Vincent Moon, ‘Híbridos’. Il sacro e i rituali sono ovunque

Il regista francese Vincent Moon torna alle origini della musica, documentando il sacro e i rituali trance in Brasile con la compagna di avventure Priscilla Telmon. L’intervista al Milano Film Festival.

Viaggiare zaino in spalla soltanto con un portatile, una telecamera e un microfono per rappresentare il mondo più nascosto in modo sperimentale. È quello che da dieci anni fa il videomaker Vincent Moon, alla ricerca del battito primordiale in ogni angolo del pianeta.

La curiosità e un approccio alternativo alla vita spingono inizialmente Moon a lanciare La Blogothéque, un sito dedicato alla musica indipendente che racconta gli artisti in un’ottica lontana dai cliché. I suoi video per la serie Take Away Show, che riprende i musicisti in contesti intimi, sono condivisi gratuitamente su internet e visti da milioni di utenti: i Grizzly Bear in una doccia, i Sigur Rós in un caffè parigino, i Phoenix nella Torre Eiffel, Tom Jones nella sua stanza d’albergo a New York, gli Arcade Fire in un ascensore, i Beirut tra le scale di Brooklyn, i R.E.M. in macchina, i National a tavola, Bon Iver in un appartamento di Montmartre.

Ma dopo un po’ sente il bisogno di cambiare, viaggiare, scoprire nuova musica nelle zone più remote della Terra. Vuole creare un cinema nomadico, per unire le nuove tecnologie alla strada, per riuscire a montare i suoi filmati on the road. E in cinque anni di viaggi avvia l’etichetta digitale di film e musica Petites Planètes, in omaggio al regista francese Chris Marker.

Come mostriamo il mondo cambia il modo in cui lo osserviamo”, aveva spiegato lo scorso anno al TED di Rio de Janeiro. “Viviamo in un momento mediatico terribile, dove fanno vedere solo violenza, estremismi, eventi spettacolari, semplificazioni della vita di tutti i giorni. Con i miei film voglio far riemergere la complessità. Per reinventare la vita di oggi, dobbiamo creare nuove forme visive”.

In un’epoca satura di immagini, Moon pensa quindi di tornare alle origini della musica. Vuole capire da dove viene, per avvicinarsi con la sua piccola telecamera. Poiché all’inizio tutto era sacro e la musica era guarigione spirituale, il regista cerca con il trans-cinema di entrare in completa sintonia con le tribù indigene, i sufi, i popoli dimenticati. La sua ricerca sul sacro nel mondo dopo l’Indonesia, l’Armenia, l’Etiopia e la Cecenia, lo porta in Brasile. È qui che coglie e registra le nuove spiritualità.

Abbiamo incontrato Vincent Moon più volte, l’ultima in occasione del Milano Film Festival 2017 in compagnia della moglie e documentarista Priscilla Telmon. Vincent e Priscilla ci hanno parlato di ‘Híbridos, the Spirits of Brazil’, il loro progetto etnografico sperimentale sul sacro in Brasile, la vera anima del Paese sudamericano che li ha tenuti impegnati per tre anni a registrare oltre sessanta cerimonie spirituali diverse, e a raccontare l’invisibile.

Vincent e Priscilla con telecamera e microfono
Vincent Moon e Priscilla Telmon, coppia nel lavoro e nella vita

Vincent, sei in viaggio da dieci anni. Come ti senti a vivere da “nomade”, senza mettere le radici in un posto solo?
V. M. – È solo un ciclo della mia vita, probabilmente mi fermerò l’anno prossimo per mettere su famiglia con Priscilla. Il nomadismo odierno, tuttavia, è un fenomeno piuttosto nuovo e rende il nostro un pianeta differente, con un altro tipo di società. In passato le persone appartenenti a tribù nomadi non avevano la possibilità di viaggiare così velocemente, in tanti posti diversi, e di vivere insieme come noi adesso. Credo sia un bel privilegio da esplorare, anche se non mi sento cresciuto in una società privilegiata – quella dell’Europa occidentale – dal punto di vista culturale e della comunità. Paesi più poveri hanno un senso della comunità molto più forte del nostro. Bisogna capire che tutti noi abbiamo qualcosa da dare agli altri, ma anche gli altri hanno qualcosa che ci completa. Viviamo in un’epoca interessante, dove emergono nuove forme di coscienza e in cui non si replicano i modelli di vita di un tempo.

Invece che mettere le radici in un posto solo, possiamo piantare i semi in posti diversi. E i semi, a un certo punto, creeranno le radici, anche quando il nostro corpo non sarà più lì. Mi piace l’idea di evolvere con diverse comunità, di sviluppare una forma di identità complessa e multiforme, anche se è difficile da descrivere. A fine giornata quel che conta è quanto ci comunica il corpo, non il cervello. Quest’ultimo è solo un’antenna, cui abbiamo dato troppa enfasi, mentre per me è più importante come ci muoviamo. Specie quando viaggiamo così tanto e velocemente, incontriamo continuamente persone, siamo bombardati dalle informazioni. Dobbiamo riconnetterci al nostro corpo, e solo spostandoci da un luogo a un altro impariamo a muoverci meglio. In questo modo il nostro organismo sviluppa delle capacità che neanche vediamo.

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Hai già documentato i rituali di musica e danza spirituale di vari Paesi, dalla Cecenia all’Indonesia passando per il Perù, l’Armenia e l’Etiopia. Come mai negli ultimi tre anni, con Priscilla, ti sei soffermato sul tema del sacro in Brasile?
V. M. – Ho iniziato lavorando nel mondo della musica pop-rock, contesto in cui sono cresciuto. Ma poco alla volta mi sono mosso per una ragione specifica: la mia ricerca personale sull’ibrido tra cinema e musica. Ho iniziato a viaggiare e continuato a filmare, ma i soggetti questa volta erano le persone che incontravo nei vari Paesi. In quei posti ho scoperto una nuova relazione con la musica, che non era suonata su qualche palco, né registrata e neppure in vendita. Tutte sovrastrutture create nella nostra storia recente. Da dove viene veramente la musica? Dalla strada. È lì che mi sono diretto ed è lì che a un certo punto ho incontrato il sacro. Perché è dal sacro che nasce la musica. Le prime volte che ho partecipato a rituali trance sono rimasto letteralmente a bocca aperta. La musica era a un livello molto superiore. Non sei là per goderti uno spettacolo, per dire se è bello o brutto, se è migliore di quello visto il giorno prima. Non esiste alcuna scala gerarchica in relazione alla creazione. Tu stesso fai parte della creazione, la tua presenza nello spazio in cui si svolge il rituale influenza l’insieme in modo lampante. Nei rituali sufi in Cecenia, come in quelli ortodossi in Etiopia, non solo la musica era incredibile, ben diversa da quella che ascoltavo quando stavo a Parigi, ma mi insegnava qualcosa di nuovo sulla vita. Così ho deciso di approfondire il tema e pian piano sono finito in Brasile.

P. T. – Io arrivo dal mondo della fotografia, dei reportage, dei viaggi avventurosi, su cui ho scritto libri e articoli, partecipato a conferenze e realizzato film. Mi sono interessata sempre più alla ricerca etnografica e antropologica fino al sacro, all’invisibile e a come se ne possa parlare in modo visibile. Quando ho incontrato Vincent a Parigi, cinque anni fa, entrambi avevamo l’obiettivo di esplorare la celebrazione del sacro nel mondo. Quale miglior Paese se non il Brasile? È uno straordinario laboratorio di culture, dove convive una trinità di persone indigene, africane ed europee che produce un grande miscuglio, e questo porta a un sincretismo molto affascinante. Dallo sciamanesimo nelle foreste con le popolazioni indigene ai culti afrobrasiliani e cattolici, è un mix che offre infinite possibilità di ricerca del mistero, dell’invisibile, del magico.

Qual è il punto di partenza per un progetto etnografico come Híbridos o altri a cui avete lavorato in passato? Come avviene il contatto con la comunità locale?
V. M. – È diverso di volta in volta. È una questione di sincronicità, per cui capita di parlare con una persona, questa ti porta da un’altra persona e così via. Lascio sempre la porta aperta agli errori, ai flussi, alle correnti e agli spiriti. Viaggio solo con uno zaino in spalla, con dentro computer, videocamera e microfono. Incontro la gente locale sul posto, non professionisti, e gli propongo di ospitarmi per la notte in cambio di un momento di cinema. In Perù avevo un unico contatto telefonico. Dopo tre mesi che ero lì, avevo registrato 33 film. Solo con l’aiuto della gente del luogo, a cui rivolgevo sempre la stessa domanda: cosa è importante registrare qui oggi? In Cecenia mi chiesero perché stavo lì, se ero un giornalista o un politico. Risposi che facevo ricerca sui rituali sufi, molto diffusi nella regione eppure da noi quasi completamente sconosciuti. Volevo rappresentarli per mostrargli la bellezza di quei fenomeni, per far vedere i filmati ai loro giovani, per sentire esclamare i nipoti che i propri nonni erano cool tanto quanto Beyoncé. Questo è molto importante perché solo così le persone riescono a guardare in modo diverso la propria cultura, la propria terra, magari per conservare certe diversità. Siamo andati in Brasile per sperimentare un nuovo modo di stare insieme, che ci lega tutti, per raccontare una vasta parte di culti e cerimoniali trance non solo perché è un Paese ricchissimo di culture, ma anche perché il fenomeno dei rituali si sta espendendo negli ultimi anni. Capire la storia di un Paese attraverso alcune delle espressioni umane più antiche, capire come queste siano emerse e stiano tuttora diffondendosi è davvero stimolante. Abbiamo documentato i rituali dopo aver capito quanto siano importanti, ma anche cosa significhino la spiritualità e la trascendenza.

P. T. – Non è una questione di credere o meno a una religione, ma di provare su se stessi, sperimentare col proprio corpo lo stato di trance, capire perché le persone cominciano a danzare quando i loro spiriti si animano. Ognuno di noi possiede molte qualità che non usa, perché la nostra società non ce lo insegna.

Qual è la parte più difficile del lavoro?
V. M. –  Senza dubbio il tempo speso con le tecnologie davanti al computer per organizzare i moltissimi dati raccolti, montare le registrazioni e condividere i file in rete. Tutto questo cercando di uscire fuori dall’idea stereotipata del Brasile, che non è solo futebol e favelas ma molto più complesso di così. Senza semplificare, pretendere di insegnare, dimostrare qualcosa o convincere, vogliamo – come dicevo prima – piantare semi. Con i mezzi a disposizione come lungometraggi, performance dal vivo, installazioni e un ampio sito web, cerchiamo di proporre ai visitatori un minimo grado di responsabilità su cosa vedere e conoscere, potendo immergersi nel progetto a vari livelli di approfondimento a seconda della propria sensibilità.

Non si corre il rischio di filtrare, se non distorcere, altre culture attraverso il nostro sguardo?
P. T. – Si tratta solo di condividere. Siamo francesi e bianchi, d’accordo, ma in uno stato di trance durante un culto candomblè non esistono confini geografici, siamo tutti uguali. Abbiamo conosciuto una fantastica donna francese, la moglie di un console, che curava un terreiro, il tempio dove avvengono le cerimonie. Si è fatta prendere dal suo spirito, e non era minimamente preparata. Non voleva vivere quella esperienza, ma è successo, e ha deciso di restare in Brasile.

V. M. – Viviamo in una società fissata sull’identità politica, che ama la storia per raccontare i fatti, spiegare i conflitti, mostrare le differenze. Ma se andiamo veramente a fondo e indietro nel tempo, dovremmo ricordarci che proveniamo tutti dallo stesso posto, dalla polvere di stelle. I nostri corpi sono in parte composti della stessa materia di cui sono fatte le stelle, non è incredibile? Quindi di fatto anche noi siamo indigeni, o lo siamo stati in una delle vite passate. Tra l’altro moltissime società del nostro pianeta integrano l’idea dello spirito e della reincarnazione. Quella occidentale, invece, se ne è tenuta distante per parecchio tempo. Se penso alla Francia, nel 1800 c’è stato Allan Kardec che sviluppò una teoria scientifica sullo spirito. Nel cimitero di Pere-Lachaise a Parigi, dove è sepolto, la sua effigie riporta una frase sulla reincarnazione. Per cui se mi dicono che non posso capire gli indigeni in quanto io non sono indigeno, rispondo che invece lo sono anch’io, lo siamo tutti. È la prima cosa che mi ha spiegato un membro della tribù dei Dakota, in Nord America.

Vincent Moon live cinema al festival di musica spirituale Fes in Marocco
Vincent Moon e Priscilla Telmon live a Fès in Marocco © Omar Chennafi e Ramin Krause

Quale forma artistica si avvicina di più all’invisibile?
V. M. – Tutto parte dalla musica, dalle vibrazioni, dall’energia trasmessa nello spazio, dal corpo che danza. Il cinema invece, in particolare la fiction, non è in grado di connettere il pubblico all’invisibile. Noi cerchiamo di usare le immagini in modo sperimentale, non per raccontare storie, ma per aprire porte a chi le guarda. Le reazioni al progetto Híbridos sono diverse, in genere migliori da chi non ha aspettative, preconcetti o condizionamenti ed è in grado di costruirsi un’esperienza personale durante la visione. Al Barbican di Londra abbiamo lavorato a un’installazione con immagini di rituali che si ripetono 24 ore su 24 per tre mesi. Non c’è un inizio e una fine, ognuno può arrivare e andarsene quando vuole, carpendo sensazioni o emozioni in modo soggettivo.

State forse ricercando il battito primordiale in un mondo sempre più iperconnesso?
V. M. – Documentiamo, registriamo e archiviamo queste esperienze per riportarle al presente, in un modo che ci consenta di riavvicinarci alle origini o al battito primordiale, al cosmo e in definitiva all’unità. Siamo alla ricerca del perfetto equilibrio, che è davvero delicato, tra unità e diversità. A volte è difficile mettere insieme le cose e parlare di unità senza essere accusati di negare le identità.

È per questo Vincent che sei stato paragonato ad Alan Lomax?
V. M. – Lomax ha vissuto in tempi completamente diversi, dove non esistevano tutte le possibilità di registrazione che ci sono oggi. Noi viviamo in un mondo costantemente registrato, dove l’impatto delle immagini è enorme ed è in grado di cambiare la realtà.

Il sovraccarico di immagini e informazioni può addirittura minare la sopravvivenza di intere tribù, come successo di recente in Amazzonia.
V. M. – Una grande fetta di umanità sparirà, questo è certo, sta già avvenendo. Ma in realtà io sono convinto che le tribù non scompariranno del tutto, nonostante l’uomo. Almeno finché la conoscenza verrà tramandata da persona a persona. Noi in un certo senso cerchiamo di aiutare loro a diffondere questa conoscenza. Ma gli indigeni sono molto più intelligenti di quel che pensiamo. Conosco sciamani – di cui non posso fare il nome perché in certi Paesi la pratica è illegale – che fanno rituali in giro per il mondo, insegnano, aprono coscienze, si espandono. Se raggiungi una tribù remota non si sorprendono, sanno già che tu stai arrivando. Quando pensiamo all’estinzione dell’uomo, loro ci sono già passati attraverso i genocidi. A differenza nostra, hanno già imparato ad adattarsi, a lottare, a sopravvivere.

Forse perché hanno anche un rapporto diverso con il pianeta, lo rispettano.
P. T. – Infatti sono molto più avanti di noi in termini di connessione, interazione e interdipendeza con la natura. Pensa ai recenti studi scientifici sui collegamenti degli alberi tramite le radici: quando lo raccontiamo agli indigeni si mettono a ridere, perché loro lo sanno da generazioni. È quantomeno curioso come noi abbiamo sempre bisogno di prove scientifiche per dimostrare cose che in realtà altri hanno sempre saputo. Pensa anche agli studi sull’impatto della meditazione trascendentale su corpo, mente e vita quotidiana, una forma di conoscenza che i monaci buddisti si tramandano da secoli.

Avete già in mente progetti futuri?
V. M. – Lavoreremo su progetti più corti e un po’ folli, coinvolgendo i soggetti dei rituali a esibirsi dal vivo con noi, portando il sacro sul palco. L’abbiamo già sperimentato al festival sulle musiche sacre di Fès in Marocco ed è stato pazzesco, con il pubblico in stato di trance. Lo rifaremo a gennaio e febbraio in India con gruppi di sufi sul palco, cercando di far vedere che il sacro e il rituale sono ovunque, mentre il profano non esiste.

Immagine di copertina: Performance di Vincent Moon e Priscilla Telmon a San Paolo di Brasile, 2016 © Felipe Gabriel

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