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Vanishing shepherds. Gli ultimi pastori nomadi della Mongolia minacciati dalla crisi climatica e sociale
A causa di siccità, clima estremo e sviluppi socio-politici, la Mongolia sta perdendo alcune delle sue più straordinarie tradizioni secolari. In un fotoreportage, gli ultimi pastori nomadi che resistono adattandosi all’ambiente che cambia.
Il distretto di Cogt-Ovoo, nel deserto dei Gobi in Mongolia, è un’area sconfinata dell’Asia centrale dall’ambiente ostile e dal clima duro che è dimora di tradizioni che per secoli sono state alla base dello stile di vita della maggioranza della popolazione mongola, ma che ora rischiano di scomparire. Sono la pastorizia e il conseguente nomadismo che, a causa di una combinazione di fattori ambientali e sociali, sono sempre più a rischio e minacciano di cambiare per sempre il volto di un’intera cultura e di un intero territorio.
Vanishing shepherds, gli ultimi pastori nomadi della Mongolia
Testimone di questo lento e inesorabile cambiamento è la capitale del Paese, Ulan Bator, che ospita la metà di tutta la popolazione mongola – 1,5 su 3 milioni di persone – e che negli ultimi decenni sta accogliendo sempre più famiglie di pastori che abbandonano le alture steppose per il centro urbano. Simbolo di questo fenomeno sono invece le ger, le iurte tradizionali mongole usate dai pastori, che stanno riempiendo i sobborghi intorno alla città. “Non appena si arriva nel paese si capisce che Ulan Bator è il centro. Non ci sono strade intermedie, ovunque ti sposti devi ripassare da lì. Intorno alla città ci sono tantissime ger. Erano troppe, mi chiedevo perché”, ci racconta la fotografa Sara Munari che ha realizzato un reportage intitolato Vanishing shepherds proprio su questo tema, presentato per la prima volta in occasione della seconda edizione di Voghera Fotografia 2019.
I cambiamenti climatici in Mongolia
I fattori che rappresentano una minaccia per i pastori nomadi tradizionali, e che li costringono ad adattarsi o a cambiare del tutto stile di vita, sono principalmente due. Il primo è un fattore ambientale: i cambiamenti climatici. Negli ultimi 70 anni, infatti, la temperatura media in Mongolia è aumentata di 2,07 gradi, ovvero più del doppio dell’aumento medio globale (0,85 gradi) nel corso dell’ultimo secolo. Questo ha portato a una variazione del clima e a un aumento dei fenomeni estremi che sono risultati in estati insolitamente aride e inverni esageratamente nevosi e freddi, questi ultimi conosciuti con il termine mongolo di dzud. Il risultato è un terreno arido in estate e congelato o coperto di neve in inverno, che non permette agli animali – capre, pecore, mucche, cavalli – di nutrirsi e quindi di sopravvivere.
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I fattori sociali
Il secondo fattore è invece sociale. Prima del 1990 la Mongolia era un paese comunista e l’allevamento era gestito dal governo, che assegnava i pezzi di terra e poneva limiti sulla quantità di bestiame per ogni famiglia o comunità in relazione allo spazio disponibile. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il mercato dell’allevamento si è liberalizzato e privatizzato e, senza più regolazioni sui numeri, i capi di bestiame sono aumentati esponenzialmente (da circa 20 milioni a più di 30 milioni), significando meno terra per più animali da sfamare. Questo ha portato a conflitti per la terra che, uniti al clima, hanno reso questa pratica e stile di vita insostenibili per molte famiglie.
Tutti volevano più terra. Sono aumentati in modo spropositato i capi rispetto al terreno.Sara Munari, fotografa
Quelle che hanno scelto di migrare verso la città si sono quindi insediate sperando di trovare nuove opportunità economiche e possibilità di istruzione più sicure per i propri figli. Ma, rimanendo ai margini della città con le proprie ger e impossibilitati ad accedere ai suoi servizi, hanno contribuito a incrementare il divario sociale, il sovraffollamento e l’inquinamento (nelle ger viene usato il cherosene).
Arrivano in città e non sono abituati alla sua vita, ci sono tempi e ritmi differenti. Molti hanno piccoli terreni dove tentano di allevare qualcosa, ma in pochi metri quadri rispetto ai campi aperti. Sara Munari, fotografa
La famiglia di Oiek
Altre famiglie invece, come quella del pastore Oiek con cui Sara Munari ha passato alcune settimane sulle alture desertiche del Gobi, a 200 chilometri dal primo centro abitato, continuano con la loro vita basata sulla pastorizia, portando avanti la propria quotidianità. Tutto ruota intorno al bestiame e tutto il nucleo familiare si dedica a quello, uomini, donne e bambini. L’unica volta che si spostavano, racconta Sara Munari, era per andare a prendere l’acqua, che non hanno. E questo è un compito che spetta ai bambini che vanno con le taniche, si calano in un buco e tornano all’accampamento con l’acqua.
Hanno una vita spartana e tutto, fin dalle 5 del mattino, è legato alla gestione degli animali. In particolare loro avevano capre, pecore e cavalli.Sara Munari, fotografa
“Oiek mi raccontava che quando era piccolo in estate l’erba era molto alta, ora rimane molto bassa, di soli pochi centimetri”, continua Sara. “Non fa in tempo a crescere, perché ci sono troppi sbalzi di temperatura”. Nel tentativo di adattarsi, i loro volti, le loro attività nelle ormai aride steppe mongole diventano così il simbolo di una ricchezza tradizionale che svanisce.
Chi riesce, come questa famiglia, è tra gli ultimi. Sono gli stoici. Sara Munari, fotografa
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