UNA VITA A MODO MIO Ana Popovic si racconta

Da allora è passato qualche anno e lei non solo c’è riuscita, si è anche costruita una solida reputazione in tutto il mondo… oggi Ana Popovic è una virtuosa della chitarra e la critica, per parlare di lei e in mancanza di riferimenti femminili, l’ha spesso accostata a personaggi quali Jimi Hendrix o Stevie Ray

Da allora è passato qualche anno e lei non solo
c’è riuscita, si è anche costruita una solida
reputazione in tutto il mondo… oggi Ana Popovic è una virtuosa
della chitarra e la critica, per parlare di lei e in mancanza di
riferimenti femminili, l’ha spesso accostata a personaggi quali
Jimi Hendrix o Stevie Ray Vaughan. Niente male.
Nominata ai WC Handy Awards di Memphis come miglior nuovo artista
nel 2003 (pare che lì un europeo non avesse mai messo
piede), ha collezionato tutta una serie di riconoscimenti
internazionali. In Francia, a Juan Le Pins, ha vinto il “Jazz a
Juan-Revelation 2004″, tanto per fare un esempio. Autrice ispirata
e solida performer, Ana è una delle nuove promesse del
blues, che ama reinterpretare secondo lo spirito dei nostri
tempi.
L’ho incontrata in occasione della sua partecipazione alla rassegna
comasca “Lario Jazz & R ‘n’ B” per un’intervista in cui parla
di sé, della propria carriera e di cosa significhi essere
una donna in un mondo di uomini.

MB: Sei appena rientrata da un tour negli USA,
com’è andata?
AP: È stato meraviglioso, adoro l’America
ed è ormai il settimo anno che ci lavoro. È lì
che ho sempre sperato di costruire la mia carriera. Non è
facile trovare qualcuno disposto a ingaggiarti, se è
dall’Europa che vieni… ma questo è ciò per cui
mi sono impegnata sin dall’inizio: volevo suonare oltreoceano.
Là ho una casa discografica, ora, un agente e una band.
Mio padre, in Serbia, mi ha allevata coi dischi di Elmore James,
Albert Collins, Bukka White, Robert Cray, Johnny Copeland e tutti
gli altri, niente blues europeo… andare in tour in America,
per me, è come tornare a casa. Là c’è la
musica con cui sono cresciuta, l’unica che io conosca davvero.
Certo, in seguito ho studiato il jazz, la world music… ma se
dovessi parlare di un suono che sento mio, è quello. Il
pubblico, poi, è fantastico! Le persone nutrono un profondo
rispetto per i musicisti e da loro ricevo le più grandi
soddisfazioni perché rispondono non solo al ritmo ma anche
alle parole: capiscono ciò di cui canto e i testi sono molto
importanti nelle mie canzoni. La musica è la loro storia,
fanno il possibile per sostenerla.

MB: Visto che non è la tua prima volta
da quelle parti, hai notato qualche cambiamento? Stando ai media,
pare che la crisi economica abbia un forte impatto sulla scena
musicale.
AP: Non la metterei esattamente in questi termini,
almeno pensando ai festival ai quali partecipo. Negli anni non
è cambiato granché. Va anche detto che io provengo da
un paese in cui Milosevic ha avuto i suoi momenti e che con Bush mi
sembra di riviverli. C’è un lato comico, in questo. Rivedo
esattamente le stesse cose e, certo, alcune di esse possono
influenzare la musica… so che ovunque la destra ha potere non
è un buon posto per me, per ciò che faccio e nemmeno
per l’arte in generale. Come non lo è per la libertà
di parola e pensiero. Credo di averla girata davvero tutta,
l’America, suonando nelle grandi città come in quelle
piccole… e ho imparato che troppe bandiere in giro non sono
affatto un buon segno! (ride).
Non direi che la crisi abbia davvero danneggiato l’amore che quella
gente nutre per il blues, i clubs sopravvivono e anche i festival.
La sola differenza è che suono di più, facciamo dei
tour più lunghi e posso restare a piacimento. L’ultimo
è stato di cinque settimane, un sacco di tempo. Almeno per
me. (ride)

MB: Parlando di musica al femminile, se non
sono mai mancate le interpreti non si può dire altrettanto
delle strumentiste… secondo te c’è una ragione?
AP: Domanda interessante. Penso che molte donne
abbiano perso il coraggio di far valere sé stesse e le
proprie opinioni in ambienti prettamente maschili. L’architettura,
la musica o l’arte non fanno eccezione… intendo il sano
«Questa è la mia idea, puoi farne parte o
andartene»… tutto è molto complicato e diverso
per noi. Avevo diciotto anni quando ho cominciato, il tempo per
costruire me stessa e imparare a credere in ciò che faccio
non mi è mancato. Oggi ho un mio pubblico e se a qualcuno
non piaccio, certo non è obbligato a venirmi a sentire.
Ciò non toglie che serva un gran coraggio per presentare un
progetto a dei musicisti e a un produttore. Per registrare in
America ho coinvolto persone che ammiravo profondamente, come Jim
Gaines e David Z, ma se ti trovi davanti soggetti che hanno
lavorato con Santana o Bonnie Raitt e tu e la tua chitarra è
dalla Serbia che venite, posso assicurarti che è dura: devi
batterti per le tue idee. Personalmente la cosa non mi spaventa,
amo fare a modo mio… a volte riesco, altre cerco un
compromesso. Potrebbe essere una spiegazione, del resto funziona
così anche in altri campi: agli uomini, in generale, non
piace affatto che una donna se ne vada là fuori a fare le
proprie cose. Quanto a me, è esattamente quello che sto
facendo.

MB: Direi che ci stai riuscendo, no?
AP: Potrebbe andare meglio, sto ancora imparando
(ride).

MB: Robert Fripp sosteneva che l’approccio al
ritmo di una donna è completamente diverso da quello di un
uomo, per dimostrarlo affidò il basso della sua “League of
Gentleman” a Sara Lee. Tu come la vedi?
AP: Assoli e ritmica sono più
melodici… chissà, forse per questo alcune si sono
orientate verso la chitarra slide. Se la cavano anche piuttosto
bene, sai? Per noi è più facile usare quella tecnica,
per quanto non sia poi così semplice. Consiglierei alle
donne di suonare la slide (ride). Non saprei spiegare cosa cambi
nell’approccio femminile, ma è diverso e si sente.

MB: Per un musicista, in passato, Londra era il
posto giusto in cui stare… ora sembra che tutti puntino
all’Europa del Nord, Belgio e Olanda in particolare. Tu è
lì che vivi, van davvero così bene le cose
lassù?
AP: Non direi. Suono raramente in Olanda, circa
tre-quattro volte all’anno. Forse puoi vivere a Parigi e suonare il
jazz, ma secondo me è l’America il posto giusto in cui
stare. Lassù da noi, tutti non fanno che ripeterti:
«Sei una musicista? Sì, va bene, ma qual’è il
tuo vero lavoro?» (ride). Pensano che la musica sia un hobby
ed è così che la prendono. Basta che suoni e va
sempre bene… «Tu non hai bisogno di cibo o di un drink,
stai tranquilla col volume e lasciaci chiacchierare». Io non
mi ci ritrovo. Amo l’Olanda perché è un paese aperto,
quando rientri da un tour è il posto perfetto in cui stare.
La mia barca è nel canale, parcheggio l’auto e me ne vado in
giro in bicicletta, ho una bella casa e la zona vecchia sembra un
museo. Lì amo ascoltare i dischi, andare a ballare, uscire
con gli amici. Cerco di tenere la musica separata dalla vita
privata… non sono tipo da andarmi a cercare le jam sessions o
i blues clubs, quelle cose le tengo per quando sono sulla
strada.

MB: I primi anni ’90 rappresentarono per Emir
Kusturica l’ “esilio americano”, lì realizzò “Arizona
Dream”. Il film parla di sogni e non di guerra, ma l’opera fu
certamente influenzata da quanto stava accadendo in Jugoslavia. Si
può dire lo stesso delle tue canzoni?
AP: Non sono una fan di Kusturica, non saprei
paragonarmi a lui. Mi sono spostata ad Amsterdam perché
volevo imparare il jazz e completare gli studi di grafica…
che, benché non abbia mai esercitato, è pur sempre la
mia specializzazione. Tre mesi dopo cominciarono i bombardamenti su
Belgrado e la cosa ebbe un forte impatto su di me perché i
miei parenti ci vivevano. Io ero lassù da sola e…
forse puoi scrivere di fatti che accadono lontano da te, in Africa
o non so dove, ma quando si tratta della tua famiglia è
diverso. Mi ci sono voluti anni per riuscirci. Le circostanze lo
hanno reso possibile, penso di essere una donna forte dotata di una
personalità altrettanto forte: voglio fare ciò che
voglio e a modo mio, cosa che richiede molto coraggio e fatica. Ci
sono persone che nascono nel posto sbagliato, loro questa chance
non ce l’hanno. Sono rimasta colpita dal Venezuela, l’Africa, il
Messico, dalla povera gente in America… un’opportunità
spetta a chiunque, che nasca in Serbia o da qualche altra parte nel
bel mezzo del a. Là fuori ci sono tanti ottimi chitarristi
che non potranno mai mostrare il proprio talento. Nel mio paese
abbiamo avuto Milosevic, vent’anni di cattivo regime sono un sacco
di tempo e molti se ne sono andati in cerca di una vita
migliore… certo non puoi condannarli, cos’altro avrebbero
dovuto fare? Aspettare? La vita passa e ne abbiamo solo una a
disposizione. Nelle mie canzoni trovi molti di questi temi, in
“Shadow After Dark” parlo di Milosevic e delle dimostrazioni
studentesche a cui ho partecipato nella speranza di
sbarazzarmene… ma, come Bush, possedeva emittenti televisive
e radiofoniche, aveva le sue bandiere in tutto il paese e c’era ben
poco da fare; in “Between Our Worlds” di una donna africana che ha
la mia età e una vita completamente diversa. “Still Making
History” non si può riassumere in due parole… racconta
storie private, storie globali e anche l’idea che, se vogliamo
vivere meglio domani, oggi non è troppo tardi per cambiare.
Lo considero il mio disco più personale, perché la
guerra in Serbia è ormai finita, ho scritto molto in
proposito e finalmente quelle canzoni sono pronte. Ma si parla
anche d’amore, del tempo e tutto il resto, non solo di
politica.

MB: La scena blues, tradizionalmente, è
dominata da musicisti inglesi o americani. Tu sei la prima artista
europea ad esser stata nominata ai W.C. Handy Awards nel 2003 come
miglior nuovo artista, il tuo nome è rispettato in tutto il
mondo e stai persino scalando le Billboard Blues Charts. Dovresti
essere orgogliosa del tuo lavoro!
AP: Grazie! Non ho vinto, sono stata solo
nominata… ma per me è la stessa cosa, anche se non lo
è davvero. Lo considero comunque un miracolo (ride)! Sono
molto orgogliosa di esser parte della Blues Family! Ci sono stati
altri premi prestigiosi, come a Juan Le Pen in Francia o il New
York Award. Non sono una musicista strettamente blues, nel mio
lavoro ci sono anche elementi rock, fusion… che la Blues
Foundation in America abbia nominato “Hush” per i W.C. Handy Awards
è stata una sorpresa, è come se avessero riconosciuto
il valore di una piccola parte di ciò che faccio. Ma ci sono
anche altre soddisfazioni, assolutamente impagabili. Ronnie Earl,
che mi ha influenzato moltissimo, è venuto a vedersi un mio
show… è stato meraviglioso improvvisare con lui! O
trovarmi al Buddy Guy’s Legend con Buddy al mio fianco. Sono felice
che i dischi vendano e che siano in cima alle Blues Charts. Il
blues è molto divertente, se lo fai bene e hai una buona
band alle spalle, non mi piace pensare che suonarlo significhi non
potersene staccare. Quando ho cominciato tutti mi dicevano
«Stai alla larga dall’America, là i buoni musicisti
non mancano!»… storie. C’è sempre spazio, tutto
è possibile. Essere un esempio e ispirare le persone, questo
è ciò che voglio.

MB: “Still Making History”, secondo me,
è il miglior disco che tu abbia registrato. C’è un
perfetto equilibrio tra blues tradizionale e ricerca, jazz e
ballate, r ‘n’ b e reggae. Ne sei soddisfatta?
AP: Sì, lo considero il mio disco migliore
sia per le tematiche che dal punto di vista dei compromessi col
produttore. In passato non presero la cosa altrettanto seriamente e
non mi sento di biasimarli… immaginandoli di fronte a una
ragazza serba di ventidue anni che se ne viene a registrare un
disco in America! Ora c’è John Porter, ho avuto una gran
fortuna a lavorare con lui, è uno dei miei produttori
preferiti. E poi la Phantom Blues Band, che stimo moltissimo. Amo
cambiare nella vita come nella musica, apprezzo i musicisti che ne
sono capaci. Approdati al jazz, alcuni non sanno più tornare
a qualcosa di semplice. Il punto è di sviluppare senza
dimenticare le tue origini. Vuoi suonare uno shuffle come si deve?
Scordati le scale, la fusion, le pause e concentrati su quello. Lo
stesso vale per il rock o il reggae, devi entrare in un mondo ben
definito e rispettarne il linguaggio.

MB: In “Still Making History” canti “How’d you
learn to shake it like that?” (Come hai imparato a scuoterlo-la in
quel modo, n.d.a.) e, pensando alla chitarra e al tuo
personalissimo stile, potrebbe essere la prima domanda posta da
Solomon Burke prima di invitarti a partecipare al suo tour del
2003…
AP: Questa è bella! (ride) Sì,
è una canzone di Snooky Pryor e ho deciso di includerla
perché ce l’ho nelle orecchie da quando avevo tre anni,
molto prima di sapere cosa significassero le parole… mio
padre si accompagnava con la chitarra e io la cantavo insieme a
lui. Con Solomon è stato buffo, lo conobbi ai W.C. Handy
Awards e disse che avrebbe voluto fare qualcosa con me. Quando
venne in Belgio andai a salutarlo, mi invitò sul palco e
subito dopo chiese se avessi la valigia con me.
Ero appena tornata da un tour, ce l’avevo eccome… così
saltai sul bus e la notte stessa ci facemmo 17 ore filate per
raggiungere un paio di festival jazz che ci attendevano nel sud
della Francia. È stato grandioso! Ero assolutamente
affascinata dal suo ultimo disco, che tra l’altro si
aggiudicò un Grammy, e nemmeno un mese dopo mi ritrovavo a
suonare con lui. Solomon Burke è il re del soul, da tale si
comporta anche coi musicisti che ha intorno e con tutti quanti.
È un bel gioco di cui essere parte. Uno come lui che
è stato così povero e ha lavorato duramente per una
vita intera merita di essere il re, oggi.

MB: Passi la maggior parte del tuo tempo sulla
strada e… questo è un anno davvero speciale per te: da
maggio c’è Luuk, il tuo bambino, a farti compagnia! Viaggia
con te?
AP: Sì! (ride) Questa è un’altra
cosa che desideravo dimostrare: tutte le donne possono avere una
carriera senza per questo dover rinunciare a a. Ora sono
immensamente felice e ho un ragazzo che è molto
collaborativo. Negli Stati Uniti è venuto anche Luuk, ha
appena dieci settimane e già si è fatto un tour di
cinque… quindi ha passato metà della sua vita in tour!
(ride) Abbiamo avuto molta fortuna con lui, è un vero
rocker. Ho suonato sino al settimo mese e finché ero sul
palco se ne stava bello tranquillo nella pancia… cominciava a
muoversi solo quando scendevo. Davvero. Lo stesso accade ora: si
è goduto un concerto intero di Johnny Lang dal backstage,
appena finito è scoppiato a piangere. Ad aiutarmi c’è
la famiglia, mia madre ha trascorso tre settimane con me
prendendosi cura di lui, lo stesso ha fatto il mio ragazzo. Qui in
Italia con noi c’è sua madre. Basta un po’ di collaborazione
e tutto diventa possibile. Penso anche che l’ultima parte della
maternità sia davvero noiosa (ride)… è il tempo
in cui ti tocca restare a casa senza far a… e io non ci
riesco proprio! C’è chi è convinto che quello del
musicista sia un mestiere difficile, ma posso assicurarti che sto
con mio figlio molto più tempo di una normale impiegata.
Viaggiamo e giochiamo insieme, sono con lui tutto il giorno…
a parte le due ore in cui suono, è sempre tutto mio!

MB: C’è qualcosa che vorresti
aggiungere?
AP: Ci stiamo preparando per i Caraibi e la Blues
Cruise di gennaio, uno dei più importanti eventi in America,
di cui Taj Mahal e Etta James sono ospiti fissi. Ci saranno Ronnie
Bak

Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

Articoli correlati