produzione di idrocarburi nazionali “concentrata solo su una ridotta percentuale delle concessioni attive”. Inoltre, la “razionalizzazione delle concessioni presenti in Italia non si pone in antitesi con le necessità di salvaguardare la produzione nazionale e i livelli occupazionali”.
C’è poi la promessa di indicare “tempi e modi di dismissione e rimessa in pristino dei luoghi da parte delle relative installazioni che abbiano cessato la loro attività”, per cui si prevede di “introdurre specifici interventi, normativi e regolamentari, volti ad accelerare il processo della dismissione delle piattaforme marine a fine vita utile, ed in generale di tutti gli impianti di coltivazione onshore ed offshore che si trovano in tale situazione”.
Un occhio all’economia circolare
Con l’obiettivo fisso di “introdurre un nuovo impulso all’economia locale mediante l’apertura nel medio periodo di nuovi cantieri, con la creazione di nuovi posti di lavoro, sia per la dismissione delle strutture di coltivazione a fine vita sia per la potenziale valorizzazione delle stesse in chiave non estrattiva”. Traguardo che, oltre a voler scrivere il libro della transizione energetica, apre un altro capitolo: quello della gestione intelligente delle dismissioni e dei cantieri, che dovranno esser promossi per recuperare materie prime e ridurre, anche in questo caso, le importazioni dall’estero. Altrimenti (anche) l’economia circolare rischia di rimanere un proposito irrealizzato.
“Soluzione tampone e insensata”, le alternative
Una soluzione “tampone, scellerata e insensata”, come definita nel comunicato stampa congiunto dalle associazioni ambientaliste Wwf, Greenpeace e Legambiente.
Quali sono le scelte, per così dire, sensate? Le associazioni propongono di non raddoppiare la produzione nazionale di gas, da 3,5 miliardi di metri cubi anno a 7 miliardi, ma “decuplicare la velocità di sviluppo delle fonti rinnovabili, a partire dal solare fotovoltaico e dall’eolico”, avviare “serie politiche di efficienza energetiche nei consumi domestici e nei cicli produttivi” e, ancora, semplificare l’iter autorizzativo per nuovi impianti.
Di combustibili fossili, dipendenza e crisi
La guerra in Ucraina sembra minare il percorso che il settore energetico nazionale ha intrapreso per raggiungere l’obiettivo europeo della neutralità climatica al 2050. Il conflitto ha riportato alla ribalta il tema della geopolitica dell’energia e della dipendenza dell’Italia: la Russia è il primo esportatore mondiale di prodotti petroliferi e greggio, solo l’Unione europea nel 2021 ha importato 4,3 milioni di barili al giorno e 155 miliardi di metri cubi totali di gas metano da Mosca (Fonte: Eurostat).
Si pensa a come correre ai ripari. Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, nell’incontro recente con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha detto che Italia e Ue “devono lavorare sulla diversificazione e riorganizzazione, con un’accelerazione degli investimenti nelle energie rinnovabili. L’obiettivo, comune a tutta l’Ue, è il raddoppio degli stoccaggi di gas entro l’autunno”. Dopo poche ore la Commissione europea ha presentato il piano d’azione REPowerEU per slegarsi da gas e petrolio russi. Omonima decisione attuata da Stati Uniti e Regno Unito.
Rivoluzione sostenibile e transizione ecologica
La rivoluzione in chiave sostenibile del comparto non può essere istantanea: è un percorso che richiede di bilanciare gli oneri economici con i benefici ambientali, promuovere una governance coesa, tutelare gli interessi delle filiere produttive, puntare al risparmio e al riuso consapevole delle risorse, rendere il cittadino protagonista del proprio futuro, investire con lungimiranza sulla trasversalità delle competenze per assicurare la fioritura di nuove figure professionali e la migrazione occupazionale dai comparti più tradizionali.
Nell’intervista dell’8 marzo ad Agorà extra su Rai3, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha spiegato che “entro la primavera inoltrata circa 15-16 miliardi di metri cubi saranno rimpiazzati da altri fornitori” e che “stiamo lavorando con impianti nuovi, rigassificazione e contratti a lungo termine, rinforzo delle nostre infrastrutture e ragionevolmente in 24-30 mesi dovrebbero consentirci di essere completamente indipendente”.
Sulla sicurezza degli approvvigionamenti c’è da sempre grande consapevolezza, testimonianza palese nel 2017 quando si approdò alla Strategia energetica nazionale che ha dato i natali all’attuale Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), la roadmap per la transizione in Italia al 2030.
La volontà di perseguire le attività di estrazione del gas, ancora più simbolica all’indomani della presentazione del piano d’azione REPowerEU, sembrerebbe stridere con gli obiettivi fissati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza per la ripresa sostenibile del Paese dalla pandemia di Covid-19.
Nel documento la transizione è citata come “un’opportunità unica per l’Italia” perchè ne può trarre più vantaggio rispetto ad altri Paesi “data la relativa scarsità di risorse tradizionali (es., petrolio e gas naturale)” e l’abbondanza di risorse rinnovabili. Eppure, dice il Pitesai, le attività legate ai combustibili fossili, che non riceveranno risorse dal Pnrr, continueranno. Anche perchè, ed è una chiave di lettura molto interessante, il Piano di ripresa e resilienza evidenzia come il settore delle raffinerie “rappresenta uno dei settori più promettenti” per “sviluppare il mercato” e iniziare a “utilizzare l’idrogeno verde“, considerato uno dei pilastri della transizione sostenibile europea.
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