Dopo vent’anni di libertà, le donne afghane dovranno restare a casa in attesa di “un vero ambiente islamico”. A dirlo è il rettore dell’università di Kabul.
Le donne non sono più ammesse all’università di Kabul e dovranno “restare a casa” finché non sarà garantito “un autentico ambiente islamico”. L’annuncio del nuovo rettore dell’ateneo segna l’ennesimo grave passo indietro per i diritti delle donne in Afghanistan.
La temuta decisione del rettore dell’università di Kabul
Durante il primo regime dei talebani, tra il 1996 e il 2001, le donne afghane potevano uscire di casa soltanto se accompagnate da un parente maschio. Frequentare le scuole era loro concesso solo fino ai 12 anni di età. Dal 2001 in poi hanno riconquistato questi diritti fondamentali, tant’è che in alcuni atenei (come l’università di Herat e l’università Ghalib di Kabul) le studentesse erano la maggioranza.
Il regime talebano insediatosi il 15 agosto 2021 ha promesso, a parole, di rispettare i loro diritti. Da allora però ha lanciato segnali preoccupanti. Già a metà settembre in tutte le università afghane sono state abolite le classi miste e sono stati imposti gli abiti islamici per le donne. Lunedì 27 settembre è comparso un tweet del nuovo rettore dell’università di Kabul, Mohammad Ashraf Ghairat: “Vi do la mia parola come rettore dell’università di Kabul. Finché non ci sarà un autentico ambiente islamico per tutti, alle donne non sarà permesso frequentare l’università o lavorare. Prima l’Islam”.
In risposta all’articolo del New York Times che parlava di un’università vietata alle studentesse e alle insegnanti, Gharat ha pubblicato una sorta di smentita: “Non ho detto che non permetteremo mai alle donne di frequentare l’università o andare al lavoro. Intendevo che, finché non creeremo un ambiente islamico, le donne dovranno restare a casa”.
A bad misunderstanding of my words by the New York Times. I haven't said that we will never allow women to attend universities or go to work, I meant that until we create an Islamic environment, women will have to stay at home. We work hard to creat safe Islamic environment soon. https://t.co/7Yrdtd3GKL
— Mohammad Ashraf Ghairat محمد اشرف غیرت (@MAshrafGhairat) September 28, 2021
Le giudici donne in fuga dai talebani
Negli ultimi vent’anni 270 donne hanno ricoperto il ruolo di giudici in Afghanistan. Un incarico di grande prestigio che le ha rese note all’opinione pubblica. Tra loro c’è Masooma (nome di fantasia) che, durante la sua carriera, ha condannato centinaia di colpevoli di violenza sessuale, tortura e omicidio. All’indomani della presa di Kabul da parte dei talebani, il suo telefono ha iniziato a squillare senza sosta. Chiamate da numeri anonimi, messaggi vocali, sms minacciosi. Appena i detenuti sono stati liberati Masooma è riuscita a fuggire, indossando un burqa per risultare irriconoscibile; è riuscita ad allontanarsi dalla sua casa e passare indenne attraverso i checkpoint, poco prima che arrivassero i talebani a cercarla.
Questa è una delle sei testimonianze – pressoché identiche tra loro – che la Bbcè riuscita a raccogliere da altrettante ex-giudici, ora costrette a nascondersi e spostarsi in continuazione per non andare incontro a rappresaglie.
Le bandiere dei talebani hanno ripreso a sventolare sull’Afghanistan e le donne stanno pagando il prezzo più caro. Il reportage a due anni di distanza.
Drogata e stuprata per anni, Gisèle Pelicot ha trasformato il processo sulle violenze che ha subìto in un j’accuse “a una società machista e patriarcale che banalizza lo stupro”.