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Vasco Brondi. Anche le canzoni possono essere dei segni di vita, dei fuochi nella notte
Con Un segno di vita, Vasco Brondi torna con dieci canzoni “d’amore e d’apocalisse”, in bilico tra il particolare e l’universale. L’abbiamo intervistato.
È il fuoco la figura ricorrente dell’ultimo album di Vasco Brondi, Un segno di vita (uscito per Carosello Records il 15 marzo 2024). Il fuoco è nei testi, nei titoli dei brani, nel rosso abbagliante della copertina. E ha molto a che vedere con il senso profondo che il cantautore ferrarese attribuisce al proprio lavoro. “Italo Calvino dice che è importante ‘cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio’. Anche quando i tempi sembrano più scuri, il modo per affrontarli è semplicemente viverli, entrarci dentro fiduciosamente e schiarirli con la nostra presenza. Credo che anche le canzoni possano essere dei segni di vita, dei fuochi nella notte”, ci racconta presentandoci il suo ultimo lavoro.
Ma Sara sfonderà tutte le porte
e la fame, la sete di vita, un vecchio pianoforte.
E poi sentirà ancora un fuoco dentro,
un fuoco che brucia, ma illumina tutto.
Dieci brani – ma quelli in lavorazione erano molti di più, svela, scherzando sul fatto che sia una sorta di “best of” – che probabilmente saranno accolti con un certo stupore dai fan dei primissimi lavori del suo precedente progetto Le luci della centrale elettrica, così scarni, rabbiosi, urlati. Ma anche da chi aveva apprezzato Paesaggio dopo la battaglia (2021), anticipato da un singolo (Chitarra nera) di cinque minuti, parlato, senza metrica. In Un segno di vita, Vasco Brondi fa tutto il contrario. “Ho lavorato su ciò che mi sembrava fondamentale, cioè la forma canzone, con le ritmiche, i ritornelli. D’altra parte i grandi maestri – penso per esempio a Franco Battiato, Francesco de Gregori e Fabrizio De André – sono sempre rimasti dentro la forma canzone di tre minuti e mezzo. C’è stato un lavoro aggiuntivo di semplificazione: per arrivare all’essenziale ci vuole di più”, spiega. L’abbiamo intervistato.
Una delle scelte che ogni artista deve fare, soprattutto in un momento storico così particolare, è quanto far entrare i fatti del mondo nelle canzoni. Qual è la formula che hai trovato?
La formula in realtà non c’è. Anche dopo 15 anni, mi sono reso conto di non avere un metodo, ma forse è anche la cosa più interessante di questo lavoro. Mi sono solo accorto del fatto che nelle canzoni per me è importante che ci sia dentro un po’ tutto: la complessità e i cortocircuiti del mondo, l’amore, la guerra. A posteriori, ho capito che queste sono canzoni “d’amore e d’apocalisse”, come mi ha detto Nada quando l’ho coinvolta; però sono sempre ambientate – e forse qui sta l’apocalisse – in un contesto sociale, culturale, ambientale.
Tom Waits che diceva che, prima di scrivere una canzone, deve immaginarsi la persona di cui sta parlando, che libri ha sul comodino, se fuori c’è il sole o la pioggia. Magari quei dettagli non entreranno esplicitamente nel brano, ma lui deve immaginarli. Per me, forse, un po’ è così. Poi, vivendo questi tempi, credo che per me sia importante un po’ celebrarli e un po’ cercare di capirci qualcosa; e scrivere canzoni è il mio modo di cercare di capirci qualcosa. Allo stesso tempo, però, è importante avere in mente l’universale, che siano canzoni in cui c’è il soffio della vita del presente ma anche una scintilla d’eternità, “le leggi della città e le leggi dell’universo”.
Hai chiuso “Paesaggio dopo la battaglia” con “Siamo solo due forme di vita sul terzo pianeta del sistema solare”. In “Un segno di vita” parli di un futuro in cui della civiltà umana sono rimaste solo le rovine e la natura si è ripresa i suoi spazi. Quest’idea dell’essere umano così piccolo immerso in una natura onnipotente ti spaventa o ti tranquillizza? Più in generale, che ruolo ha la natura nel tuo processo creativo?
Il fatto che la natura sia così preponderante e che ci rimetta nella nostra proporzione, cioè minuscoli, penso ci faccia molto bene. Anche se viviamo in queste città fatte da esseri umani per esseri umani, in cui abbiamo fatto il possibile per scacciare la natura. Qui a Milano non ci sono più nemmeno i piccioni, ma basta uscire in qualsiasi direzione per ritrovarsi in mezzo al bosco. Forse è per questo che abbiamo registrato una parte del disco nella casa di Paolo Cognetti a 2.500 metri; paradossalmente, è a poco più di due ore di distanza da qui ma sembra di essere su un altro pianeta. Le canzoni sono molto trasparenti, quindi credo che in qualche modo sia “entrato” qualcosa dell’averle registrate in mezzo al bosco.
Mi fa sorridere come l’uomo guardi la natura credendo di non farne parte, quando invece siamo fatti degli stessi elementi sparpagliati nell’aria che in noi si assemblano per creare un corpo umano, altrove – pur essendo gli stessi – diventano un’altra cosa. Nella nostra società devi fare finta di niente: d’estate e d’inverno devi rendere uguale, di giorno e di notte devi rendere uguale, che tu abbia avuto una nascita o una morte devi rendere uguale. E invece non rendi uguale. Ed è per questo che siamo in difficoltà come specie, perché non crediamo più di essere dentro la “meravigliosa trama del tutto”. È il titolo del libro di una botanica, Robin Wall Kimmerer, che racconta della solitudine della specie, una cosa che colpisce soltanto l’essere umano: sappiamo tutto delle vicende umane ma non conosciamo i nomi delle piante che ci circondano o degli uccelli che sentiamo cinguettare. Questo ci provoca disagio, perché è come non riconoscere i cartelli stradali. Siamo soli.
La poetessa Chandra Candiani è andata a vivere con il suo compagno in mezzo al bosco. All’inizio si sentiva sola ma, dopo un po’, ha capito che lì attorno era pieno di vita; semplicemente, non era la vita umana delle città ma quella di uccelli, animali, piante. Insomma, non mi annichilisce che la natura ci rimetta nella giusta proporzione, perché lo farà sempre di più. Noi siamo sul pianeta Terra come specie da 350mila anni, un ananas è qui da 5 milioni di anni; come dice il neurobiologo Stefano Mancuso, dovremo arrivare a vivere almeno quanto le altre specie per poterci ritenere ugualmente intelligenti. Se invece saremo spazzati via prima, fa niente. Però credo che possiamo soltanto imparare, guardando in faccia questa realtà.
In “Illumina tutto” canti “c’è vita al di là degli schermi”, in passato hai scritto “Iperconnessi”. Volenti o nolenti, gli schermi sono le finestre attraverso cui scopriamo cosa succede, lavoriamo, attraverso cui voi artisti veicolate la vostra musica. Come vivi, da artista e anche da cittadino, questa tensione per cui non si può fare a meno del digitale ma al tempo stesso si sente il bisogno di andare oltre?
Devo dire che, in effetti, per me è ancora una tensione. Generazionalmente, ho vissuto e mi sono formato soprattutto al di qua dello schermo. Leggo che è sbagliato dividere vita virtuale da vita reale, ma il mio cervello non ha ancora avuto questo cambiamento antropologico che forse le generazioni più giovani della mia hanno avuto. Sono abbastanza un mormone nell’utilizzo dei social network e dei telefoni, non mi va che siano stati costruiti con gli psicologi comportamentali per agire sulla compulsione umana. Potendolo fare, mi sembra di strappare uno spazio di libertà quando spengo il telefono la sera e lo riaccendo in tarda mattinata.
Poi, sento sempre più la forza dei concerti. Mi sembra che in questa società, che da un lato è secolarizzata (quindi senza riti di nessun tipo) e dall’altro lato è abituata allo schermo, trovarsi tutti assieme nello stesso posto e nello stesso momento abbia sempre più potenza. Sono convinto che alcune cose continuino a essere degli antidoti: vedersi, andare nei posti, sentire che odore fa quel posto lì, quella persona lì. È un qualcosa che mi interessa ancora molto.
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