
In un nuovo decreto previsti limiti più stringenti per queste molecole chimiche eterne, ma ancora superiori a quelle indicate dalle agenzie ambientali.
Dalla Val di Fiemme all’Altopiano di Asiago sono decine gli interventi di rimboschimento. Un laboratorio a cielo aperto per rinascere dopo Vaia.
“Ho sempre frequentato questi boschi e quando ci si trova di fronte ad eventi di questo tipo, si rimane sempre attoniti”, racconta Marco Pellegrini, dottore forestale che sta lavorando nell’Altipiano di Asiago. A due anni dalla tempesta che ha colpito le montagne del Triveneto e di parte della Lombardia, sono infatti iniziati i lavori di ripristino dei boschi. Non solo, ma il recupero degli alberi schiantati al suolo non si è praticamente mai fermato, nonostante la stagione avversa e gli evidenti limiti dovuti dal blocco vissuto in primavera a causa della pandemia da Covid-19. Basta visitare anche oggi quei versanti, molti alberi sono ancora lì: “In appena tre giorni è stato schiantato un quantitativo sette volte superiore al prelievo annuo nazionale”, scrive Diego Florian, direttore di Fsc Italia. Molti di quegl’alberi resteranno lì: non solo perché è praticamente impossibile raggiungerli, ma perché quei tronchi caduti fanno parte essi stessi della ripresa, del ripristino naturale dell’ambiente montano.
Passata l’emergenza si è lavorato fin da subito sia sul recupero del legname, che sull’immediato futuro dei boschi, progettando nuovi impianti. Ma con una sostanziale differenza, quella di ridisegnare un bosco capace di adattarsi, capace di sviluppare dinamiche e comunità che riflettono ciò che avviene in natura. Come avvenuto sul Monte Mosciagh ad Asiago, dove è stato avviato un progetto in collaborazione col Dipartimento territorio e sistemi agroforestali (Tesaf) dell’università di Padova, che contribuirà a testare differenti soluzioni nelle modalità di reimpianto delle superfici forestali, valutando i risultati migliori: un’area di circa tre ettari che verrà in parte lasciata ad evoluzione naturale ed in parte destinata alla messa a dimora di circa 6mila piantine tra cui abete bianco, larice, sorbo, betulla, faggio, acero e altre specie autoctone. “Gli interventi sono stati pianificati in modo tale che venga valorizzata la biodiversità e la resistenza agli eventi estremi di questi futuri sistemi forestali”, ha detto a LifeGate Pellegrini.
“Più un popolamento è composto da un’unica specie, più è esposto a problemi fitosanitari e di stabilità”, continua Pellegrini. “Ora invece cerchiamo di impiegare specie diverse, favorendo la diversità dei gruppi forestali e distanziandoli tra loro in modo tale lasciare lo spazio alla rinnovazione naturale”. In questo modo non si va a costituire un nuovo bosco, ma si dà un impulso alla ripartenza, in modo tale da indirizzare le nuove comunità ad essere più resilienti ai cambiamenti climatici e lasciando spazio alla natura. In una parola adattamento.
Dalla distruzione quindi c’è solo da imparare. La tempesta Vaia ci ha messo di fronte ad una realtà forse mai considerata realmente: “Ci siamo dimenticati di essere un paese forestale: abbiamo abbandonato le comunità e le attività produttive, spesse volte troppo piccole per competere con ditte straniere attrezzate e con capitale disponibile”, si legge nella lettera aperta scritta da Florian. “Siamo diventati tra i maggiori importatori di segati e legna da ardere, nonostante i nostri boschi siano cresciuti quasi del 6 per cento nell’ultimo decennio”. Abbiamo abbandonato i boschi dunque.
Vaia però ci ha insegnato altro: “Ci ha suggerito la necessità di farci trovare più pronti a questo genere di eventi, che certamente avverranno ancora”, spiega a LifeGate Giorgio Vacchiano, ricercatore ed esperto di gestione e pianificazione forestale. “Significa prevenzione idrogeologica territoriale, ma anche strategia per affrontare questo genere di emergenze, ad esempio mediante la creazione di piazzali per la raccolta di grandi quantità di legno, piani di attivazione di squadre per la gestione degli schianti e il rimboschimento dove serve, e una rete di segherie e impianti di trasformazione che attualmente manca e che ha fatto sì che gran parte del valore economico del materiale fosse perduto o scorresse verso l’estero anziché restare alle comunità di montagna”.
Già alla fine del 2018 sono partite numerose iniziative sia per utilizzare il legname disponibile, che per “adottare” nuovi alberi da piantare nelle aree colpite. Come quella che ha visto impegnata Ikea Italia, che ha utilizzato il legno delle foreste di Corvara per realizzare 20mila librerie Billy e 5mila ante Traarbetare, in edizione limitata, il cui acquisto contribuirà a sostenere il progetto per la riqualificazione e il rimboschimento delle aree coinvolte: 3mila nuovi alberi e un migliaio da rinnovazione naturale, che saranno restituiti al territorio altoatesino.
Un intervento reso possibile grazie al coordinamento in campo tecnico e scientifico dello spin-off Etifor, dell’università di Padova, che ad esempio, permette di adottare un albero per contribuire ai progetti di riforestazione partecipata, attraverso un portale dedicato. “La risposta dei cittadini in meno di un anno è stata magnifica”, spiega in una nota Lucio Brotto, co-fondatore di Etifor e di Wownature. “A dimostrazione del fatto che la foresta è un bene comune di cui è fondamentale prendersi cura. Le opere di riforestazione con alberi adottati sono già cominciate e si intensificheranno nella primavera 2021 coinvolgendo direttamente la popolazione nel processo di messa a dimora”.
Ma quel legno non è stato impiegato solamente per realizzare complementi d’arredo od oggetti di design. A Rovereto, nell’area ex Marangoni Meccanica, sta infatti prendendo forma il più grande edificio in legno d’Italia: nove piani destinati al social housing e costruiti con il legno degli alberi caduti. Il progetto, realizzato grazie al lavoro di aziende certificate Pefc e aderenti alla Filiera Solidale, comprenderà anche un altro palazzo di cinque piani sempre realizzato con legname da schianti.
Il dopo Vaia è dunque un grande laboratorio, tuttora attivo per gli anni a venire. “Nelle aree schiantate le dinamiche naturali si sono messe subito in moto”, racconta Pellegrini. “Il processo di rinnovamento sta già iniziando: le prima ad arrivare sono le specie arbustive, e poi man mano si arriverà ad avere un bosco nuovo”. E, si spera, in grado di rispondere a nuovi eventi estremi.
“I boschi sono parte del problema (perché sempre più vulnerabili) e della soluzione (perché possono sequestrare una parte della CO2 responsabile di questi eventi)”, conclude Vacchiano. “Ma queste due cose interagiscono: in caso di incendio, o schianto da vento, o siccità o attacco di insetti, gli alberi si stressano o muoiono e non possono più fare da spugna di carbonio. Ecco perché dobbiamo spingere molto sulla selvicoltura preventiva e aiutare le foreste ad aiutarci”.
In futuro dovremo essere pronti a fronteggiare emergenze simili, e solo se boschi e foreste saranno state gestite in maniera tale da renderle resistenti e resilienti, saranno in grado di fronteggiare questo tipo di eventi.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
In un nuovo decreto previsti limiti più stringenti per queste molecole chimiche eterne, ma ancora superiori a quelle indicate dalle agenzie ambientali.
Trovato un accordo sul testo del trattato di pace con Baku, che non è ancora stato firmato e presuppone grosse concessioni da parte di Erevan. Intanto il parlamento approva un disegno di legge per la richiesta di adesione all’Ue.
Siamo stati a Montespluga per lo Skialp Fest di Homeland per capire perché lo scialpinismo sia un modo bellissimo e meno impattante di vivere la montagna.
Il premio Wood Architecture Prize by Klimahouse ha rappresentato anche un modo per celebrare la Giornata internazionale delle foreste.
Per la prima volta nel 2025 si celebrano le più grandi fonti di acqua dolce del pianeta, che fronteggiano la sfida dei cambiamenti climatici.
Un tribunale condanna Greenpeace a pagare 660 milioni di dollari. L’accusa? Aver difeso ambiente e diritti dei popoli nativi dal mega-oleodotto Dakota Access Pipeline.
In Italia sono 265 gli impianti ormai disuso perché non nevica più: rimangono scheletri e mostri di cemento. E l’esigenza di ripensare la montagna e il turismo.
Temendo la presenza di rifiuti tossici, la Groenlandia ha interrotto l’estrazione dell’uranio. Ora potrebbe essere costretta a ricominciare. O a pagare 11 miliardi di dollari.
L’organizzazione della Cop30 nella foresta amazzonica porta con sé varie opere infrastrutturali, tra cui una nuova – contestatissima – autostrada.