Il nuovo appuntamento di Eventi naturali ospita la giovanissima Emma Nolde, uno dei nomi più promettenti del nuovo cantautorato italiano.
Ospite del nuovo appuntamento di Eventi naturali è Stefano Ceri, in arte semplicemente Ceri, che con il suo sound e la sua sensibilità artistica ha rivoluzionato il panorama indie/pop italiano degli ultimi anni, delineandone una nuova direzione.
Musicista a tutto tondo, come solista ha pubblicato due ep; come producer ha collaborato con artisti del calibro di Mahmood, Coez, Frah Quintale, Salmo, Crookers e Franco126. In viaggio con Giacomo De Poli, ci ha parlato di come e quando è avvenuto il suo primo approcciato al lavoro di produttore musicale e di quanto sia importante l’empatia per rendere un disco unico.
Ceri, dai beat prepartita alle grandi produzioni musicali
Ceri nasce nel 1990 a Trento, città le cui montagne gli hanno lasciato in eredità un forte legame con la natura: “Sono cresciuto qua, dove la natura ce l’hai in faccia ogni secondo e non esiste un punto dove tu possa guardare senza vederla”.
Inizia a fare musica da piccolissimo, a sette anni, già approcciandosi alla composizione: “Ho iniziato a suonare il pianoforte che avevo in casa, quello di mia nonna. Poi ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte e il maestro mi ha spronato a comporre. Mi divertivo molto a inventare cose nuove e quindi già a sette-otto anni scrivevo delle piccole composizioni: era una cosa che mi piaceva tantissimo fare e, infatti, nel tempo mi è rimasta”.
Da adolescente, negli anni del liceo, un suo amico gli fa scoprire un software per creare musica con il computer. Questa cosa lo affascina talmente tanto da decidere di iniziare a produrre musica: “I miei primi beat li facevo per me, per ascoltarmeli prima di andare a giocare a basket e caricarmi!”.
Il basket è, infatti, una delle altre grandi passioni di Ceri e, tra l’altro, inizialmente lo aveva allontanato dalla musica stessa: “Mi piace tantissimo giocare a basket e quindi avevo smesso di suonare: suonare significa stare chiuso in casa per ore, da soli, al buio. Invece, io preferivo andare in giro a giocare”.
Ripresa la musica, Ceri inizia a fare le sue prime produzioni in ambito scolastico, sperimentando l’hip hop e il rap con i compagni del liceo e ispirandosi ad alcuni dei produttori italiani più influenti dell’epoca come Phra Crookers (“Lui è davvero un fuoriclasse e quando ho sentito le sue cose da ragazzino mi ha svoltato il modo di pensare alla musica”) e Dj Shocca, beatmaker rap della golden age hip hop. Alle collaborazioni di quegli anni con i Fratelli Quintale, il gruppo di cui faceva parte Francesco Servidei, risale il suo sodalizio artistico durato negli anni successivi con Frah Quintale.
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In seguito passa alla musica elettronica: frequenta il Conservatorio di musica elettronica e, dopo anni di produzioni dalla house a all’elettronica più sperimentale, inizia la collaborazione con Undamento, etichetta indipendente di base a Milano, aprendosi anche al pop: “Per venire a Milano, aprire Undamento e fare i primi dischi, avevo interrotto gli studi al Conservatorio, congelando gli studi. Visto che era possibile farlo per tre anni, mi sono detto: ‘Ok, tra tre anni capirò dove sarò, nel caso riprenderò gli studi e cercherò di capire che cosa fare della mia vita’. Quei tre anni sono scaduti mentre eravamo in tour con Frah (n.d.r. Quintale) e lì mi sono reso conto che avrei fatto decadere gli studi e che quello del produttore musicale era diventato il mio vero lavoro”.
Come ci ha raccontato, la sua prima produzione veramente seria è stata quella per Niente che non va, il primo disco con Coez e terzo album dell’artista uscito nel 2015: il lavoro che lo ha consacrato come uno dei produttori più innovativi in ambito indie/pop.
Negli anni, ha poi collaborato con Mahmood, per cui ha firmato le produzioni dei brani Gioventù bruciata, Sabbie mobili e Mai figlio unico, Frah Quintale, di cui ha prodotto sia l’album di debutto Regardez moi che il successivo Banzai, Crookers, Salmo e Franco126, con cui ha collaborato alla lavorazione di Stanza singola, primo disco dell’artista dopo la fine del sodalizio con Carl Brave.
Questione di empatia
L’approccio di Ceri al lavoro di produttore musicale è estremamente sfaccettato e molto personale. In ogni lavoro, per lui è fondamentale costruire una relazione empatica con l’artista con cui sta collaborando in quel momento, in una modalità di completa apertura e senza chiusure mentali.
Punto di partenza è sempre quello dell’ascolto dell’altro, per capire le esigenze e costruire insieme il mondo e l’immaginario sonoro che l’artista sta ricercando: “Il lavoro del produttore è molto ampio, anche da psicologo a volte, perché bisogna capire quanto intervenire, quanto non intervenire, quanto lasciare spazio, quanto prenderne in un disco che non è il tuo. Essendo la composizione e la musica una cosa così umorale, ci sono molti aspetti complicati e complessi che vanno gestiti”.
Non è sempre facile, ma a volte lo scontro è inevitabile e necessario: “È impossibile fare un disco, o anche solo un pezzo, ed essere d’accordo sempre su tutto (…) L’importante è che questa discussione sia sana, che non ci sia un testa a testa di convinzioni, di chiusure mentali”.
I progetti solisti di Ceri
Oltre a essere produttore, Ceri è anche musicista e, come solista, ha al suo attivo due ep. Un progetto personale con cui esplora mondi musicali più personali, legati alla sperimentazione elettronica, senza però perdere di vista una certa attitudine pop, nonché la sua passione per il cantautorato italiano.
Il 7 giugno 2019 ha pubblicato per Undamento l’ep di debutto Solo, di cui ha anche scritto e cantato i testi, utilizzando la voce come vero e proprio strumento musicale; mentre nell’aprile 2021 è uscito Insieme, il nuovo ep in risposta al primo e composto da sette tracce nelle quali trovano spazio collaborazioni con Coez, Franco126, Phra Crookers, Ginevra, Colombre e See Maw.
Nell’ep, è contenuto anche HappySad feat. Franco126, il quale ha prestato la voce. A sottolineare la passione per la tradizione cantautorale italiana di Ceri, il brano prende spunto dalla hit di Lucio Dalla, Attenti al Lupo, di cui viene presa la melodia e ripresentata in chiave contemporanea, con benestare anche di Ron, uno degli autori del brano, che ha trovato la nuova versione fresca ed originale.
Ceri a Eventi naturali
A bordo di Mokka-e, l’auto totalmente elettrica di Ford, Ceri ci ha accompagnati alle pendici delle montagne nei dintorni di Trento e, prima di fermarci ad ascoltarlo dal vivo, immersi nella natura, ci ha raccontato del suo approccio al lavoro di produttore musicale e del momento in cui ha capito che poteva considerarlo un vero e proprio lavoro, di quanto sia importante instaurare un rapporto empatico con l’artista con cui si sta lavorando, degli artisti e colleghi che lo hanno ispirato e lo ispirano, ma anche di quanto la crisi climatica che stiamo vivendo faccia parte dei suoi pensieri, ancor più per lui, nato e cresciuto in Trentino, dove è impossibile non istaurare un forte legame con la natura.
L’intervista integrale
Hai la fortuna di avere un cognome perfetto sia come soprannome che come nome d’arte. Sei sempre stato Ceri?
Sì, da quando sono nato chi non è mio padre, mia madre o uno dei miei familiari mi chiama Ceri. All’inizio avevo scelto un altro nome orribile e, per fortuna, nessuno mi ha mai veramente chiamato così; quindi, a un certo punto, ho deciso di abbandonare quel nome e di restare quello che ero sempre stato.
Come e quando hai iniziato a fare musica?
Da molto piccolo: a sette anni ho iniziato a suonare il pianoforte che avevo in casa, il pianoforte di mia nonna. Poi ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte e il maestro mi ha spronato a comporre. Mi divertivo molto a inventare cose nuove e quindi già a sette-otto anni scrivevo delle piccole composizioni: era una cosa che mi piaceva tantissimo fare e, infatti, nel tempo mi è rimasta.
Quella del produttore in campo musicale è una figura sconosciuta ai più. In che cosa consiste il tuo lavoro?
Spesso ci si può confondere. Molti pensano che il produttore sia quello che mette i soldi, ma questa è una figura diversa. Il produttore musicale è quello che compone la base musicale. Dopo, in realtà, il lavoro del produttore è molto più ampio, anche da psicologo a volte, perché bisogna capire quanto intervenire, quanto non intervenire, quanto lasciare spazio, quanto prenderne in un disco che non è il tuo. Essendo la composizione e la musica una cosa così umorale, ci sono molti aspetti complicati e complessi che vanno gestiti.
Quando c’è stato il passaggio tra comporre e iniziare a produrre, quindi a lavorare per altri?
In realtà c’è stato un momento in cui avevo mollato la musica: mi piace tantissimo giocare a basket e quindi avevo smesso di suonare perché suonare significa stare chiuso in casa, ore, da soli, al buio. Invece io preferivo andare in giro a giocare. Dopo questo stacco, iniziate le superiori, un mio amico mi ha fatto scoprire un programma sul computer col quale si poteva comporre, avendo a disposizione i suoni di tutta una serie di strumenti. Questa cosa è stata incredibile! I miei primi beat, tra l’altro, li facevo semplicemente per me, per ascoltarmeli prima di andare a giocare a basket e caricarmi. Lo facevo per me, non per gli altri, ma il primo approccio alla produzione è stato questo.
La tua prima produzione? O la prima produzione rilevante, che ti rappresenta?
In realtà non ce n’è una ben precisa, perché ogni produzione è stata importante, dandomi sempre più fiducia nel mio lavoro. Per esempio, la primissima volta che ho fatto una produzione con questo programma e mi piaceva, poi magari arrivava qualcuno a cui non piaceva… questo mi spronava ad andare avanti, a migliorare, a dimostrare a me stesso che potevo fare sempre meglio. In effetti, ogni produzione è come se fosse la prima, perché non sei mai sicuro, non sai mai di saperlo fare dino in fondo, quindi bisogna continuamente riiniziare.
Mentre, la prima produzione per un altro artista?
Al liceo, quando i miei amici facevano rap, io avevo dato delle strumentali. Ma la prima cosa veramente seria, probabilmente, è stato il primo disco di Coez, Niente che non va.
Quanto intervieni nei dischi a cui stai lavorando? Sei uno che partecipa tanto o preferisci metterti di più in ascolto e capire cose vuole l’artista per cui stai lavorando?
Il punto di partenza è l’ascolto. La prima volta che lavoro con un artista, logicamente, non è lui che deve capire cosa voglio io, ma sono io che devo capire cosa vuole lui. Se capisco che c’è la necessità di intervenire, allora mi faccio più presente. Il lavoro è sicuramente quello di trovare un equilibrio tra queste due cose: ci sono dei momenti in cui uno deve lasciarsi guidare e altri momenti in cui deve guidare. È sempre uno scambio ed è una delle parti più difficili di questo lavoro, però non c’è una regola fissa, c’è un capire i momenti, le situazioni.
Ti è mai capitato di scontrarti con qualcuno?
Lo scontro è inevitabile ed è anche necessario. La cosa importante è capire come risolverlo. È impossibile fare un disco, o anche solo un pezzo, ed essere d’accordo sempre su tutto. Chiaramente non bisogna arrivare a litigare, però talvolta la discussione può arrivare a essere anche abbastanza accesa. L’importante è che questa discussione sia sana, che non ci sia un testa a testa di convinzioni, di chiusure mentali. È fondamentale capire cosa sta dicendo l’altro e farsi capire.
Ti è mai capitato di mollare una produzione o anche solo di rifiutare una richiesta?
Di rifiutare richieste sì, per vari motivi. O perché non c’era un mio interesse o perché, secondo me, non sarei stato la persona giusta per fare quel determinato lavoro; o magari anche per il momento, per il tempo che mancava perché stavo lavorando a un altro disco. Mi è capitato anche di interrompere una collaborazione a metà, una sola volta, ma è stata veramente tosta come cosa. Ma è comunque importante fare questo tipo di esperienza, perché dopo capisci come gestire un’eventuale prossima volta.
A proposito di rapporti che si creano tra persone, si può anche diventare amici grazie a questo lavoro: ricordo un live di Franco126 un paio di anni fa a Milano che ti chiamò sul palco definendoti come “quello che gli ha salvato la vita”. Quanto conta e quanto è forte il legame che si può creare tra due persone che lavorano per un obiettivo comune, anche se magari sono su due livelli diversi?
Non è necessario che uno diventi il migliore amico dell’altro, ma può sicuramente aiutare. Ad esempio, io con Franco mi trovo molto bene e lavorare insieme è divertente anche perché lui fa tanto ridere e questa cosa aiuta molto anche a risolvere i momenti di incomprensione. Poi non è necessario che si diventi amici o anche che si stia tanto insieme. Di sicuro bisogna trovare un’intesa, sia di intenti che di concezione della musica: non è facile. C’è anche chi fa le cose a tavolino, ma io preferisco trovare un’empatia.
Quali sono i colleghi che stimi maggiormente?
Uno dei miei colleghi, che era anche uno dei miei idoli di gioventù e che poi ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere, è Phra dei Crookers: lui è davvero un fuoriclasse e quando avevo sentito le sue cose da ragazzino mi aveva abbastanza svoltato il modo di pensare la musica… Adesso sono tanti i produttori forti in Italia: Mace, per esempio, sta facendo un percorso molto figo… È pieno di produttori bravi! Io, poi, non ho legato tanto con gli altri produttori: Crookers è un amico, lo sento spesso, Mace è un bel nome di riferimento del panorama attuale e lo becco spesso in giro, ma mi piacerebbe poter essere più amico degli altri produttori. Un altro nome italiano, che per me è stato un grande riferimento quando ero ancora più giovane, è DJ Shocca, un beatmaker rap della golden age hip hop. Ho conosciuto anche lui ed è un grande, un altro fuoriclasse!
Il lavoro del produttore è molto più ampio, anche da psicologo a volte, perché bisogna capire quanto intervenire, quanto non intervenire, quanto lasciare spazio, quanto prenderne in un disco che non è il tuo. Essendo la composizione e la musica una cosa così umorale, ci sono molti aspetti complicati e complessi che vanno gestiti.
Ma quando dici che ti piacerebbe beccarli di più è perché non sei una persona molto sociale o perché non c’è una sorta di community tra artisti, produttori o per quale motivo?
Sicuramente un po’ più di community si potrebbe creare tra noi produttori, però alla fine è anche una questione pratica e di tempo. Io mi ritrovo spessissimo in studio e alla fine non ho troppo tempo di organizzare cose con altri. Devo anche dire, poi, che è molto difficile lavorare insieme tra produttori, perché si rischia sempre che le cose non girino bene: ognuno ha il suo workflow, le sue fissazioni, quindi è difficile far combaciare tutto. Per esempio, io mi trovo meglio con musicisti un po’ produttori, che però hanno bisogno di essere guidati. Un esempio: mi sono trovato molto bene con Giorgio Poi, quando ha lavorato sul disco di Franco126, perché lui è anche produttore, ma prima di tutto musicista, quindi avevamo dei ruoli un po’ diversi, ma complementari. Mi piacerebbe fare cose anche con altri produttori, anche se è molto difficile trovare l’alchimia perfetta e l’approccio giusto.
Ormai sono cinque/sei anni che la figura del produttore è un po’ venuta fuori, confermi?
Sì, e sicuramente venuta fuori, anche se non ho ancora ben chiare le idee su questo argomento. È venuta fuori anche per tutta una questione mediatica perché, secondo il mio punto di vista, nei titoli delle canzoni qualcuno ha iniziato a scrivere “Prod”. Non sono nemmeno troppo d’accordo su questa cosa: io non l’ho mai fatto scrivere perché da una parte mi sembrava di rovinare il titolo della canzone, ma anche perché a mio avviso il ruolo del produttore non è quello di protagonista, ma è quello di stare dietro le quinte del progetto nello stesso modo in cui fanno il manager, l’ufficio stampa ecc. Bisogna sempre calibrare bene i ruoli. Detto questo, il ruolo del produttore è fondamentale perché un suono di rullante può cambiare completamente un pezzo, così come un suono di pianoforte suonato in un modo diverso: piccole sfumature che, però, cambiano tutto. La musica contemporanea è caratterizzata molto dal timbro e creare un mondo sonoro fa tantissimo nella musica odierna. Dunque trovo legittima l’esigenza dei produttori di affermare il proprio ruolo, la ricerca di affermazione da parte di una figura centrale per l’attuale panorama musicale. Probabilmente questa attuale ricerca di visibilità è anche una risposta alla poca attenzione che c’era prima, ma bisognerebbe far sì che il nostro ruolo venisse riconosciuto a priori, senza dover dire ‘Questo l’ho fatto io’, ‘Ricordatevi che ci sono anch’io’.
Tu parli molto di suoni, di timbro, di sfumature. Ma a volte gli artisti arrivano al disco con delle bozze, delle demo e in quei casi c’è ben altro lavoro da fare…
Anche qui, in realtà, si tratta di sfumature, perché quando un artista arriva con una demo tu devi dargli un mondo sonoro. Magari si tratta di cambiare gli accordi, magari gli dici: ‘No, questa melodia non va bene, la devi rifare’, o ‘Devi riscrivere la strofa, devi riscrivere ritornello, devi riscrivere tutto il pezzo’, però la cosa importante è creare un immaginario sonoro, dare un’identità. Il lavoro che ho fatto con Franco è stato creagli una nuova identità: lui arrivava da un disco con Carl Brave che aveva un mondo ben preciso ed è venuto da me chiedendomi una nuova identità completa. Quindi abbiamo lavorato su questo: per esempio, abbiamo tolto l’auto-tune, i riferimenti sono molto più vicini agli anni Settanta in chiave moderna… C’è stato un lavoro di ricerca timbrica che, alla fine, ti porta dei riferimenti a un mondo ben preciso.
Ma tu quando hai capito o ti sei detto: “Ok, sono un produttore. Voglio fare il produttore”
Volerlo fare ce l’ho da sempre, però adesso è molto più facile immaginare di poter lavorare con la musica rispetto a dieci anni fa secondo me, perché ci sono molti più esempi di persone che riescono a farlo. Io, ad esempio, quando studiavo al Conservatorio di musica elettronica non sapevo cosa avrei fatto nella vita, però difficilmente avrei creduto di poter un giorno davvero lavorare come produttore. Quindi non è stata una cosa programmata, è successo: ad un certo punto mi sono reso conto che era diventato il mio lavoro. Avevo interrotto gli studi al conservatorio per venire a Milano e aprire Undamento e fare i primi dischi, congelando gli studi visto che era possibile farlo per tre anni, e mi sono detto: ‘Ok, tra tre anni capirò dove sarò, nel caso riprenderò gli studi e cercherò di capire che cosa fare della mia vita’. Mi ricordo che quei tre anni sono scaduti mentre eravamo in tour con Frah (n.d.r. Quintale) e lì mi sono reso conto che avrei fatto decadere gli studi e ho capito che quello del produttore musicale era diventato il mio lavoro. Poi, non è detto che questo rimanga il mio lavoro per tutta la vita. Il futuro non lo possiamo prevedere.
Quanta parte dei tuoi pensieri occupa la situazione di emergenza climatica che stiamo vivendo in questo momento storico?
Io, credo, tanto perché è forse il tema più importante di questo momento storico e come me penso anche tutta la mia generazione. Io, essendo cresciuto qua dove la natura ce l’hai in faccia ogni secondo – non esiste un punto dove tu possa guardare senza vedere la natura -, magari ce l’ho anche più dentro. Di certo, non è facile essere ambientalisti nel 2021 perché ogni cosa ha un impatto. L’importante, secondo me, è avere una mentalità propositiva e farci caso: se è possibile fare anche una minima cosa in più come singolo, bisogna farla. Però, sarebbe necessario anche cambiare la mentalità collettiva per fare in modo che chi ha la possibilità di prendere le decisioni veramente importanti venga spinto in una direzione rispetto a un’altra: questa è azione collettiva. Secondo il mio parere, le azioni individuali possono aiutare, ma fino a un certo punto. Finché non c’è un movimento collettivo che spinge veramente in quella direzione, resta difficile e complicato sovvertire le cose.
Eventi naturali, il format
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