La mattina del 16 gennaio 2023 su Palermo sta cadendo una pioggia battente. Il quartiere San Lorenzo, situato nella parte settentrionale della città, si è appena svegliato e il traffico inizia a riversarsi per strada. Intasa anche le vie che circondano la clinica privata La Maddalena, un vero e proprio faro della sanità in Sicilia. La clinica possiede uno dei più rinomati dipartimenti di cure palliative per malati oncologici del Mezzogiorno, frequentato ogni anno da circa 9mila pazienti.
Ad un certo punto succede l’inimmaginabile. Dalle macchine parcheggiate attorno alla casa di cura cominciano a uscire uomini agitati, festanti: alcuni con indosso la divisa dei Carabinieri, altri in uniforme militare, altri ancora in borghese. Ce n’è persino qualcuno con la testa incappucciata. Si abbracciano. Insieme fanno parte del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, detto Ros, un’unità nata da un reparto che, qui, fu creato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Dopo pochi secondi, il motivo di una gioia tanto incontenibile quanto inspiegabile, si mostra sotto la pioggia battente di Palermo. Dalla clinica, scortato da due agenti, esce un uomo sulla sessantina. Quel poco del volto, che si intuisce da sotto gli occhiali e il berretto, rivela una figura scavata e sofferente. È stato appena catturato Matteo Messina Denaro, il superlatitante boss di Cosa Nostra. Alla gioia degli agenti si unisce quella di chi passa per strada. Uno dei mafiosi più ricercati di sempre, quello che per 30 anni sembrava essersi smaterializzato lasciando nelle mani degli inquirenti soltanto vecchie foto segnaletiche, era lì, nelle mani dello Stato.
Dal tritolo alle mazzette
Matteo Messina Denaro nasce il 26 aprile 1962 a Castelvetrano, in provincia di Trapani. Nella linea di discendenza criminale di Cosa Nostra è considerato tra gli eredi di Totò Riina, arrestato il 15 gennaio 1993. Quasi a 30 esatti dalla cattura del boss trapanese. Nel corso della sua carriera criminale, Messina Denaro incarna il volto più feroce, cinico e stragista della mala siciliana, testimoniato dal suo coinvolgimento in decine di omicidi. Tra questi, anche quello del 12enne Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido dopo un sequestro durato oltre due anni perché figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo.
Allo stesso tempo, però, con Messina Denaro la mafia prosegue quel processo di trasformazione iniziato con Bernardo Provenzano, che prese in mano la gestione di Cosa Nostra dopo l’arresto di Riina. Fino a quest’ultimo, infatti, il sangue e solo il sangue aveva rappresentato lo strumento principale per assicurarsi soldi e potere. Messina Denaro intuisce che la mafia, per continuare a prosperare, aveva la necessità di mimetizzarsi, di fare meno rumore, e per farlo doveva assumere una dimensione imprenditoriale. Le mazzette dovevano sostituire il tritolo. Ne scaturì una metamorfosi che coinvolse tutta la criminalità organizzata, permettendo alla famiglia Messina Denaro di ritagliarsi un ruolo di preminenza assoluta.
Per finanziare la sua latitanza, iniziata nel 1993, il boss poté contare su una fitta rete di conoscenti a cui veniva affidato il compito di reinvestire i proventi mafiosi in ogni settore, costruendo una struttura finanziaria delle dimensioni di una holding. Negli anni, arrivò a includere parchi eolici, villaggi turistici, imprese edili e supermercati. Un impero che, secondo le stime dell’associazione Libera, ammonta a circa quattro miliardi di euro senza contare il patrimonio ancora occulto del boss.
Chi è oggi Matteo Messina Denaro?
Ma torniamo a oggi, o meglio, al 16 gennaio, giorno della cattura. Chi è ora Matteo Messina Denaro e perché un uomo che sembrava semplicemente “evaporato” e che per trent’anni era riuscito a eludere lo Stato è stato fermato senza opporre resistenza a pochi chilometri dai luoghi delle stragi che aveva contribuito a organizzare?
Messina Denaro è stato catturato alla clinica La Maddalena perché lì si era recato per ricevere cure oncologiche. Si sottoponeva a sedute di chemioterapia da oltre un anno sotto il falso nome di Andrea Bonafede, cinquantanovenne affiliato e factotum nella latitanza del capomafia, che verrà arrestato con l’accusa di associazione mafiosa qualche giorno più tardi a Campobello di Mazara, nel Trapanese. Proprio a Campobello i Carabinieri scoprono, nel raggio di poche centinaia di metri, tre alloggi di cui un bunker ricavato all’interno di un armadio in cui il boss avrebbe trascorso la sua latitanza.
“I boss non si allontanano mai dai propri territori per non perdere potere”
è l’adagio che, in quei giorni, va ripetendosi in televisione e sui giornali. Ma se è vero che, paradossalmente, la latitanza permette a un mafioso di consolidare il proprio controllo territoriale, diventando, come lo ha definito il giornalista Giovanni Bianconi, una sorta di “visibilissima invisibilità”, è altrettanto vero che è altamente improbabile che in 30 anni, nessuno abbia cercato di andare a fondo proprio a Campobello di Mazara.
La contropartita
E qui veniamo al grande interrogativo che ha popolato i mezzi di informazione già poche ore dopo l’arresto. La voce più chiara e forte in tal senso è quella di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, che ai toni trionfalistici che pullulavano in quelle ore ha contrapposto una lettura più prudente, che mette a fuoco l’arresto di Messina Denaro più come una consegna del boss alle autorità che una cattura. Sempre secondo Borsellino alla base di tale operazione, che riaprirebbe dopo molti anni il capitolo della cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia, ci sarebbero innanzitutto le condizioni di salute del boss che, quasi condannato dal cancro avrebbe accettato di consegnarsi in cambio di qualche contropartita.
Che cos’è l’ ergastolo ostativo
Una di queste, potrebbe essere l’abolizione dell’ergastolo ostativo, un tipo di pena detentiva particolarmente dura e comminata principalmente a mafiosi e terroristi. Rispetto a un “normale” ergastolo, toglie alla persona condannata ogni possibilità di ambire a misure alternative di detenzione, come la semilibertà o la detenzione domiciliare. Anche benefici come i permessi premio o la possibilità di lavorare al di fuori del carcere non sono contemplati. Ma soprattutto, l’ergastolo ostativo è una pena che non può essere convertita in una condanna con un termine fatto salvo il caso in cui ci si decida di collaborare con la giustizia. Il più dolente nervo scoperto della mafia sono i pentiti. E questo la mafia, ovviamente, lo sa.
Il “regalino”
La tesi di una presunta riapertura della “trattativa”, si è presa in pochissimo tempo tutti i palcoscenici televisivi. Un’intervista realizzata a novembre dal giornalista Massimo Giletti a Salvatore Baiardo, uomo che fu vicino ai boss Filippo e Giuseppe Graviano, ha alimentato molte congetture a riguardo. Baiardo, che in passato aveva coperto la latitanza nel nord Italia dei Graviano, ha fatto numerose insinuazioni su un possibile “regalino” che la mafia avrebbe fatto allo Stato qualora il governo avesse abrogato l’ergastolo ostativo.
È importante precisare che le dichiarazioni di Baiardo erano state volutamente sibilline, criptiche e prive di qualunque prova concreta. Resta il fatto che l’uomo aveva tirato in ballo proprio Messina Denaro come offerta della mafia allo Stato (citando le sue condizioni di salute), mentre l’abrogazione dell’ostativo avrebbe, secondo questo racconto, permesso proprio ai Graviano di ottenere permessi premio per uscire dal carcere.
Riformare l’ergastolo ostativo
In quei giorni si stava discutendo molto della riforma dell’ergastolo ostativo, dopo che ad aprile 2021 la Corte costituzionale l’aveva ritenuta incostituzionale e aveva dato al governo di allora un anno di tempo per approvare una legge in linea con il dettato della Carta. Tuttavia, quel progetto di riforma non riuscì mai a trovare l’approvazione del Senato, e così la questione si è ripresentata con l’insediamento del nuovo governo.
Nel primo Consiglio dei ministri del governo Meloni a fine ottobre, venne approvato un decreto-legge successivamente modificato dal Parlamento, che ha introdotto la possibilità per i detenuti di accedere ai “benefici penitenziari” anche senza aver collaborato con la giustizia, in base alle valutazioni del giudice su ciascun caso specifico. La nuova legge voluta dal governo Meloni è attualmente ai tavoli dei giudici della Corte di Cassazione insieme al faldone sul caso di Salvatore Pezzino, detenuto ergastolano ostativo non collaborante, che aveva chiesto l’accesso alla condizionale ben due anni fa, dando inizio ai rimpalli giudiziari appena citati. Questo è dunque il discorso che, secondo alcuni, terrebbe insieme l’arresto del boss trapanese con la riforma di uno dei più severi istituti giuridici in forza allo Stato nel punire i cosiddetti “uomini d’onore”.
“Le indagini cominciano ora, dopo l’arresto di Messina Denaro”
Intanto, si allunga la lista dei fiancheggiatori vicinissimi a Messina Denaro che sono finito sotto indagine. Gli ultimi sono i fratelli Vincenzo e Antonio Luppino, figli di Giovanni, l’uomo che aveva accompagnato il boss alla clinica prima di essere anch’egli arrestato. Ospite ad una trasmissione televisiva, il giudice Nino Di Matteo ha detto: “Le indagini cominciano ora, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro”.
Se colui che contribuì a traghettare un intero apparato criminale da uno stragismo che reclamava l’onnipotenza del sangue ad una ramificazione territoriale molto più subdola e chirurgica, basata su una rete protettiva fatta di notabili, professionisti e politici, decidesse in maniera inaspettata di collaborare, la lotta alla mafia avrebbe un’occasione che aspettava da trent’anni. Lo stesso potrebbe avvenire se le indagini dovessero rivelare qualcosa di sconosciuto, qualcosa che ci aiuti ad aggiungere tasselli al mosaico del rapporto tra lo Stato e Cosa Nostra e che fino ad ora, nelle abitazioni del boss, sembrerebbe non esserci.
Si dice che da qualche parte Matteo Messina Denaro, pupillo di Totò Riina insieme a Giuseppe Graviano, dovrebbe conservare il famoso “papello”, ovvero il documento nel quale si presume siano trascritti i termini della trattativa. Lo stesso che non venne trovato nell’ultima residenza del “Capo dei Capi”, perquisita con molti giorni di ritardo per motivi mai precisati. Se uno di questi scenari dovesse avverarsi, lo Stato avrebbe l’occasione di scagliare un’offensiva poderosa alla criminalità organizzata. E non è detto che quella stessa offensiva si dirigerebbe fatalmente anche contro uomini o apparati dello Stato colpendo quello che, oggi, striscia ancora silenzioso sotto lamiere ormai raffreddate degli attentati.