Dignità e libertà alla fine della vita. Più che sconfiggere la morte, è questa la vera sfida della medicina moderna, come raccontato nel libro di Giada Lonati, direttrice sociosanitaria di Casa Vidas.
“L’ultima cosa bella” non è altro che il racconto scritto della nostra natura: esseri finiti, una delle poche certezze che ci trasciniamo dal momento della nascita. L’autrice Giada Lonati racconta in questo libro – con postfazione di Ferruccio de Bortoli – il frutto della sua esperienza alla guida dell’hospice Casa Vidas in qualità di direttrice sociosanitaria e ci conduce, con mano delicata e sensibile, in un mondo estremo che ci appartiene per definizione, quello dell’ultimo lembo della nostra esistenza. L’esperienza quotidiana è trasmessa da una prosa tanto ricca quanto semplice, materia che può plasmare solo chi ha chiaro il messaggio da diffondere e, aggiungiamo, vive con passione il delicato incarico che le è stato affidato.
Il medico che cura l’inguaribile
Non a caso il primo capitolo, intitolato “Il medico che non guarisce”, si conclude rammentando una vignetta di Charlie Brown che, di fronte al cielo stellato, dice a Snoopy: “Un giorno moriremo anche noi”. Replica Snoopy: “Certo, ma tutti gli altri no”.
Eccoci allora, a fianco di Giada, in questo percorso del vivere e del morire. L’analisi e le considerazioni sull’opera palliativa di Vidas sono intrecciate con le storie di vita che ne costituiscono l’essenza, partendo dal più arduo dei presupposti: curare quando non si può più guarire. Non c’è pagina in cui Giada, il medico che non guarisce, non faccia i conti con il macigno che si chiama verità: “La diagnosi non è semplicemente fornire un’informazione. È dare tempo all’altro di interiorizzare gli elementi che gli vengono forniti, di digerirli, riproporli e sollevare tutte le domande che ritiene”. C’è nell’uso del verbo digerire tutta la corporea compassione, nel nobile senso di “patire con”, del medico conscio che il giuramento professionale non è solo un atto burocratico.
Vengono così sviluppate le questioni della diagnosi e della verità al malato, l’accompagnamento quale lavoro d’équipe nel rispetto della singolarità dell’essere che sta morendo, i problemi della sedazione, sino al disegno di legge, sulle disposizioni anticipate di trattamento. Ma non c’è problema affrontato che non sia vissuto nei corpi, nella mente e nei cuori di coloro che stanno soffrendo e dell’universo dolente che li circonda.
Capita così che il racconto si faccia impervio per le emozioni suscitate da Anselmo, Stanley, Andrea, Emma, Adele, Alessandra, Giancarlo, Liliana, Lucia; ma anche dalla signora Hu che viene dalla Cina, o da Salima, la moglie di Mohammed che vuole tornare in Egitto circondata dai suoi cari. Sono i nomi di alcuni dei numerosi protagonisti delle storie che l’autrice ci racconta a sostegno del suo impianto narrativo. Racconti di sofferenza, di disperazione, ma anche di un’attesa dolorosa vissuta con straordinaria pienezza e intensità.
Ci sono le tracce di sconfitte (“Un medico vero non avrebbe mai detto al paziente le cose che ha detto lei”), ma c’è anche il sorriso del paziente che le chiede quanto gli resta da vivere e, sorprendendola a riprender fiato, l’anticipa: “Dottoressa, stia tranquilla, voglio solo sapere se mi conviene pagare il canone Rai”. E c’è la consapevolezza che “sapere una cosa e dirsela è molto diverso perché le cose dette hanno uno spessore e un senso di definitivo che i pensieri possono permettersi di non avere”.
La vera sfida della medicina moderna
Tutto vero. Eppure in queste pagine c’è più vita di quanto si possa immaginare. Perché “le cure palliative sono prima di tutto una scuola e i suoi maestri sono soprattutto i pazienti e i loro famigliari, eroi silenziosi e involontari”. Giada Lonati conclude rammentando le parole del cardinal Martini che invoca un “supplemento di saggezza” per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona. È questa, chiosa l’autrice, più che la sconfitta della morte, la vera sfida della medicina moderna.
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