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Levante si racconta nella seconda puntata del podcast Venticinque
Levante parla del suo percorso artistico e personale nella seconda puntata di Venticinque, il podcast che questa volta si concentra sull’anno 2013.
La Sicilia, Torino, l’Inghilterra e ora Milano. Per raccontare Claudia, e la popstar con cui convive dal 2013, ci siamo accomodati sul suo divano. Per scoprire come quella “vita di merda” è diventata la più incredibile che lei potesse mai desiderare. Tra Loreto e Porta Venezia, il nuovo hype di Nolo e le terre arcobaleno iconizzate da M¥SS KETA c’è una Milano profondamente meticcia, che è tante cose assieme e non intende rinunciare a nessuna di esse. Forse non è un caso se Claudia Lagona, l’artista che tutti conoscono come Levante, un anno fa abbia trovato casa qui. A fare convivere gli opposti, contaminarsi, aprirsi al mondo lei non ha mai avuto alcun problema. La protagonista del secondo appuntamento di Venticinque – il podcast di Rockit e LifeGate che racconta l’ultimo quarto di secolo della musica italiana – ci accoglie in un appartamento in cui tutto pare scelto con cura, anche la precarietà di ciò che non ha trovato ancora una sistemazione definitiva. Dopo una puntata “on the road”, su e giù tra le sponde del lago di Varese, come quella dedicata a Massimo Pericolo, sentivamo l’esigenza di sederci comodi, fare meno rumore possibile e ascoltare una voce che ci accompagna di qua e di là, con calore e dolcezza.
Il significato delle città per Levante
Con lei c’è la sua nuova “coinquilina”, Alma Futura, di cui Levante si gode istante per istante, tanto da contare ogni giorno che passa accanto a lei. “Oggi sono 54, ma penso che li conterò almeno fino a mille”, ci dice, mentre la piccola reclama per la prima volta attenzioni. Levante non avrebbe mai pensato di finire a Milano. Lei è “catanese fino al midollo”, finita a Torino “per vicissitudini familiari”. E ora eccola qua. “E ho scoperto di amare particolarmente questa città, per me rappresenta la vita. E poi ho il bar siciliano sotto casa, quindi mi sono ambientata subito”.
A Venticinque Levante affida un racconto che è sia artistico sia personale. “Quando sono arrivata a Torino, davo la mano e baciavo tutti”, spiega, sorridendo. “Solo che al Nord non si fa, e la gente rimaneva un po’ così. Con il tempo mi sono abituata ai modi, al clima. E oggi mi sento di Torino, una città che ha contribuito a smorzare la mia drammaticità sicula”.
Le città hanno un ruolo centrale nella sua storia, che ci narra senza alcun filtro. Da Palagonia (Catania) a Torino, passando per la parentesi in Inghilterra: ogni trasloco è coinciso con un nuovo capitolo, fondamentale, della sua vita e della sua carriera. “Io ero una ragazzina triste, che scriveva canzoni tristi con la chitarra. All’inizio le cose non andavano bene, ero diventata l’artista che non volevo essere. Così me ne sono andata a Leeds: un fallimento assoluto. Ero sconfitta e stremata, mi sembrava che quello che mi succedeva facesse tutto schifo”. Lasciamo casa per fare un giro del suo nuovo quartiere, facendo lo slalom tra le bici con il passeggino.
Levante torna così al 2013, l’anno su cui si posa la lente di ingrandimento di questa puntata di Venticinque. È l’anno in cui usciva Alfonso, il brano che cambia ogni cosa. Canta una vita di merda che da quel momento inizia a smettere di essere tale. “Ho un’indole un po’ furiosa”, dice Claudia .”Nella mia vita è tutto uno tsunami, le cose capitano in maniera molto veloce. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno, e l’ho fatto con testardaggine ma anche naturalezza. È stata la musica a parlare per me”. Alfonso non era quello che tanti pensarono (e cantarono). “Era un pezzo disperato. Era la storia di me che stavo a una festa: ero fuori luogo, non c’entravo nulla. Mi sentivo zero e lo cantavo”, dice Claudia.
“Qualcosa stava cambiando”, per Levante
Il podcast ospita il racconto di quei giorni di Pietro Camonchia, direttore artistico di Inri e suo “scopritore”, e quello di Davide “Dad” Pavanello, musicista e produttore, che con lui ha fondato più di dieci anni fa l’etichetta torinese e che per primo ha capito (folgorato da La scatola blu) il talento della giovane musicista. Nei mesi successivi il primo disco di Levante, Manuale distruzione, dal nulla arrivava ottavo nella classifica Fimi. “Mentre preparava i caffè al bar dove lavoravo, la gente mi diceva ‘Hey, ti ho appena sentita a Radio DeeJay’. Lì ho capito che qualcosa stava cambiando”.
Da quel momento sono arrivati altri tre album, successi a ripetizione, centinaia di concerti e attorno a lei si è consolidata una fanbase sempre più grande e affezionata. “Ma devo dire che mi manca la me del 2013”, spiega, mentre torniamo in casa, prima che il caldo si faccia troppo intenso. “Ero ingenua, pura. Di certe cose non me ne fregava niente. Ora sono meno diversa dagli altri, mi sono un po’ omologata”. Nel racconto di Levante convivono la gioia di avere trovato un posto nel mondo (“tanti musicisti vedono il tempo passare, senza la loro possibilità di spaccare. Io sono arrivata un po’ in ritardo, ma in tempo”) e il ricordo dei momenti non semplici, come l’esperienza da giudice di talent e anche l’esibizione a Sanremo. “È stata faticosissima, mi sono domandata più volte ‘ma a me chi me l’ha fatto fare?’. Secondo me Tikibombom non è stata capita a dovere, però si è tolta comunque delle belle soddisfazioni”. Poi la pandemia, che ha messo in discussione tutto. “I due anni di stop dopo Sanremo sono stati traumatizzanti. Sono passata da tutto a nulla. Sono stata chiusa in casa per mesi e ho fatto i conti con tutti i miei mostri”. Un po’ di autoanalisi, in fondo, non fa mai male. “Io sono stata a lungo una persona disastrosa, e che preferiva distruggere che costruire. Prendere a calci il castello di sabbia era la cosa che mi veniva più facile. Manuale distruzione arriva proprio da lì. Ho fatto un percorso, ho capito che non c’è cosa più bella di costruire. Ancora una volta l’ho capito in tempo, per fortuna”.
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