La campagna Vote for animals, promossa da Lav e altre organizzazioni, mira a far assumere a candidati e partiti un impegno maggiore sul tema dei diritti animali.
Unici. La storia di tre colonie di macachi salvate dalla sperimentazione animale
In occasione della Giornata mondiale per gli animali nei laboratori abbiamo conosciuto alcuni dei macachi salvati da Lav dalla sperimentazione animale.
È una giornata come un’altra al Centro di recupero per animali selvatici di Semproniano, in Toscana. Lucio esce incuriosito all’aperto e resta qualche secondo a sentire l’acqua cadergli dolcemente sul pelo, poi si lecca sorpreso. È la prima volta che sente la pioggia sulla sua pelle. Lucio è un macaco di oltre vent’anni e ha passato tutta la vita in un laboratorio, vittima della sperimentazione animale. Nell’estate del 2021, l’università che lo deteneva ha chiuso la linea di ricerca sui primati e l’ha affidato alle cure della Lav, la Lega antivivisezione, che l’ha accolto a Semproniano, in Toscana, e l’ha inserito in un innovativo programma di riabilitazione. A fronte di oltre 700mila animali che ogni anno sono sfruttati nei laboratori italiani, solo lo 0,1 per cento si salva e la maggior parte dei macachi si trova oggi in questa struttura. In occasione della Giornata mondiale per gli animali nei laboratori del 24 aprile, siamo stati al centro per conoscere le storie di alcuni tra gli unici macachi che sono stati liberati e per capire come mai siano ancora così pochi gli animali ai quali viene data una seconda chance.
Da dove provengono i macachi salvati dalla sperimentazione animale
“A primo impatto sembrano tutti uguali, ma più ci passi del tempo insieme più ti accorgi che sono tutti diversi gli uni dagli altri”, ci dice sorridendo Roberta Berardi che a Semproniano è animal keeper, ovvero si occupa del benessere degli animali. “Ad esempio, lui lo chiamiamo l’ingegnere, perché riesce a smontare tutto quello che gli viene dato. Lui invece è Darwin ed è un appassionato di tasche: appena qualcuno si avvicina, cerca sempre di controllare le tasche per rubare qualcosa”.
Berardi ci accompagna durante la visita della struttura che oggi ospita tre colonie di macachi di età compresa tra i 10 e i 20 anni e provenienti rispettivamente dall’Università di Padova, di Verona e di Modena. Per avere un termine di paragone, nel 2017, stando alle informazioni diffuse dallo stesso ministero della Salute, sono stati circa 600 i macachi impiegati nei laboratori. Quello stesso anno, la Lav ha salvato la colonia padovana, formata da 27 individui, gli unici ad aver avuto una seconda chance. Si tratta di animali nati e cresciuti in cattività e che, per questo motivo, non possono essere reintrodotti in natura.
Al centro sono divisi in gruppi in base alla colonia di provenienza e tutte hanno a disposizione due aree, una interna dove ripararsi e una esterna dove possono arrampicarsi, giocare e mangiare sotto la stretta osservazione dei keeper che cercano di dare loro una vita più simile possibile a quella che avrebbero dovuto avere. Seguono una dieta bilanciata e le loro menti vengono continuamente stimolate con giochi e rompicapo. Una realtà diametralmente opposta rispetto a quello che hanno vissuto prima di arrivare al centro.
Quali problemi avevano sviluppato nei laboratori
Le storie di tutti i macachi di Semproniano, infatti, iniziano molto tempo prima. “Nella quasi totalità dei casi, questi animali vengono importati dall’Asia, dal Sudamerica, da paesi in cui ci sono gravi situazioni legate alla caccia illegale”, ci spiega Michela Kuan, biologa e responsabile Lav dell’Area ricerca senza animali. “Vengono presi in natura e strappati alle proprie madri. Oppure esistono enormi stabilimenti di smistamento situati di fianco agli aeroporti in cui gli esemplari vengono fatti riprodurre e spediti nelle stive, catalogati come ‘oggetti deperibili’, perché è questo che scrivono sulle casse in cui li fanno viaggiare”.
In ogni caso l’animale soffre, ci spiega Berardi, perché quando nasce e cresce in cattività sviluppa quelle che vengono chiamate anomalie o stereotipie, ovvero una serie di comportamenti che in natura non esisterebbero. “Un tipico comportamento stereotipato è il pacing, un movimento circolare o comunque ripetitivo che l’animale fa per gestire e scaricare lo stress. Oppure c’è l’over-grooming quindi un eccesso di spulciamento, diciamo, che può portare a grosse zone in cui perde il pelo”, precisa.
Come vengono detenuti gli animali nei laboratori
In natura questi comportamenti non esistono perché gli animali sono più attivi, si muovono, si arrampicano, fuggono dai predatori e si procurano da mangiare, vivono una routine che in un ambiente artificiale come quello di un laboratorio o di uno stabulario (la struttura dove vengono tenuti) sarebbe impossibile da replicare. A questo si aggiunge il fatto che, una volta giunti negli istituti di ricerca, vengono molto spesso detenuti singolarmente. “Specialmente i macachi, sono animali altamente sociali – continua Berardi –, ma nei laboratori sono stabulati singolarmente o al limite in coppia, cosa che impedisce loro di esprimere tipo il grooming o il greeting, quelle forme di cura del corpo e di saluto tra gli esemplari che normalmente abbassano il livello di stress. In più si trovano in ambienti sterili, asettici, privi di qualsiasi stimolo, ma anche di dimensioni molto piccole”.
Per darci un’idea delle dimensioni, Berardi ci mostra la gabbia nella quale veniva detenuto Lucio: è grande poco più di un tavolino da caffè. “Queste sono più o meno le dimensioni di una gabbia tipica di un laboratorio. In particolare, sono dotate di un sistema che permette di avvicinare il fondo in modo tale che l’animale non possa sfuggire ad un eventuale prelievo o iniezione”, ci dice, mentre indica una specie di leva che permette di sganciare e avvicinare la parte inferiore della gabbia, “Così l’animale non può aggrapparsi a niente”. Anche il contenitore per l’acqua e il cibo è piuttosto ridotto: “C’è un beverino molto piccolo e questo buco è quello dove gli infilano il cibo”, ci dice mentre indica una piccola apertura sulla parte anteriore della gabbia. “Insomma, si capisce anche quanto cibo viene concesso loro”.
I macachi salvati dalla sperimentazione animale hanno ricevuto anche un aiuto psicologico
A questo, poi, si somma tutto ciò a cui sono sottoposti nei laboratori. “La loro giornata quotidiana si svolgeva in un ambiente artificiale privo di elementi naturali, in gabbie piccole che non permettono loro di muoversi e senza arricchimenti. E poi ci sono gli esperimenti”, prosegue Kuan. Gli animali “non subiscono solo prelievi o iniezioni, ma parliamo di suture, trapianti di organi, scosse, fratture ossee, intossicazioni con sostanze che portano a svenimento, diarrea, tremori, condizionamenti psicologici”.
Quello che manca poi, secondo l’esperta, è una competenza di base del personale che interagisce con gli animali, che molto spesso non è formato per riconoscere le manifestazioni di dolore nelle varie specie con cui ha a che fare. Un fatto che risulta essere ancora più grave quando, nello stesso report del ministero della Salute riferito al 2018, si legge che la metà degli animali è impiegata in procedure con livelli di dolore “moderato” o “grave”.
E la storia di Bob ne è la prova. “Bob è stato quello che, tra tutti, ha presentato più difficoltà”, spiega Berardi, mentre indica un macaco che se ne sta in disparte e ci osserva da lontano. Segue ogni nostro movimento e sembra un po’ infastidito dalla nostra presenza. Bob ha passato diversi anni in completo isolamento all’interno del laboratorio dell’Università di Verona. “Era in una stanza da solo, in una gabbia come quella vista prima e privato di qualsiasi stimolo anche solo uditivo e olfattivo – prosegue –. A causa di un errore umano durante la pulizia della gabbia, ha avuto un contatto non ben specificato con Lucio. I due non avevano neanche idea di come interagire e per questo è scoppiato un conflitto. Bob è stato isolato perché considerato aggressivo, anche se probabilmente la sua è stata solo una forma di difesa dato che non aveva mai avuto contatti con un suo simile. Questo ha avuto una grossa ripercussione psicologica su di lui”, conclude.
“Aspettarsi che questi animali vadano d’accordo è molto difficile”, prosegue Kuan. “Hanno il diritto di avere degli spazi adeguati, di giocare, di relazionarsi con i loro simili e scoprire la natura, lontano dalla mano dell’uomo che di fatto per loro rappresenta la paura: il camice, il guanto, la mano che li manipola, le iniezioni. Ecco perché qui a Semproniano abbiamo ideato un percorso di riabilitazione fisica, ma soprattutto psicologica”.
I risultati della riabilitazione
I keeper, infatti, lavorano su cinque aree fondamentali: ambiente, alimentazione, salute, arricchimenti e osservazioni. Giorno dopo giorno si prendono cura delle esigenze di ogni singolo individuo, cercando gradualmente di riavvicinarli a una situazione più naturale possibile. “All’inizio quasi tutti avevano paura di uscire all’esterno, erano impauriti da uno spazio così grande, non sapevano come muoversi, come arrampicarsi”, racconta Berardi. “Mi ricordo la prima volta che Bob ha visto una piantina di pomodoro selvatico: cresceva nell’area dove vive ma non l’aveva mai vista, non sapeva fosse cibo. Ad un certo punto ha capito che poteva coglierla e mangiare quelle piccole bacche. Ha avuto il coraggio di provarci, di tornare a un comportamento naturale”, ci dice, mentre ammette di essere stata piacevolmente sorpresa da questa sua iniziativa. “E come dimenticare Lucio quella volta con la pioggia. È stato un momento molto emozionante per tutti noi quando ha capito che era bello stare sotto l’acqua”.
A Semproniano, molti di loro hanno visto il cielo o sentito l’erba sotto le zampe per la prima volta. Lentamente hanno sviluppano una muscolatura e si sono abbronzati, hanno iniziato a passare del tempo all’esterno, imparando gli uni dagli altri. “È stato emozionante vedere un animale ritrovare la libertà, è una cosa che dà i brividi perché capisci la voglia che hanno di vivere nonostante tutto quello che hanno passato, di voler tornare a quello che appartiene a loro”, ci confida Michela Kuan.
I progressi ottenuti al centro sono stati documentati in uno studio scientifico pubblicato sulla rivista internazionale Primates. Questo perché si tratta di un caso unico a livello italiano e anche europeo. La prassi, infatti, è quella di uccidere gli animali al termine degli esperimenti.
Solo lo 0,1 per cento degli animali si salva al termine degli esperimenti
Sono quasi 700mila gli animali che condividono il passato dei macachi di Semproniano e comprendono cani, gatti, primati, roditori, furetti, capre, bovini, suini, rane e pesci, solo per menzionarne alcuni. Il numero si riferisce ai dati resi noti nel 2018 e da allora non sono mai state comunicate cifre più aggiornate.
Tuttavia, in questi numeri manca trasparenza: “Sono cifre di quattro anni fa e non ce ne sono di più aggiornate. Noi cittadini non abbiamo accesso a queste informazioni. Quello delle istituzioni è un muro autoreferenziale che si autocomunica. Ad esempio, il numero degli animali, lo stato di benessere, come vengono tenuti, sono dati compilati dal responsabile della ricerca o comunque da qualcuno del gruppo della stessa ricerca. Per questo non sono affidabili”, spiega Kuan.
Di questi 700mila animali, meno dello 0,1 per cento viene recuperato e, grazie all’instancabile lavoro di Lav, che opera da oltre quarant’anni in questo settore, l’Italia è l’unico paese in tutta Europa che ha raggiunto questo obiettivo.
Infatti, i macachi che abbiamo incontrato a Semproniano, sono tra i pochissimi che ce l’hanno fatta. “Sono il simbolo di una nuova speranza – prosegue Kuan – perché le università non hanno solo liberato gli animali, ma hanno anche chiuso la linea di ricerca su di loro. È un risultato incredibile che tutte le associazioni europee ‘ci invidiano’ perché è stato un grosso segnale di cambiamento. Le università stesse si sono rese conto della difficoltà di gestire i primati, delle forti limitazioni, dei vincoli scaturiti dalle leggi e dagli obblighi morali che abbiamo verso queste specie”. E questo sta portando, seppur molto lentamente, anche ad altri cambiamenti.
Il 28 marzo 2022 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto sulla dimissione degli animali al termine degli esperimenti, che sancisce definitivamente quanto era già stato previsto nel provvedimento n. 26 di marzo 2014. In pratica, i cittadini potranno adottare – tramite le ong – cani, gatti, cavalli, conigli e altri animali reduci dalla vivisezione e le associazioni potranno avviare piani di recupero per le specie che lo necessitano, presso strutture specializzate come quella di Semproniano. Tuttavia, Lav precisa che resta aperta la possibilità per alcuni animali di entrare nella filiera zootecnica, andando incontro così ad ulteriori abusi e violenze.
Siamo ancora lontani dalla fine della sperimentazione animale
La fine della sperimentazione animale, però, sembra essere ancora lontana.
In teoria, la direttiva 2010/63/Ue, punterebbe a limitare quanto più possibile la vivisezione e ad eliminarla completamente nei casi in cui non sia necessaria. Infatti, per legge, dovrebbero essere favoriti i metodi alternativi e l’uso di animali dovrebbe costituire l’ultima possibilità. Sarebbe dunque logico pensare che la maggior parte dei fondi messi a disposizione dal ministero venissero destinati a progetti che impiegano metodi alternativi, ma la realtà è un po’ diversa.
“I finanziamenti per i progetti che utilizzano animali superano il miliardo e trecento milioni – ci spiegava lo scorso anno Kuan –, contro solo i sei milioni destinati al triennio 2020-21-22 per i modelli alternativi. Sono spiccioli in confronto agli altri finanziamenti. Basta pensare al caso dei macachi dell’università di Parma [sui quali i ricercatori volevano studiare la perdita parziale della vista a causa di un danno cerebrale, ndr]. Quel progetto valeva due milioni di euro, da solo. È la stessa cifra che è stata stanziata per finanziare tutta la sperimentazione con metodi alternativi in Italia in un anno. Sono niente rispetto a tutto quello che viene investito per gli animali”.
Secondo l’esperta, la vivisezione sarebbe un paravento giuridico, un escamotage per superare diversi problemi legali e mettere in commercio le sostanze, anche se non totalmente sicure per l’uomo. Infatti non si sperimentano solo farmaci, ma anche sostanze chimiche, pesticidi e molto altro. “Non a caso, il 50 per cento dei medicinali viene ritirato dal commercio per le reazioni avverse, non preventivamente diagnosticate sugli animali. Siamo noi le cavie del secondo processo, per questo la dicotomia ‘sperimento sugli animali per salvare un essere umano’ è una sciocchezza dal punto di vista scientifico”, sostiene Kuan.
Quando stiamo per lasciare il centro, Lucio attira la nostra attenzione. È seduto su una trave, con le gambe a penzoloni, nel recinto a pochi passi da noi. Si guarda intorno e di tanto in tanto ci osserva. Mentre lo guardiamo, i nostri occhi intravedono il numero che ha tatuato sulla pelle e che ora è appena visibile sotto al pelo. Nessuno di questi animali potrà mai dimenticare quello che ha vissuto e forse noi non saremo mai in grado di capirlo fino in fondo. Ma è inevitabile chiedersi se dietro quegli occhi così curiosi e allo stesso tempo così tristi, loro sappiano di essere quello 0,1 per cento che ce l’ha fatta.
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