Dalla riforma della Corte costituzionale ai continui attacchi contro la libertà e il pluralismo dell’informazione, passando per l’indebolimento dell’indipendenza complessiva del sistema giudiziario, la minimizzazione della crisi climatica con il sostegno alle fonti fossili, la legge che vieta i contenuti Lgbtq+ ai minori, l’equiparazione dell’omosessualità alla pedofilia e la chiusura nei confronti dei migranti. Viktor Orbán da dodici anni sta plasmando l’architettura istituzionale del suo paese sulla propria immagine. Fondando le proprie scelte su un populismo di matrice ultraconservatrice e su una “via ungherese”. Uno “stile” proprio: un approccio politico che punta a contrapporre la popolazione a presunti poteri forti politici, economici e dei mezzi d’informazione.
La dittatura elettorale di Viktor Orbán e la tirannia delle passioni
In questo modo Orbán è riuscito ad ergersi a paladino dei diritti di un popolo “incompreso” e contrapposto a tutti. Compresi i corpi intermedi che dovrebbero costituire il collante del contratto sociale di una nazione: i sindacati, le associazioni di categoria, gli stessi partiti politici. Un tentativo che, di fatto, non è riuscito a Donald Trump negli Stati Uniti, e solo in parte a Jair Bolsonaro in Brasile. E che sognano di poter replicare Marine Le Pen in Francia, il Partito della libertà in Olanda, l’AfD in Germania, Vox in Spagna, l’Fpö in Austria, la Lega in Italia.
L’esercizio della democrazia di Orbán è centrato – di fatto – sulla sua limitazione (benché lui contesti totalmente tale affermazione, dichiarando di voler soltanto imporre un nuovo modello di governo). Una dissociazione delle libertà politiche e i diritti civili, da una parte, dalla stessa vita democratica del paese. Già nel 2018 il filosofo Luuk van Middelaar definiva tale approccio come l’emergere di una “dittatura elettorale”. Nella quale la libertà di stampa o quelle di associarsi rappresentano una facciata utile per nascondere la crescente difficoltà nel contrapporsi realmente al potere.
La questione dei migranti e il referendum del 2016
Al contempo, ciò che Orbán tenta di fare è di superare via via la democrazia rappresentativa per privilegiare quella diretta. Una sorta di “tirannia delle passioni”. Figlia appunto dell’emotività pubblica anziché della lungimiranza istituzionale. La gestione dei migranti ne ha rappresentato un chiaro esempio: situata in pieno sulla “rotta dei Balcani”, l’Ungheria ha da subito chiuso le frontiere e imposto ai richiedenti asilo condizioni che le Nazioni Unite hanno denunciato come deplorevoli.
Nel 2016, Orbán ha perfino indetto un referendum per far approvare dagli elettori il rifiuto del piano di ripartizione del flusso di migranti proposto dall’Unione europea. Il 98 per cento dei partecipanti disse no. Un plebiscito solo parziale, però, poiché a recarsi alle urne fu soltanto il 44 per cento degli elettori, il che impedì di convalidare il risultato.
L’asse con Putin, la solidità politica, l’attenzione spasmodica alla narrativa
Ma la solidità politica del leader di Budapest non è stata scalfita. La retorica di un’Europa “che domani potrebbe cessare di essere il continente degli europei” ha continuato a fare presa sulla popolazione. Lo scrutinio di domenica ne rappresenta l’ultima prova tangibile. Anche perché ottenuta nonostante la vicinanza politica con Vladimir Putin, che ha ordinato l’invasione dell’Ucraina (con Orbán che non ha rinnegato l’amicizia con il leader del Cremlino e ha impedito il transito di armi attraverso l’Ungheria).
I media, quasi tutti filo-governativi, hanno raccontato la scelta come il modo migliore per tenere la nazione europea fuori dal conflitto. Una strategia elettorale che ha pagato, assieme a quella di sostenere il potere d’acquisto della popolazione, congelando i prezzi di alcuni beni, carburanti inclusi. Orbán, in fin dei conti, è questo: populismo contingente, erosione inesorabile delle libertà democratiche e attenzione spasmodica alla narrativa. La risposta più “di pancia” – e più pericolosa – al susseguirsi delle crisi finanziarie, economiche, geopolitiche, climatica e sanitaria degli ultimi quindici anni.
La relazione di Strasburgo condanna l’Ungheria per violazione dello stato di diritto. Una misura per ora politica, che potrebbe estendersi ai fondi europei.
L’orso M57 è stato deportato in uno zoo-safari ungherese con una decisione inattesa. Un provvedimento che, di nuovo, non rispetta il benessere animale.
Il presidente dell’Ungheria Viktor Orbán continua la sua crociata contro il mondo Lgbtq+, con una normativa che tra le altre cose equipara l’omosessualità alla pedofilia.
L’autorità governativa dei media ungherese revoca la frequenza all’emittente privata Klubradio. Critiche dall’Europa: “Violata la libertà d’espressione”.