Nel report del VII Index Future Respect tutte le ombre e le luci dei report di sostenibilità. Ma tra i migliori spicca quello realizzato per Pizzoli.
Ugo Bardi. I petrolieri ormai sono i deboli, ma non l’hanno ancora capito
Il destino del petrolio è segnato: il picco è già stato superato, non resta che la discesa. Ne parliamo con Ugo Bardi, chimico e accademico.
L’era del petrolio sta finendo. Lo dimostra l’avanzata delle energie rinnovabili e i progressi delle nuove tecnologie dei trasporti. Lo dimostrano le scelte delle aziende, dei governi e dei cittadini di tutto il mondo. Ma, prima ancora di tutto questo, lo dimostrano i numeri. Almeno, questa è la tesi del picco del petrolio, che tra gli studiosi è un tema di costante – e acceso – dibattito. Ne parliamo con uno dei suoi principali sostenitori: Ugo Bardi, docente di chimica fisica presso l’università di Firenze e autore di The Limits to Growth Revisited (2011), La Terra Svuotata (2012), Extracted (2014) e The Seneca Effect (2017).
Partiamo dall’attualità: a Vienna l’Opec, insieme ad altri grandi paesi produttori come la Russia, ha confermato la produzione a ritmo ridotto del petrolio fino a marzo 2018. Questo tentativo di far ripartire il mercato, però, per ora sembra non aver sortito i suoi effetti. Perché? E quali sono le conseguenze?
Hai presente il concetto di mosca cocchiera (la mosca che credeva di guidare la carrozza solo perché ronzava attorno ai cavalli, ndr)? L’Opec si illude di poter governare il mercato del petrolio ma in realtà non è in grado di farlo. Infatti non ha né il potere di abbassare la produzione, perché non lo vogliono i membri, né di aumentarla, cosa impossibile per ragioni pratiche. Quindi ogni tanto l’Opec fa delle dichiarazioni che non significano niente, sono puro rumore. L’Opec non ha vero potere, è un’amplificazione di prese di posizione politiche di scarso valore pratico.
Petrolio ai minimi da novembre, scorte più alte di prima dei tagli… L’#OPEC ha sbagliato tutto? https://t.co/QqWb337OWa @sole24ore pic.twitter.com/mNMFf8D4H3
— Sissi Bellomo ? (@SissiBellomo) 15 giugno 2017
Questa teoria porta con sé una considerazione che forse può apparire controintuitiva: il fatto che i prezzi del petrolio scendano non è un bene.
Da circa tre anni i prezzi del petrolio sono bassi, tutti però dimenticano il fatto che questo crollo dei prezzi è il risultato di almeno sette-otto anni di prezzi alti. A furia di prezzi alti, un po’ la gente si è attrezzata per consumarne di meno, un po’ ci si è trovata costretta. Con il calo dei consumi, l’industria petrolifera si è trovata un eccesso di capacità produttiva che ha portato, alla fine, al crollo dei prezzi.
Il fatto è che esiste un mercato ed è basato sulla legge della domanda e dell’offerta. L’industria petrolifera propone il petrolio a 100 dollari al barile, come ha fatto fino al 2014-2015, ma a quel prezzo il mercato lo rifiuta. Se vende petrolio sotto i cinquanta dollari al barile, l’industria ci rimette; ma al mercato questo non interessa. Il mercato non è un ente morale, è un ecosistema in cui i deboli muoiono. Se l’industria produce a un prezzo che il mercato non si può permettere di pagare, l’industria può anche sparire.
Quindi stiamo dicendo che i petrolieri sono i deboli?
Sostanzialmente sì. Non se ne sono ancora resi conto, ma sono come quei vecchi leoni sciancati e zoppicanti che credono di poter ancora cacciare le gazzelle ma non sanno che a breve verranno divorati dalle iene. L’industria petrolifera sta vivendo un calo rapido, ma per il suo tramonto ci vorranno anni, non è una cosa che capita dall’oggi al domani.
Cosa si intende per picco del petrolio?
La teoria è molto semplice. Non si comprano e non si vendono cose troppo care. Estrarre il petrolio era semplice e poco caro all’inizio, oggi richiede di costruire piattaforme costosissime in mezzo al mare, oppure pozzi orizzontali o profondissimi. Non esiste una media di quanto costi estrarre il petrolio, ma quel che è certo è che alcuni giacimenti sono decisamente fuori mercato, perché il costo necessario per estrarre un barile è superiore al prezzo a cui poi quel barile sarà venduto. Così alcuni produttori smettono di produrre e, gradualmente, la produzione totale inizia a diminuire. Ciò significa che è stato raggiunto il picco, il punto di massimo.
È difficile identificare esattamente il punto di picco, anche per noi “picchisti” non è stato facile interpretare i fenomeni che si stavano verificando. Erroneamente, molti ritenevano che il picco del petrolio sarebbe coinciso con un aumento dei prezzi; al contrario, il picco si verifica quando i prezzi diminuiscono e l’industria non ricava più profitto.
Quindi il picco del petrolio, secondo lei, è già avvenuto ma è difficile stabilirne una data?
È chiaro che stiamo andando in questa direzione. Il picco globale di produzione di tutti i liquidi (petrolio convenzionale, biocombustibili eccetera) probabilmente è stato all’incirca tra il 2015 e il 2016. Ora stiamo cominciando la discesa. Questo emerge non tanto dai dati della produzione odierna, quanto dal fatto che l’industria non investe più, quindi la produzione è destinata a calare. Non è un processo istantaneo: quello che si produce oggi è il risultato degli investimenti fatti 5 o più anni fa, quando il petrolio costava più di 100 dollari al barile e quindi c’era interesse a investire. Se in questi ultimi tre anni si è investito poco, le conseguenze incideranno sulla produzione dei prossimi 5-10 anni. Lo stesso accade sul versante dell’esplorazione: le scoperte di oggi non sono vagamente comparabili rispetto a quelle di pochi anni fa. Ciò significa che quello che si sta scoprendo è molto meno di quello che si sta consumando. Anche in questo caso le conseguenze sono a lungo termine, visto che oggi stiamo ancora sfruttando pozzi scoperti 10 o 20 anni fa.
Purtroppo il ciclo produttivo del petrolio ha un andamento molto lento. Gli economisti ragionano in termini di mesi, ma il ciclo del petrolio è decennale. L’errore più comune è quello di credere che oggi il petrolio costi poco perché ce n’è tanto, ma è tutto il contrario. E la riduzione dei prezzi di adesso avrà ripercussioni sul prossimo decennio.
Come sarà il nostro sistema economico post-picco del petrolio?
La prima domanda è “ce ne sarà uno?”. Se non ci prepariamo, infatti, la situazione potrebbe essere difficile. Per fortuna stiamo andando benino con lo sviluppo delle energie rinnovabili e sta cambiando la concezione stessa del trasporto, perché si stanno sviluppando tecnologie talmente efficienti da far pensare di non aver più bisogno del petrolio. Quindi l’industria petrolifera è schiacciata tra i costi alti della produzione e la domanda bassa, dovuta anche a tecnologie come le auto elettriche che per il momento nel mercato sono marginali ma stanno crescendo rapidamente. Noi stiamo andando in una certa direzione, non abbiamo alternative; dobbiamo solo scegliere se camminare spediti o essere trascinati per forza.
In un intervento ospitato dal suo blog Effetto Risorse leggo una frase molto forte: l’ostacolo che ci separa da una “società solare”, basata sulle energie rinnovabili, è l’economia. In che senso?
L’economia è un sistema che ci porta in una certa direzione a seconda delle scelte che si fanno. Le scelte si basano sui profitti, ma anche sul tempo di soddisfazione che gli operatori considerano. Se l’obiettivo è quello della massima soddisfazione nel breve termine, allora l’economia è un ostacolo perché si evolve troppo lentamente. Se gli operatori fanno investimenti per il lungo termine, allora l’economia è la strada per la società solare.
Per come sono adesso le nostre economie, “più energia” equivale a “crescita”. Nel momento in cui viene a calare l’energia dei combustibili fossili, la conseguenza è dunque la decrescita?
Stiamo già decrescendo. I consumi fossili in Italia sono in declino dal 2005-2006, quindi l’Italia decresce, almeno a guardare il pil che cala da diversi anni. Consumiamo sempre meno energia e siamo sempre più poveri. Ora, con l’abbassamento dei prezzi, miracolosamente l’economia sembra essersi un pochino ripresa; ma è una tendenza debole, basta un niente per riportarci indietro alla situazione precedente.
Dobbiamo abituarci a una società che non cresce per sempre, ma possiamo evitare di impoverirci se ci muoviamo rapidamente verso l’energia solare, che per fortuna abbiamo in abbondanza. L’economia va ristrutturata, dobbiamo abbandonare del tutto certi retaggi del passato. Tanti cambiamenti ci sono già stati. Qualche anno, ad esempio, fa l’automotive sembrava il motore trainante dell’economia, ora ha perso il suo ruolo centrale perché abbiamo capito che non dobbiamo accrescere il numero di automobili, ma ridurlo e utilizzarle meglio.
Chi deve guidare la transizione? La domanda potrebbe sembrare retorica, ma lo diventa meno se pensiamo al fatto che Trump crede nel petrolio ed esce dall’accordo di Parigi, ma le grandi aziende americane firmano appelli per chiedergli di tornare sui suoi passi.
Torniamo sempre al concetto della mosca cocchiera. Trump non conta quasi nulla perché il sistema si muove in una certa direzione e lui più di tanto non può fare. Una parte delle lobby americane sta cercando disperatamente di far ripartire l’industria dei fossili a suon di sussidi, nonostante l’America, in teoria, sia il paese del libero mercato. È anche possibile che riescano a ritardare l’inevitabile per qualche anno, ma niente di più. L’industria dei fossili ha preso una certa china ed entro dieci o quindici o vent’anni sarà del tutto marginale, comunque vada. Bisogna prenderne atto. Il sistema economico dovrebbe investire nella sostituzione, non nel tenere in vita un’industria moribonda. Però ci vuole tempo e non tutti hanno chiare queste cose. Più ce le avremo chiare, meno soffriremo.
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