Decolonizzare e rafforzare la scienza per tutelare la biodiversità e lo sviluppo. Il caso del Mozambico
“I bufali del Capo sono una delle razze fondamentali per la sicurezza dei mozambicani. La loro crescente presenza nella savana fa si che venga consumata grande quantità di erba secca, che è un combustibile degli incendi che oggi, a causa del cambiamento climatico, sono sempre più estesi e mettono a rischio villaggi e culture adiacenti alle aree naturali”. A parlare è Carlos Manuel Bento, uno dei capo ricercatori del Museu de historia natural di Maputo, Mozambico.
Nel suo studio, invaso da carte, libri, cataloghi di insetti imbalsamati, fa bella figura un enorme teschio di Syncerus caffer, nome scientifico del bufalo africano delle regioni meridionali. “Mi occupo di studiare il dna dei bufali attraverso le feci, per capire le migrazioni delle varie mandrie, le correlazioni tra vari specimen e l’interazione con l’ambiente circostante, in moda do capire come sta funzionando il ripopolamento e la gestione dei conflitti uomo-animale”.
Il dottor Bento è uno dei tanti ricercatori che lavorano presso il Museu de Historia Natural di Maputo, uno dei centri di ricerca sulla biodiversità, insieme all’Università Eduardo Modlane. Nel laboratorio di biologia adiacente lavora Erica Helena Tovela, formatasi nel 2016 all’università di Parma grazie ad un programma di scambio. Lavora sulla classificazione dei pesci attraverso l’analisi del dna. È una delle tante ricerche che svolge la prof.ssa Tovela nei laboratori del Museu a Maputo.
“Spesso nei mercati si vende pesce etichettato con nomi sbagliati. Tracciando le specie possiamo capire se sono state catturate specie a rischio o se sono state mal classificate dai grossisti”
Erica Helena Tovela
Si occupa inoltre di formare nuovi biologi mozambicani. “Accogliamo studenti dal dipartimento di Scienze biologiche per formarli sugli studi molecolari e su come lavorare in laboratorio. In questo modo apprendono le basi scientifiche per studiare la biodiversità”. Erica fa parte di una nuova generazione di scienziati africani che vogliono prendere in mano la tutela della biodiversità nazionale, marina e terrestre, per proteggere i servizi ecosistemici fondamentali a consentire lo sviluppo del proprio paese, dalla sicurezza alimentare legata alla pesca, alla tutela del suolo per l’agricoltura. Per troppo tempo la ricerca sulla biodiversità è stata in mano a conservatori occidentali ed esperti delle grandi università del nord globale. Per garantire una vera tutela della biodiversità nel rispetto delle popolazioni locali africane, il trasferimento della conoscenza e la formazione delle competenze scientifiche locali diviene un pilastro fondamentale della cooperazione ambientale. E il Mozambico è un esempio palese di come questo può avere grandi risvolti.
Biodiversità come chiave dello sviluppo
“Il 90 per cento della popolazione mozambicana vive in aree rurali e la biodiversità offre uno strumento di sopravvivenza quotidiano”, spiega Paolo Mistè, capoprogetto dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) in Mozambico. “Pertanto è fondamentale conoscere a livello locale quali sono i benefici che possono derivare dalla tutela della biodiversità, il potenziale di conservazione e la preservazione per il futuro”. Lo stato africano, che ha sofferto una lunga guerra civile terminata nel 1992 rimane ad oggi uno dei paesi meno sviluppati del continente, con una popolazione di 31 milioni di abitanti prevalentemente residenti lungo i 2770 chilometri costa, spesso sede di ecosistemi critici come mangrovie, scogliere, baie e dune, fondamentali per la sicurezza alimentare del paese, dato che più del 70 per cento della popolazione dipende da un’agricoltura e pesca di sussistenza.
La sua incredibile biodiversità costituisce però un asset fondamentale sul lungo periodo. “Il Mozambico è un paese megadiverso, nemmeno conosciamo tutte le specie che abbiamo, specie del mondo marino, degli invertebrati, ma anche uccelli e megafauna”, spiega la vice direttrice alla ricerca del Museo, Daniela de Abreu. “Questo è un rischio, poiché rischiamo di perdere per sempre specie fondamentali se non acceleriamo lo sforzo di conoscere e mappare le specie nel nostro paese. Ogni attività di ricerca deve andare in questa direzione per poter poi intervenire consapevolmente”.
Il Mozambico – come tutti i paesi che fanno parte delle Nazioni Unite – ha il dovere di proteggere almeno il 30 per cento della superficie terreste e marina nazionale entro il 2030. Già oggi esistono numerose aree protette, come il Parco nazionale di Maputo, quelli di Banhine, di Gorongosa, di Zinave e del Limpopo. Spesso però i parchi nazionali e le aree protette dipendono completamente dalle risorse straniere, da ricercatori e progetti portati avanti da scienziati provenienti da Europa, Stati Uniti e Sudafrica. Quando i progetti finiscono, si rischia di perdere tutto. E le decisioni non sono sempre condivise con i territori. “Serve quindi formare competenze e reti scientifiche locali”, continua Mistè. “È un tentativo di decolonizzare la ricerca e la gestione della biodiversità, cercando di far beneficiare quanto più possibile lo sviluppo locale”.
L’importanza di formare scienziati africani
Non serve solo fare ricerca: anche le competenze gestionali delle aree di conservazione vanno rafforzate. “Il Parco nazionale di Maputo deve essere protetto dai mozambicani”, esordisce Miguel Gonçalves, amministratore del Parco, una riserva popolata da elefanti, bufali, zebre, giraffe e, recentemente reintrodotti, leopardi e iene. “Il parco è la sua biodiversità sono una risorsa che diamo al mondo ma che serve anche al Mozambico. Quindi è di estrema importanza che i mozambicani siano ben addestrati e preparati a gestire e proteggere le specie del parco nazionale”.
Per questo nella direzione parco, sono state approntate con il supporto di Aics nuove strutture per ospitare i giovani ricercatori mozambicani che lavorano per monitorare le specie e dei laboratori di ricerca, “una componente di un progetto più amplio che include la creazione del Centro di Conservazione della biodiversità, che sarà il primo del paese, sito al Museo di Storia naturale e il laboratorio sull’isola di Inhaca”, spiega il veterinario Gianluca Zaffarano, trentacinquenne anni di cui sette in Africa per studiare i grandi mammiferi. “Si tratterà di rafforzare l’analisi degli ecosistemi terrestri e formare nuove competenze che facciano rete con tutte le istituzioni del paese”. Giovani ricercatrici hanno imparato a analizzare dati sulle specie, monitorare gli spostamenti, e capire qualiimpatti hanno sulla popolazione, come la giovane mozambicana Leucina Antonio, che ha realizzato una tesi sperimentale sulla trasmissione tra fauna selvatica e bestiame della Fasciola hepatica, un verme piatto che infetta il fegato di diversi animali, uomo compreso, riproducendosi.
Una delle problematiche principali che si riscontrano in qualsiasi area di conservazione in tempi moderni è il conflitto uomo-animale. Dal Trentino ai parchi dell’Africa australe è una questione rilevante. “Parliamo delle zoonosi; dell’attacco di predatori al bestiame delle popolazioni rurali o viceversa, attacchi dalle persone agli animali per difendere colture, per difendere allevamenti o anche per difendere proprie abitazioni. È un problema estremamente complesso, che riguarda diverse componenti scientifiche”, continua Zaffarano durante una ricognizione per verificare lo stato di salute delle centrali metereologiche del Parco. “Per questo vanno formati veterinari, biologi, esperti di scienze naturali”.
Uno dei lavori che svolgeranno nei prossimi mesi sarà quello di creare una rete terrestre per il monitoraggio delle specie, meno costosa dei radiocollari. “In questo modo gli esperti del parco avranno dal sistema informazioni utili per il comportamento animale e gli spostamenti dell’animale nell’area di conservazione e nei corridoi”, conclude Zaffarano. “Una soluzione che il governo e gli amministratori del parco possono replicare in tutto il paese”.
Infrastrutture di ricerca e progetti di collaborazione
Sulla baia dell’isola di Inhaca, un tempo base commerciale portoghese, abbondano le specie di uccelli, come i fenicotteri che apprezzano le acque basse e tranquille. Le coste sono costellate di mangrovie che offrono rifugio a numerose specie, dai granchi violino ad uccelli come il bucero trombettiere, passando per a decine di pesci e molluschi. “Le mangrovie sono un ecosistema incredibile: assorbono fino a cinque volte la CO2 rispetto ad una foresta, servono a preservare gli stock ittici fornendo un luogo fondamentale per la schiusa delle uova, fungono da barriera per gli uragani che sovente colpiscono il Mozambico e riducono l’erosione costiera”.
A raccontare gli incredibili servizi ecosistemici di queste formazioni vegetali è l’ecologo di origine venezuelana, Paolo Ramoni. Intorno a lui le fasce di rizoforacee si intrecciano nel fango, con le radici che sbucano come antenne dal suolo per captare ossigeno. “Queste radici sono la loro peculiarità, che le rende in grado di respirare in qualsiasi condizione, anche con l’alta marea, e massimizzare l’assorbimento di CO2”, spiega.
“Qua, grazie ad una summer school, formeremo gli esperti mozambicani di mangrovie insieme a studenti e ricercatori italiani”, continua l’ecologo. I laboratori sono in espansione, così come le residenze per i circa tredici ricercatori che attualmente sono a lavoro sull’isola che ospita vari biomi, dalle barriere coralline più a sud del pianeta, alle dune con vegetazione, mangrovie, aree umide.
“Sull’isola di Inhaca vengono i ricercatori mozambicani dell’università e da altre istituzioni dell’Africa australe per svolgere ricerche sulla tutela della biodiversità marina”, spiega il professor Jose Chissiua Dumbo che dirige l’Estação mentre mostra teche con cavallucci marini e uova di tartaruga in formalina. “Nel centro c’è una collezione storica di crostacei, pesci ed organismi marini che permette di comparare le specie che c’erano 50 anni fa con quelle presenti oggi, capendo quali sono estinte, quali reintrodotte, quali mutate. Un vero e proprio catalogo di comparazione”.
Nel centro di Maputo, al Museu intanto Optimo Fernando Guivala sta nel laboratorio di tassidermia per sistemare la testa di un bufalo. Ovunque ci sono teste e corpi di antilopi, genette, impala. Anche qua la collezione di mammiferi, rettili, pesci ed insetti è sterminata, sebbene rovinata. “Stiamo apprendendo nuove tecniche per ripristinare gli esemplari”, spiega Optimo Fernando. Un modo anche questo per poter aver contezza della biodiversità reale del paese e delle mutazioni occorse.
Il museo, da anni sostenuto dalla cooperazione italiana, sarà presto integralmente restaurato e verranno attivati nuovi laboratori. L’obiettivo è rendere il sapere più accessibile per tutti. “È necessario modernizzare la parte museale per educare la nostra comunità, i nostri studenti, dalla scuola primaria, fino agli studenti universitari”, spiega Daniela de Abreu. Rafforzare la scienza può rafforzare il paese e proteggere la biodiversità. Partendo proprio dalla scienza, il seme illuminista che ci può guidare verso uno sviluppo planetario prospero ed equo.
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