Il 1999 è l’anno protagonista della nona puntata di Venticinque, in cui il gruppo storico dei Verdena rivela aneddoti, ricordi e riflessioni del passato.
A tu per tu con Little Richard, la “regina” del rock
Un breve aneddoto su Little Richard, un’icona della musica rock e personaggio eccentrico degli anni Cinquanta.
Era il 22 luglio del 2004 e, seduto nella hall del Marriott di Copley square, in pieno centro storico di Boston, aspettavo di incontrare David Crosby e Graham Nash lì per promuovere il loro (allora) nuovo album. Di colpo, la mia attenzione veniva catturata da una figura che aveva appena varcato le porte d’ingresso girevoli dell’hotel.
La vistosa parrucca nero corvino e gli occhiali da sole con montatura rossa erano solo la parte superiore di un look bizzarro, che Prince in confronto era un dilettante, completato da una lunga palandrana bordeaux che cadeva morbidamente sopra un abito estivo color mandarino, con camicia di seta e scarpe scamosciate in tinta con il soprabito. Affiancato da due gigantesche guardie del corpo, due “omoni” di colore che quasi lo sorreggevano, quell’eccentrico soggetto si muoveva a fatica appoggiandosi a due bastoni. Alla vista, tutti i presenti, inservienti inclusi, si erano alzati in piedi, in un gesto quasi automatico di riverenza e rispetto, di quelli per intenderci che si devono a un sovrano.
E non a caso perché quello che mi ritrovavo di fronte, lì a pochi metri da me, era un’autentica maestà di un reame ambito e super esclusivo come quello del rock: Ladies and gentlemen, the one and only Little Richard…
Little Richard, icona della musica rock
Qualcuno l’ha definito the innovator, altri the originator ma per tutti era il grande, insuperabile “architetto del rock and roll” anche se a lui piaceva più un altro “titolo”. “Se Elvis è il re del rock, io sono la regina”, era solito dire a metà anni Cinquanta quando lui, nero e gay, sempre in bilico tra “la musica del diavolo” e la parola del Signore, veniva crudelmente emarginato dall’establishment. Le sue formidabili canzoni, Lucille, Long tall Sally, Good golly miss Molly o Tutti frutti venivano portate al successo, con versioni edulcorate, da cantanti bianchi ed etero come Pat Boone, assai più rassicuranti di quell’afroamericano equivoco di Macon, Georgia, con due baffetti da sparviero capace di cogliere, tra i primi, il talento smisurato di un giovane chitarrista chiamato Jimi Hendrix che aveva voluto nella sua band.
Quando John, un cameriere del Marriott di origini italiane con cui nel frattempo avevo fraternizzato, mi aveva chiesto se volevo stringere la mano a quel sovrano della musica che stava servendo in quei giorni, non mi ero fatto sfuggire l’occasione. “Mister Penniman, questo è un amico italiano… è un giornalista”, così mi aveva introdotto il simpatico e solerte John. “Molto piacere”, dissi, salutandolo, “grazie per aver allietato le nostre vite”.
Little Richard si era fermato di fronte a me e, mentre i bodyguard mi scrutavano, mi aveva risposto con un semplice “ne sono lieto”. Poi, claudicante, si era diretto verso l’ascensore, sparendo subito dopo dietro le porte automatiche.
Quando sabato 9 maggio un amico mi ha mandato un Whatsapp segnalandomi la sua morte a seguito di un cancro alle ossa il mio ricordo è tornato a quel pomeriggio bostoniano di quasi 16 anni prima e a quell’incontro di pochi secondi intenso ed emozionante quasi fosse durato ore. E ho voluto mandare al “re”, pardon, alla “regina” un tweet con una sola parola: “Thank you”, scoprendo di essere in compagnia di Bob Dylan, Mick Jagger, Paul McCartney ed Elton John…
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