Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.
Si scrive finanza climatica, si legge transizione giusta
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
Si scrive finanza climatica, si legge transizione giusta. Quando si parla di soldi e finanziamenti legati alla transizione, in realtà non si fa altro che dar seguito a quelle che sono le richieste di costruire un nuovo sistema economico e produttivo che sia rigenerativo e che includa tutta la popolazione mondiale. Senza lasciare indietro nessuno. Senza lasciare indietro chi rischia di perdere il lavoro per la dismissione di interi settori produttivi che necessitano di essere riconvertiti; senza lasciare indietro chi non può permettersi di “pagare” di più nel quotidiano per mantenere inalterato il proprio stile di vita. Non può lasciare indietro nemmeno le sfide e le lotte sociali legate ai diritti umani o civili, perché – in realtà – la lotta per un futuro più sostenibile è una lotta di intersezione tra molteplici sfide. Non ultima, quella per la pace.
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Transizione giusta: gestire l’impatto sociale della decarbonizzazione
Si legge transizione giusta, si sottende la capacità di gestire al meglio l’impatto sociale della decarbonizzazione. Tanto nel sud quanto nel nord del mondo. La transizione, infatti, riguarda lavoratori, fornitori, comunità e consumatori. Quattro gruppi diversi che potrebbero essere stravolti (in questo ordine di priorità) da un mondo a emissioni nette zero, ma che in realtà non sono altro che quattro modi diversi per identificare le persone. Perché è fondamentale ricordarselo sempre: dietro ai numeri e alle cifre della finanza climatica – che ancora non ci sono –, ci sono – eccome – popoli e persone.
Una frase tanto semplice quanto affatto scontata. Quando si parla di soldi, infatti, spesso ci si dimentica che alla fine stiamo semplicemente usando un linguaggio tecnico per rispondere ai bisogni reali delle persone. È per questo che molte organizzazioni che rappresentano la società civile stanno insistendo su questo aspetto. E lo fanno in modo sempre più incalzante, ogni ora che passa, tra i corridoi e le meeting room allestite all’interno dello stadio olimpico di Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove è in corso la Cop29. Lo fanno per evitare che la contrattazione in corso su quanti miliardi “concedere” (e come) per la transizione si trasformi in un gioco noioso, che rischia di allontanare l’interesse persino di quei popoli e di quelle persone che di quei soldi hanno un bisogno assoluto. Perché per ogni milione sacrificato, c’è in ballo la vita di altrettanti esseri umani.
“Questa transizione funzionerà per tutte e tutti e sarà giusta, oppure non funzionerà affatto”, aveva detto cinque anni fa, nel dicembre del 2019, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante il discorso di presentazione del green deal. Un messaggio potente, efficace, condiviso da ogni parte politica perché in grado di rassicurare le cittadine e i cittadini sul fatto che ogni azione intrapresa per portare avanti la transizione ecologica europea sarebbe stata supportata da altrettanti investimenti per l’inclusione sociale.
Quello che è successo in Pakistan, dov’è andato a finire?
Tutti bellissimi concetti che sembravano arrivati anche sull’agenda internazionale, dopo quella europea, durante la Cop27 di due anni fa, a Sharm el-Sheik, quando si decise di adottare il fondo per le perdite e i danni (loss and damage). Una decisione presa sull’onda emotiva delle alluvioni che colpirono il Pakistan nell’estate del 2022, sommergendo un terzo del suo territorio e colpendo più di 33 milioni di persone. Eppure, a soli due anni di distanza, siamo di nuovo al punto di partenza. Oggi il compito è quello di dar vita a un nuovo meccanismo per i finanziamenti climatici, che prende il nome di New collective quantified goal on climate finance (Ncqg) e che dovrebbe consentire di superare largamente la quota di 100 miliardi di dollari stabilita nel lontano 2009.
La cifra di 100 miliardi, peraltro, venne decisa senza avere traccia delle necessità reali delle popolazioni più vulnerabili. Mentre oggi quella traccia c’è e ci dice che servirebbero intorno ai 2.400 miliardi di dollari all’anno per finanziare la transizione, inclusi i fondi previsti per le perdite e i danni. Ora, qui a Baku, si sta discutendo di questo, soprattutto dopo il monito arrivato dal G20 di Rio de Janeiro a non trasformare la Cop29 in un passaggio a vuoto.
“Sappiamo che per riuscire in questa impresa c’è bisogno di una cifra compresa tra i 1.300 e i 5.000 miliardi di dollari – ha dichiarato a LifeGate Danni Taaffe, head of communications del Climate action network (Can) –. E sono pure cifre prudenti”.
Il Pakistan citato, infatti, fu solo la punta di un iceberg fatto di eventi estremi che in questi anni sta emergendo in modo sempre più evidente e rapido. “Non è stata solo una questione di danni economici o alle risorse a nostra disposizione – ha affermato a LifeGate Romina Khurshid Alam, delegata del governo di Islamabad sulle politiche climatiche –, ma anche e soprattutto un momento di perdite personali. Le persone hanno perso la casa, i genitori, le figli e i figli. È stata una delle cose più dolorose che si possano vivere, ma siamo una nazione che sa rialzarsi e così stiamo cercando di uscire da quell’incubo che ci ha fatto soffrire molto”.
Un incubo che, come recitava lo slogan sul padiglione pachistano nel 2022, non rimarrà in Pakistan: “Se non avremo abbastanza soldi per fronteggiare la crisi climatica, non sarà solo un problema per i paesi del sud del mondo, ma per il mondo intero”, ha aggiunto Taaffe. Europa compresa. Il nostro continente ha vissuto alluvioni, incendi, siccità e molti altri eventi estremi, “per questo è anche nell’interesse dei paesi del nord del mondo considerare tutto il pacchetto nel suo insieme. Dalle perdite e i danni alla mitigazione, passando per l’adattamento. Obiettivi che vanno finanziati nel loro insieme”. Ed è proprio la parola package, pacchetto, che andrà ricercata in queste ore nelle bozze negoziali.
Un pacchetto che deve contenere tutto, ma rischia di restare vuoto
Un package che, nella visione dell’Unione europea, deve essere definito dal punto di vista di ciò che può contenere altrimenti sarà molto difficile esporsi sulle cifre da allocare. Il commissario per l’Azione per il clima Wopke Hoekstra, più volte incalzato dalla stampa sul perché Bruxelles non abbia ancora fatto il primo passo come da tradizione, ha risposto cercando di essere “il più cristallino possibile” sul fatto che “non è possibile fare un’offerta senza sapere cosa ci sia nel pacco”.
Una visione condivisibile dal punto di vista degli europei, ma inaccettabile per il popolo pachistano: “Del resto, siamo noi a soffrire maggiormente senza averne la colpa – ha ricordato Khurshid Alam –. Non siamo responsabili delle emissioni, ma soffriamo e soffriremo nuovamente finché quelle promesse non verranno rispettate” ed è per questo che “dobbiamo restare uniti, ora più che mai, per parlare con una sola voce e fare pressione su questi paesi. L’equilibrio globale tornerà, la giustizia prevarrà solo quando i veri responsabili pagheranno”. A prescindere da cosa ci sia davvero in quel pacco, a prescindere dal fatto se la Cina finalmente entrerà – e in che modo – nella lista dei paesi che devono pagare.
La transizione non può essere fermata, va fatta “solo” nel modo giusto. Altrimenti, chiude Taaffe, “vuol dire che non siamo sulla strada giusta”. E il tempo per ricalcolare il percorso è già finito.
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