Dall’ecoansia a sensazioni positive di unione con la Terra. Conoscere le “ecoemozioni” ci aiuta a capire il nostro rapporto con ciò che ci circonda e come trasformarle in azione.
Chi sono i vincitori del Goldman environmental prize 2023: le loro storie e le loro battaglie ambientali
Il Goldman environmental prize premia le persone capaci di compiere azioni straordinarie per il pianeta. Scopriamo i vincitori e le vincitrici del 2023.
Zafer Kizilkaya, Alessandra Korap Munduruku, Chilekwa Mumba, Tero Mustonen, Delima Silalahi, Diane Wilson. Probabilmente, a molti di noi, questi nomi di primo acchito non dicono molto. Eppure, le loro storie straordinarie meritano di essere conosciute e raccontate. Perché sono stati loro a meritare il Goldman environmental prize 2023, ribattezzato il “premio Nobel per l’ambiente”.
I sei vincitori del Goldman environmental prize 2023
- Zafer Kizilkaya, Turchia
- Alessandra Korap Munduruku, Brasile
- Chilekwa Mumba, Zambia
- Tero Mustonen, Finlandia
- Delima Silalahi, Indonesia
- Diane Wilson, Stati Uniti
Zafer Kizilkaya, Turchia
La costa turchese, cioè il tratto di mare compreso nelle due province turche di Antalya e Muğla, è nota per le sue meraviglie naturalistiche. Negli ultimi decenni, però, la pesca intensiva (anche illegale) ha decimato la popolazione di pesci, lasciando come eredità le reti fantasma, abbandonate e pericolosissime per gli animali marini. Nel frattempo, le specie aliene invasive sono arrivate attraverso il canale di Suez e hanno scombinato l’equilibrio dell’ecosistema.
Zafer Kizilkaya, ingegnere civile cresciuto ad Ankara, fin da giovane si è innamorato del mare per i documentari di Jacques Cousteau. Si è quindi formato come sub, fotografo subacqueo e ricercatore marino. Tornato da diversi anni in Indonesia, ha deciso di fare qualcosa per salvare il mare della sua Turchia. Nel 2012 ha fondato Akdeniz koruma dernği (Società per la conservazione del Mediterraneo) e, collaborando con i pescatori locali, ha contribuito a istituire la prima area marina protetta gestita dalla comunità, a Gökova Bay.
Il successo di questo primo esperimento lo ha convinto a rivolgersi alle istituzioni per chiedere di allargare la rete di aree marine protette. Ci è voluto un lunghissimo percorso fatto di raccolta dati, monitoraggi, visite istituzionali, burocrazia. Sempre fianco a fianco con le cooperative di pescatori. Ad agosto 2020 il governo turco ha annunciato l’espansione della rete di aree marine protette nella costa turchese: 350 chilometri quadrati in più con divieto di pesca a strascico e con reti a circuizione e 70 chilometri quadrati in più con divieto totale di pesca.
Alessandra Korap Munduruku, Brasile
Non è un mistero che la deforestazione in Amazzonia sia aumentata a livelli allarmanti durante l’amministrazione di Jair Bolsonaro. E non è un mistero che le miniere, da sole, abbiano contribuito a distruggere 12mila chilometri quadrati di foreste tra il 2005 e il 2015. Nel territorio indigeno Sawré Muybu, nello stato del Pará, vivono alcune comunità indigene Munduruku. In assenza di un riconoscimento ufficiale da parte del governo, però, le società minerarie l’hanno preso di mira depositando 97 richieste di concessioni nell’arco di un decennio. Tutto questo mentre i garimpeiros (cercatori d’oro illegali) già avvelenano le acque con il mercurio.
Alessandra Korap Munduruku, dopo aver lavorato come insegnante, ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alle azioni di tutela del proprio territorio. Vincendo forti resistenze culturali, è diventata la prima donna a presiedere l’associazione degli indigeni Pariri.
Quando ha saputo che il colosso minerario Anglo American, da solo, aveva presentato decine di richieste per le operazioni estrattive, Alessandra Korap Munduruku ha organizzato una campagna di comunicazione, raccolta fondi, attivismo e monitoraggio del territorio. A dicembre 2020 45 capi indigeni e 200 partecipanti, riuniti in assemblea, hanno pubblicato una dichiarazione formale contro le estrazioni minerarie e la deforestazione in Amazzonia. Alessandra Korap Munduruku è anche rivolta direttamente ad Anglo American, insieme alla ong Amazon watch e all’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib). Questa pressione ha convinto l’azienda a cambiare rotta, ritirando 27 concessioni minerarie – già approvate – nelle terre indigene.
Chilekwa Mumba, Zambia
Le miniere di rame sono un pilastro dell’economia dello Zambia. Quella gestita da Kcm (Konkola copper mines) a Nchanga, nei pressi della città di Chingola, è la seconda più grande al mondo. Da quando la britannica Vedanta resorces ha acquisito le quote di maggioranza dell’azienda, i residenti di quattro villaggi hanno notato che le acque del fiume Kafue, nei pressi della miniera, assumevano colori innaturali ed emettevano odori disgustosi. Sulle sponde, distese di pesci morti. Ben presto è arrivata la conferma: l’acqua, la stessa su cui la popolazione faceva affidamento per bere, irrigare i campi, lavarsi e dare da bere agli animali, era contaminata. Le prime azioni legali si sono concluse con un nulla di fatto.
Chilekwa Mumba, cresciuto a Chingola, non si è arreso a questo primo insuccesso. Ha convinto i legali dello studio britannico Leigh Day a fare causa a Vedanta nel Regno Unito. Prima di allora, nessuna società britannica era mai stata ritenuta responsabile dei danni ambientali commessi da una sua controllata. Chilekwa Mumba non si è limitato a dare l’incarico, ma ha organizzato incontri con la popolazione, tradotto materiale informativo, raccolto informazioni e campioni di acqua, convinto gli abitanti a testimoniare o a mettere a disposizione delle prove.
Questa battaglia legale, iniziata nel 2013, è arrivata nel 2019 alla Corte suprema. Quest’ultima ha decretato che Vedanta aveva un dovere di diligenza nei confronti degli abitanti Chingola e quindi risultava imputabile. Una pronuncia che costituisce un precedente. Nel 2021 l’azienda ha siglato un patteggiamento con circa 2mila cittadini dello Zambia, offrendo loro un risarcimento. Nel frattempo, il governo dello Zambia ha messo in liquidazione Kcm e non sono più stati segnalati sversamenti e scarichi dalla miniera.
Tero Mustonen, Finlandia
Quando si parla dei serbatoi naturali di CO2, di solito si citano oceani e foreste, dimenticando le torbiere. Queste zone umide sono tanto importanti quanto delicate perché, se vengono scavate o bruciate, rilasciano nell’atmosfera la CO2 che avevano immagazzinato nei secoli. La Finlandia è al primo posto in Europa per la combustione di torbiere: quest’ultima genera meno del 5 per cento dell’energia del paese ma, per contro, riversa in atmosfera 23,8 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Il doppio rispetto al traffico stradale, marittimo e aereo.
Tero Mustonen, docente universitario, è fondatore e presidente della Snowchange cooperative, una rete di associazioni ambientaliste. Dopo aver visto con i suoi occhi la distruzione delle torbiere finlandesi, nel 2018 ha iniziato ad acquistare i territori degradati e intervenire per ripristinarli. Il suo programma di ripristino per le torbiere, basato su una combinazione di antico sapere locale e moderne tecniche scientifiche, è partito da otto siti con un’estensione complessiva di 3,6 chilometri quadrati. Ad aprile del 2022 erano 62, per quasi 350 chilometri quadrati. Per la Finlandia, così come per la Turchia, questo è il primo Goldman environmental prize.
Delima Silalahi, Indonesia
Le foreste primarie dell’Indonesia sono ecosistemi magnifici, gli unici in cui coesistono in natura rinoceronti, oranghi, tigri ed elefanti, e hanno anche un ruolo fondamentale come serbatoi di CO2. Questo sembra non interessare a Toba Pulp Lestari, una società di cellulosa e carta che le ha invase per sostituirle con monocolture intensive di eucalipto, approfittando del fatto che non fossero state formalmente affidare ai popoli indigeni.
Delima Silalahi è un’indigena Batak e fin dalle scuole superiori ha iniziato a collaborare come volontaria con la ong Ksppm, di cui ora è direttrice esecutiva. Da quando nel 2013 una sentenza della corte costituzionale ha dato agli indigeni la possibilità di rivendicare le proprie foreste, Delima Silalahi e i suoi colleghi hanno iniziato a spostarsi di villaggio in villaggio per creare consapevolezza in merito. Cercando di coinvolgere soprattutto le donne, storicamente escluse dai processi decisionali. Nel frattempo, hanno organizzato proteste contro Toba Pulp Lestari e hanno incontrato gli esponenti del ministero dell’Ambiente.
A febbraio 2022, il governo indonesiano ha assegnato l’amministrazione legale di 72 chilometri quadrati di foresta a sei comunità di Tano Batak. Queste ultime si stanno occupando di piantare specie native, per ripristinare l’ecosistema e renderlo più resiliente di fronte alla crisi climatica.
Diane Wilson, Stati Uniti
In uno stato come il Texas, che da solo concentra il 42 per cento della capacità petrolchimica statunitense, uno degli impianti più grandi è quello di Point Confort, gestito da Formosa plastics. Da solo, produce oltre mille miliardi di piccole particelle di plastica al giorno. Particelle che finiscono anche in mare, dove vengono inghiottite da pesci, uccelli, cetacei e tartarughe.
Diane Wilson fa parte di una famiglia di pescatori da quattro generazioni. Era il 1989 quando ha letto alcuni articoli sugli sversamenti di sostanze chimiche nelle vicinanze e ha notato una brusca riduzione nella quantità di gamberi raccolti. Si è messa quindi all’opera, documentando l’impatto ambientale della fabbrica e organizzando azioni di protesta. Formosa plastics ha promesso di azzerare le contaminazioni ma, nei fatti, non è cambiato nulla.
Dopo aver ricevuto una soffiata da un dipendente, nel 2008 Wilson ha concentrato la sua attenzione sui granuli di plastica finiti in mare. Ha identificato i punti di scarico, ha ascoltato segnalazioni anonime, ha esplorato la zona in kayak e a piedi raccogliendo 40 milioni di granuli e realizzando più di 7mila foto e video. Nel 2016 ha citato in giudizio Formosa plastics in un tribunale federale, accusando l’azienda di aver violato il Clean water act. È stata lei, personalmente, a mostrare 2.400 campioni in tribunale. A dicembre 2019 il giudice federale ha condannato Formosa plastics, obbligandola a pagare 50 milioni di dollari e intraprendere misure di riparazione dei danni all’habitat costiero. I soldi del patteggiamento sono serviti a finanziare progetti ambientali ed educativi. Diane Wilson, per sé, non ha voluto nulla.
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