Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Dalla Turchia all’Italia. Viaggio sulla rotta balcanica dei migranti
Il drammatico cammino dalla Turchia all’Italia vissuto da un gruppo di ragazzi italiani. Migranti tra i migranti. Passo dopo passo sulla rotta balcanica.
Il corpo di un uomo martoriato dai pestaggi della polizia croata. Il volto di una donna che piange nel campo profughi di Vučjak in Bosnia. Lo sguardo vuoto di un bambino che vende il suo corpo a Eleonas, il campo a ridosso di Atene. La rotta balcanica dei migranti è una rotta dimenticata. O, meglio, è su questa via di cinquemila chilometri tra Turchia e Italia che si consuma un paradosso. Quelle immagini drammatiche occupano tutto il campo visivo e uccidono in chi osserva il senso del contesto, delle proporzioni del dramma e della sua distanza. Il che, in qualche misura, ci rende “complici”, sul piano politico e informativo.
Umanità InInterRotta: il progetto e la partenza
“È per questo che abbiamo scelto di percorrere l’intera rotta balcanica dei migranti e con i migranti. Per conoscere queste persone e per tornare in Italia, testimoni delle loro storie”, racconta padre Jonas Donazzolo. Un missionario scalabriniano che ha guidato sulla rotta balcanica, dal 6 al 25 settembre 2019, un gruppo otto giovani da tutta Italia: Martina Cociglio, Paola Tellatin, Davide Pignata, Milena Baretta, Simone Garbero, Valentina Scala, Miriam Casetta e Barbara Beltramello. Questo viaggio è stato parte del progetto Umanità InInterRotta, dell’associazione Via Scalabrini 3.
Instead of disputing over who accepts more (or less) refugees and migrants, states should work together to address the causes of their movement – conflict and poverty in particular.
A ceasefire in Idlib, Syria, is an absolute, urgent priority. pic.twitter.com/et9DyJSZFH
— Filippo Grandi (@FilippoGrandi) March 3, 2020
L’obiettivo? “Farsi migranti con i migranti. Cercando in prima persona di accorciare le distanze tra chi possiede un passaporto che apre ogni confine, e chi invece sogna l’Europa ma trova solamente una via sbarrata da fili spinati, respingimenti violenti e attese infinite in campi profughi dove i diritti umani, quelli in cui credo e che ho imparato a conoscere e comprendere nelle aule universitarie, vengono calpestati”, racconta Martina Cociglio, laureata in diritto internazionale.
Sulla rotta balcanica: in cammino con i migranti dall’Italia alla Turchia
Il viaggio, iniziato a Gaziantep, ha toccato Smirne in Turchia, Samos e Atene in Grecia, Belgrado in Serbia, Sarajevo e Bihać in Bosnia Erzegovina, Zagabria in Croazia, Lubiana in Slovenia e per finire Trieste in Italia.
La migrazione su questa rotta avviene nell’indifferenza generale dell’Unione europea che volta lo sguardo a chi tenta il “game”, così viene chiamata, in una sorta di gergo internazionale, la rotta balcanica, un percorso dove la posta in gioco è la vita stessa.
L’inizio del cammino: Gaziantep, Turchia
Gaziantep si trova a poche decine di chilometri dal confine con la Siria. Lì un quarto della popolazione è composta da siriani. Qual è allora il futuro per i siriani? Torneranno a casa quando finirà la guerra? La guerra finirà? O andranno in Europa?
In quel luogo di frontiera, i ragazzi di Umanità InInterRotta hanno incontrato Marwa. “La dottoressa, voglio aiutare le persone”, risponde lei alla domanda su cosa vuole fare da grande tra un sorso di tè e l’altro. “E tu Alya? L’avvocato, per difendere la giustizia”. Marwa, undici anni, e Alya, tredici, vivono qui con altri tre fratelli da sei anni. Ma casa loro è ad Aleppo 120 chilometri a sud di Gaziantep. “Io invece farò il soldato!”, sorride Hamid è il loro fratellino di sei anni: “Voglio liberare il mio paese”.
“I bombardamenti turchi sui curdi, a pochi chilometri da Gaziantep, li abbiamo sentiti anche noi, dalle nostre stanza. Tutto ciò fa svanire il sogno di Marwa di tornare a casa, nella sua amata Aleppo”, racconta con voce flebile padre Jonas. Un ritorno è negato non solo per ora: forse non si realizzerà mai.
Primi chilometri sulla rotta balcanica: Smirne, Turchia
L’alto commissario dell’Unhcr Filippo Grandi ha recentemente spiegato come la causa di queste attraversate drammatiche sia da rintracciare nell’incapacità di risolvere i conflitti: quello siriano, ma anche in Afghanistan, oltre alle tensioni in Iran. “Molti di coloro che sono oggi sul confine turco-greco sono afghani”, testimonia il diplomatico.
Tutti, infatti, dopo un lungo viaggio attraverso l’Anatolia arrivano al mare, dove un piccolo lembo azzurro separa i migranti dalle isole greche, dall’Europa. “Qui in città ci si cerca di accordare con lo ‘smuggler’, il trafficante che permette dietro pagamenti altissimi di attraversare il mare e arrivare dall’altra parte”, spiega il padre scalabriniano. La ricerca del trafficante a Smirne ha una sua ritualità. È quel disperato gesto che in una notte, senza luci e senza dei del mare a cui rivolgere preghiere, avvicina i migranti alla vita sognata o li conduce alla morte.
È qui che la rotta balcanica lascia la terra turca.
In Europa: a Samos, Grecia. Nella trappola
“Chi riesce nella traversata arriva in Europa, è vero. Ma Samos è un’isola che non accoglie, intrappola”, dice Martina. La rotta balcanica fa tappa in questo purgatorio greco in cui sono bloccati più di cinquemila migranti in un campo profughi che ne può ospitare 650. Per questo fuori dal centro governativo è cresciuta una baraccopoli, senza nessun tipo di servizi e di dignità”. Come è possibile che avvenga ogni sorta di violazione sotto gli occhi di tutti e con la complicità delle istituzioni nazionali e internazionali?
È a Samos che si incontrano donne come Klara. Lei ha lasciato la sua casa, l’Iraq, pur di non tradire la sua fede cristiana. “La fede è una parte di te a cui non puoi rinunciare, anche se questo vuol dire rischiare di perdere la vita”. Anche se la propria identità in un campo così è ridotta ad un numero identificativo che vaga senza scopo tra le tende e i rifiuti, in cerca di un po’ di elettricità per caricare il telefono e scrivere a casa. Non per raccontare di sè, ma per sapere se i propri affetti ad Aleppo, a Bassora, a Teheran sono ancora vivi.
Conditions of refugees and migrants on the Greek islands are unacceptable and untenable. Measures foreseen by the government must be taken immediately, with stronger European support. Read UNHCR’s statement on this situation. https://t.co/UbLeBh3Fus
— Filippo Grandi (@FilippoGrandi) February 21, 2020
Sulla rotta balcanica: Atene, Grecia
Fatma, invece, è stata più “fortunata”: finalmente ha toccato la terraferma. È accaduto in un giorno di sole dopo una lunga permanenza a Samos. Lei esile, avvolta nel suo velo bianco, e le sue due bambine, Aya di un anno, e Maryam di pochi mesi. Segnalate come vulnerabili al campo, dopo mesi di attesa, l’Unhcr ha comprato per loro i biglietti per Atene.
Ma ad Atene il sole illumina quello che tutti sanno senza bisogno di vedere: i migranti sono collocati in altri campi profughi nella zona periferica della città. Campi come quello di Eleonas. Fatma accompagna le sue bambine, ma in Grecia sono circa tremila i migranti minori non accompagnati. Solo un migliaio sono registrati e beneficiano di un programma di accoglienza, mentre gli altri vivono per strada. E la strada di fronte al campo di Eleonas, la mattina colma di bancarelle, la notte si trasforma: al posto di vestiti e verdure, giovani richiedenti asilo si prostituiscono. I loro clienti? Gli ateniesi.
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Sulla rotta balcanica: Belgrado, Serbia
Superata la Grecia, i ragazzi di Umanità InInterRotta, come i migranti, attraversano la Macedonia e si addentrano nel cuore della terra balcanica: direzione Serbia.
Un recente rapporto di Oxfam accusa i paesi dei Balcani e in particolare Belgrado, di mancanza di umanità. E va oltre: “Hanno negato protezione a molti richiedenti asilo, rimandandoli indietro verso i Paesi di provenienza o di transito senza offrire loro l’opportunità di avviare le procedure di asilo”.
In Serbia le autorità hanno instaurato un vero e proprio clima di terrore tra i migranti, espellendo gruppi di persone regolarmente registrate che stavano aspettando un colloquio individuale per lo status di rifugiato. Ciò ha fatto sì che in pieno inverno, con temperature a -20 gradi centigradi, i migranti avessero paura a soggiornare nei centri gestiti dal governo per timore di essere rimandati in Macedonia. O più indietro ancora.
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Il confine europeo: Bihać, Bosnia Erzegovina
Per capire i Balcani bisogna comprenderne la geografia. È da sempre così e a questa regola non sfuggono neppure i migranti che attraversano queste terre: la Bosnia è di fatto l’ultimo paese prima del confine dell’Unione europea. È qui che si concentrano i migranti in attesa di riuscire a penetrare la frontiera.
Bihać è l’imbuto d’Europa. Sulle colline intorno alla città, ci sono ben 5 tendopoli. Da qui devono passare per forza tutti i migranti della rotta. Qui il confine è uno dei più pattugliati al mondo. Per raggiungere la frontiera, la strada attraversa i boschi: “La proporzione dei rifiuti incontrati sui sentieri rende tangibile il grandissimo numero persone che passa di lì”, riporta Padre Jonas. Dai rifiuti si possono immaginare le storie, i volti dei migranti. “Capisci che lì è passata una famiglia perché si vedono i resti dei fuochi e i pannolini dei bambini”. Queste tracce nel bosco porteranno oltre la frontiera, o si infrangeranno contro i manganelli della polizia croata?
Per riuscire nell’impresa di giungere in Croazia, in Europa, servono tra i 5 e i 30 tentativi in media e la maggior parte delle volte chi tenta viene ricacciato indietro dalla polizia croata e privato di telefoni, soldi e scarpe.“Ce la faremo Insh’Allah, se Dio vuole”, dicono.
Sulla rotta balcanica: Vučjak, Bosnia Erzegovina
I diritti negati nel fatiscente campo di Vučjak, ex discarica vicino a Bihać, sono nulla in confronto ai diritti negati dalla polizia di frontiera. Molti di quelli che stazionano qui ci hanno provato anche sette, otto volte ad arrivare in Slovenia attraverso la Croazia. Ma proprio quando pensavano di avercela fatta, sono stati presi dalla polizia che li ha rimandati indietro. Non prima di averli rapinati, umiliati, picchiati. “Ce la faremo Insh’Allah”.
“Quanti di noi dovranno ancora morire”? Questo è il grido che si leva dal campo di Vučjak.
Una vita scandita dall’attesa: di un pasto caldo, se sei fortunato, di una nuova partenza. “File infinite di uomini stanchi, infreddoliti, ma ancora in grado di essere grati per quel poco ricevuto”, racconta Martina. Una tazza di tè, in cambio di tutto: la dignità, la libertà, la vita. Solo un sogno ancora resiste: tentare il “game” per raggiungere l’Europa. Da dove arriva la speranza in un posto come questo? Forse anche dalla disperazione.
Un grido sordo, disperato come le notti buie e fredde anche in estate in un campo in cui manca tutto. Anche l’umanità. Nelle notti al campo di Vučjak si sentono spesso gli ululati dei lupi. Vučjak letteralmente vuol dire “la tana del lupo”, e oltretutto è ancora circondata da campi ancora minati per la guerra civile che insanguinò i Balcani tra il 1992 e il ‘95.
È una vergogna a cielo aperto, Vučjak, per le condizioni in cui vivono i migranti. Lo sa il Comune di Bihać, lo sa l’Unhcr e lo sa l’Unione europea. Ma tutti chiudono un occhio. Anche perché non c’è alternativa. Meglio questo del nulla, meglio le tende piantate nell’ex discarica che non avere alcun riparo.
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Il traguardo: Trieste, Italia, Europa
Hassan e Ishtab sono a Trieste: ce l’hanno fatta. Hanno vinto il “game”. Hanno superato il deserto turco e il mare. E i campi delle isole greche. E i boschi della Serbia. E le tende bosniache di Vučjak. Da quell’inferno sono riusciti ad evadere e alla fine sono sfuggiti ai poliziotti croati, ai loro cani, ai droni e al filo spinato sloveno. E sono approdati in Italia.
“Li abbiamo trovati stremati, seduti sotto un albero alla stazione di Trieste”. I piedi feriti consumati dagli ultimi 12 giorni di cammino, e dai drammatici mesi precedenti. Nel loro volto però c’era scolpita la gioia di chi ce l’ha fatta, nelle loro parole bollivano sogni per il futuro. “Andrò da mio fratello a Milano, poi forse in Germania, chissà. Quello che importa è essere arrivato qui”. I loro sguardi non riescono a guardare indietro, non possono. Sono proiettati in avanti.
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La fine della rotta: “The end of the game”
Finisce dopo 20 giorni di viaggio fianco a fianco con i migranti della rotta balcanica, l’esperienza dei ragazzi di Umanità InInterRotta finisce qui. “Siamo tornati in Italia con il desiderio di fare di quello che abbiamo visto con i nostri occhi, una questione che ci riguarda”, spiega padre Jonas. “Essere una società significa avere in testa il bene della comunità e questo bene rimarrà irraggiungibile finché esisteranno fili spinati a separare confini esistenti solo nella testa di chi non vede e non tocca quel dolore”, aggiunge Martina.
I migranti che ogni giorno sono sulla rotta balcanica sono persone senza voce che bussano alle nostre porte. Riconoscerli come esseri umani vuol dire rispondere sì al loro inconsapevole chiederci di rendere universali quei diritti che sono, alla prova dei fatti, soltanto stampati sulle nostre carte.
La rotta balcanica e l’arrivo dei migranti oggi, al tempo del Covid-19
Assurdo. Assurdo pensare che il dramma dei migranti sulla rotta balcanica si consumi a pochi chilometri da noi. Assurdo il naufragio di Shengen in questo momento storico in cui la diffusione del coronavirus sta segnando la storia europea e mondiale. Assurdo che l’Europa stia vivendo una balcanizzazione. Ovvero, il far credere che il male venga dagli stranieri: italiani, nel caso del Covid-19, siriani, afghani, iraniani, nel caso delle migrazioni che affollano la rotta balcanica.
È oggi che abbiamo però l’occasione di capire che siamo tutti sulla stessa barca. “In questi giorni la polizia slovena è talmente impegnata a bloccare chi entra che non ha tempo per quelli che escono”, racconta Gian Andrea Franchi che con la moglie ha fondato a Trieste Linea d’ombra, un’associazione che si occupa di dare una prima assistenza ai migranti della rotta che arrivano nella città della Bora. Così, i sopravvissuti alle sevizie della rotta arrivano come e più di prima. E una volta qui, si ritrovano impossibilitati a spostarsi e senza nessuno che si curi di loro, tranne Gian Andrea e Linea d’ombra. Non c’è infatti tempo per “loro”, oggi dobbiamo pensare a “noi”. E così si innesca una bomba umanitaria di portata inimmaginabile.
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