Dopo sei decenni di protezione, Donald Trump ha fatto saltare tutto: lunedì 17 agosto ha finalizzato quello che è il suo piano per aprire parte dell’Arctic national wildlife refuge in Alaska alle trivellazioni di petrolio egas, per la precisione 78 milioni di chilometri quadrati. Non importa che il parco sia l’ultima grande regione selvaggia degli Stati Uniti né che sia l’unica area del circolo polare artico in cui sono presenti molte specie animali, in particolare uccelli migratori, orsi polari, volpi e caribù che lì hanno trovato il loro santuario incontaminato.
Da sempre gli occhi delle compagnie petrolifere sull’Alaska
L’atto di Trump è l’ultimo di una lunga vicenda, iniziata ancora sotto l’amministrazione Reagan. Già allora i Repubblicani avevano messo gli occhi su questa area dell’Alaska che, se da un lato è una delle più rilevanti per la fauna selvatica, dall’altro, nel sottosuolo, è ricca di petrolio e gas. Nel corso del tempo, all’interno del Congresso, la diatriba tra chi voleva aprire l’area naturale e metterla nelle mani delle compagnie petrolifere e chi voleva mantenere intatto questo delicatissimo ecosistema si era sempre risolta a favore dei secondi. Fino al 2017, quando il Grand Old Party ha usato la sua maggioranza in entrambe le Camere del Congresso per approvare un progetto di legge che autorizza la messa all’asta di contratti di affitto da allocare entro la fine dell’anno.
This is an ongoing attack upon Gwich’in and Inupiaq communities of northern Alaska and their subsistence lifeways. It is nothing more than yet another example of the Trump administration kowtowing to the interests of the oil and gas industry.https://t.co/txOCU5l0t9
— Indigenous Environmental Network (@IENearth) August 17, 2020
Una minaccia per le popolazioni native
Non fosse già di per sé grave la situazione dal punto di vista naturalistico, la questione tocca anche le popolazioni native che su quei territori abitano da tempi antichissimi. Popoli che con il territorio e i suoi animali hanno legami spirituali e culturali da cui dipendono la loro memoria storica e le loro tradizioni. Insieme ai gruppi ambientalisti, gli eredi di queste tradizioni hanno scelto di opporsi alla decisione di Trump sostenendo che la valutazione dei rischi ambientali da parte dell’amministrazione è errata. Di certo, contro ogni evidenza scientifica. Nella sua relazione finale, infatti, il Bureau of land management – l’ufficio che si occupa della gestione dei terreni pubblici americani – ha definito l’attuale riscaldamento climatico un fatto normale, dovuto a un andamento ciclico delle temperature anziché a un effetto prodotto dall’intervento dell’uomo, bruciando sull’altare del proprio opportunismo i tantissimi lavori scientifici che provano il contrario.
Investire sui combustibili fossili è una partita persa
La questione riguarda anche il senso di investire ancora sui combustibili fossili. L’amministrazione Trump ha sempre negato i cambiamenti climatici che nell’Artico corrono a un ritmo molto più veloce rispetto al resto del mondo. I caribù ad esempio stanno già modificando i loro percorsi di migrazione. Non parliamo dei rischi che l’alterazione o la distruzione degli ecosistemi naturali portano con sé, rendendo tangibile quello che oramai diversi studi scientifici mettono in luce, ossia il loro diretto collegamento con la diffusione di nuovi virus e batteri, esattamente come è successo in passato con l’Ebola o l’Hiv e oggi con la Covid-19. Trump pensa di risollevare l’economia americana adottando soluzioni che forse andavano bene negli anni di Regan, 30 anni fa, quando non si conoscevano ancora con esattezza gli effetti nefasti di una economia costruita sul petrolio.
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