Una donna su tre ha subito violenze fisiche o sessuali. Con contributi dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina, raccontiamo come questa pandemia colpisce ogni angolo del mondo.
L’11 maggio, la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica compie dieci anni. La convenzione del Consiglio d’Europa è il trattato internazionale vincolante di più ampia portata per affrontare questa grave forma di violazione dei diritti umani. La violenza di genere è una piaga che colpisce tutti i paesi e tutte le regioni del mondo, tra cui l’Italia, la Turchia e, come vedremo, l’Africa, l’Asia del Sud e l’America Latina.
La pandemia ombra
Una donna su tre nel mondo è stata vittima di violenze fisiche o sessuali, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Questa situazione si è aggravata a causa della pandemia da coronavirus: il peso della crisi economica e delle restrizioni che hanno costretto molte persone a rimanere a casa per lunghi periodi è stato avvertito dalle donne di tutto il mondo. La situazione è talmente allarmante che UN Women, l’ente delle Nazioni unite che si batte per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne, ha lanciato la campagna Shadow pandemic (“la pandemia ombra”) per sottolineare l’aumento della violenza domestica a livello globale.
Per comprendere le origini del problema, è fondamentale riconoscere i dannosi stereotipi di genereradicati nelle società e nelle culture africane. Come l’idea che le donne debbano sempre sottomettersi agli uomini o che un uomo che picchia la sua compagna lo fa perché la ama. Questa mentalità è particolarmente comune in paesi come il Madagascar, il Mozambico, il Sudafrica, lo Zambia e lo Zimbabwe, ma non solo.
I lockdown imposti da diversi paesi africani per contrastare la diffusione della Covid-19 hanno portato a un aumento dei casi di stupro, crudeltà e violenza contro donne e ragazze intrappolate in casa con familiari violenti, senza la possibilità di denunciarli o sfuggire al pericolo. Le donne che hanno sofferto a causa di queste circostanze hanno avuto difficoltà a denunciare gli abusi perché le organizzazioni che lavorano per fornire loro protezione e supporto sono state spesso classificate come servizi “non essenziali”. A causa delle gravi restrizioni, queste ong non sono state in grado di riportare le violenza alla polizia o di presentare istanze in tribunale.
Un episodio particolarmente orribile avvenuto in Sudafrica durante la pandemia di coronavirus è l’omicidio della 28enne Tshegofatso Pule, il cui corpo è stato trovata appeso a un albero quando la donna era incinta di otto mesi. Il fidanzato Ntuthuko Shoba è stato accusato di aver pianificato l’omicidio e il caso ha scatenato diverse proteste tra i gruppi per i diritti umani in tutto il paese. Un uomo identificato come Mzikayise Malephane è comparso di recente in tribunale a Johannesburg ed è stato condannato a 20 anni di carcere dopo essersi dichiarato colpevole dell’omicidio di Pule. Un documento letto dal suo avvocato afferma che al 31enne erano stati offerti 7mila rand (400 euro) da Shoba, il fidanzato della vittima, per eseguire l’omicidio, ma Melaphane aveva inizialmente rifiutato. Quando poi gli sono stati offerti 7mila rand (4mila euro), ha accettato.
In un altro caso, una bambina di due annisarebbe stata violentata in Sudafrica mentre si trovava in ospedale in un reparto di isolamento per il coronavirus. Secondo quando riportato, la madre avevo portato la bambina in ospedale quando aveva iniziato a manifestare i primi sintomi di Covid-19 e le era stato detto che la figlia doveva essere messa in isolamento.
Inoltre, più di 4mila minorenni sono rimaste incinte durante il periodo di confinamento in Kenya, secondo il governo. Sin dall’inizio della pandemia, nel paese dell’Africa orientale gli operatori sanitari avevano messo in guardia sul rischio di un aumento dei tassi di gravidanze tra adolescenti. Le restrizioni alla circolazione hanno infatti reso più difficile per le ragazze l’accesso ai contraccettivi e ai servizi di pianificazione familiare. Inoltre, il coprifuoco obbligatorio ha intrappolato le ragazze nelle loro case con familiari e vicini violenti.
In tutto il continente africano sono molti gli ostacoli alla giustizia per le vittime sopravvissute alla violenza di genere. Tra questi spiccano una mancanza di fiducia nei sistemi giudiziari e la vittimizzazione secondaria che le donne spesso subiscono per mano della polizia e dei servizi sanitari quando tentano di denunciare le aggressioni.
È ora che i governi africani rafforzino le proprie istituzioni, come la polizia, accusata di respingere in molte occasioni le denunce perché considerate questioni familiari e non crimini. La voce delle donne deve essere rispettata in questo continente, come nel resto del mondo.
Asia del Sud. La giustizia rimandata è giustizia negata
Una società patriarcale unita a una cultura inflessibile e a tradizioni secolari fanno in modo che le donne dell’Asia del Sud siano subalterne agli uomini delle loro famiglie da tempo immemore. I confini creati dagli esseri umani hanno dato nomi e identità ben definiti alle nazioni dell’Asia del Sud, ma non hanno cambiato il destino delle donne che vi abitano, che continuano a subire livelli spaventosi di violenza, abusi sessuali, omicidi e delitti d’onore in questi paesi.
Le donne che denunciano violenze e maltrattamenti e cercano giustizia si ritrovano spesso ad affrontare processi giudiziari sfibranti che si protraggono anche per molti anni. Un classico esempio di giustizia rinviata è il caso dello stupro di una donna da parte di un gruppo di uomini in un autobus a Delhi, la capitale dell’India, nel dicembre del 2012.
Il caso destò l’attenzione di tutto il mondo a causa della sua brutalità. Talmente feroce fu la violenza dei sei uomini che la vittima, soprannominata Nirbhaya, che significa “senza paura“, perse la vita. Dopo un’infinità di appelli e proteste da parte dei mezzi d’informazione e della società civile, quattro accusati sono stati condannati alla pena di morte e impiccati nel 2020, otto anni dopo il brutale stupro, mentre uno degli imputati è stato liberato perché minorenne ai tempi del crimine. Il sesto aggressore si è suicidato in carcere.
“Nirbhaya ha ottenuto giustizia perché la brutalità del crimine ha scatenato una forte reazione a livello nazionale, ma sono contraria alla pena capitale in quanto non considero questa la soluzione giusta”, afferma Aparajita Ganguly, un’assistente sociale di Calcutta che ha passato tredici anni in carcere dopo essere stata falsamente implicata nell’omicidio del marito. “I poveri non ottengono giustizia e spesso i casi non arrivano alla loro conclusione più logica. Spesso gli omicidi di dote vengono spacciati per morti ‘misteriose’. Le molestie e l’assenza di giustizia non sono un problema prettamente indiano: la stessa storia si ripete anche in altri paesi delle regione”.
Nel 2019 in India sono stati registrati in media 87 casi di stupro al giorno e i crimini contro le donne sono aumentati del 7 per cento rispetto al 2018, secondo un rapporto del National crime records bureau pubblicato a settembre dell’anno scorso. E le donne continuano a subire molestie e torture anche in Pakistan, Bangladesh, Nepal e Afghanistan. “L’Asia del Sud ha il più alto tasso di matrimoni precoci al mondo, in questa regione il 46 per cento delle ragazze sono già sposate prima dei 18 anni”, secondo un rapporto della Banca mondiale del 2014.
I delitti d’onore sono comuni in India, dove le donne vengono assassinate anche solo per aver scelto chi sposare, andando contro i matrimoni combinati. Sconvolgono anche le immagini di donne uccise in Afghanistan per avere cercato di sfidare rigidi costumi sociali. Le storie di bambine rapite, violentate e assassinate in Pakistan coprono di vergogna l’umanità intera.
I lockdown hanno portato ulteriori sofferenze per le donne nell’Asia del Sud, poiché molte di loro si sono ritrovate loro malgrado nel mirino della rabbia di compagni e familiari che hanno perso il proprio reddito o i propri mezzi di sussistenza a causa della crisi economica.
“Abbiamo già leggi forti per punire i crimini contro le donne, quello che manca è la volontà di perseguire i colpevoli”, sottolinea Soumitra Karmakar Chakraborty, attivista per i diritti delle donne in India. “Per garantire processi giudiziari rapidi, dovrebbero esistere tribunali dedicati ai casi relativi alle donne. L’azione tempestiva della giustizia può fermare le persone dal commettere tali crimini. Le donne dovrebbero uscire allo scoperto e parlare della loro oppressione senza paura, altrimenti il destino non cambierà”.
America Latina. La pandemia silenziosa di violenze, sparizioni e femminicidi
L’America Latina è la regione con il più alto tasso di violenze sessuali al mondo, secondo l’Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo). Inoltre, i dati delle Nazioni Unite evidenziano come in Argentina, Messico, Colombia e altri paesi della regione la violenza domestica contro le donne sia aumentata drasticamente durante la pandemia, con picchi che raggiungono il 50 per cento in alcune nazioni. In El Salvador, si è addirittura registrato un aumento del 70 per cento delle denunce di violenza di genere.
Nella città di Riberalta, nell’Amazzonia boliviana, vicino al confine con il Brasile, la 31enne Maria (il cui cognome non viene divulgato per la sua protezione) fa parte di un gruppo di madri single. Molte delle donne che ne fanno parte si sono unite dopo avere lasciato i propri compagni, spesso i padri dei loro figli, a causa di violenze domestiche. Questa è la regola e non l’eccezione qui, sottolineano le donne. Maria ricorda la sua relazione violenta con il padre dei suoi quattro figli le violenze sia fisiche che psicologiche che ha subito. In alcuni casi, è dovuta andare in ospedale a causa delle percosse. Una volta, la violenza è stata così feroce da causarle un attacco ischemico transitorio. “E lui mi faceva credere che tutto ciò fosse colpa mia. Per questo sono rimasta con lui per molto tempo”, afferma Maria.
Nel vicino Perù, un numero allarmante di ragazze e donne – quasi 12mila – sono scomparse lo scorso anno. E purtroppo la situazione nel paese riflette quello che accade in tutta l’America Latina.
“La scomparsa di tante donne durante la pandemia è stata osservata in tutta la regione”, afferma Marcela Huaita, professoressa alla Pontificia università cattolica del Perù a Lima ed ex ministra peruviana per le donne e le popolazioni vulnerabili. “È preoccupante che le sparizioni avvengano durante il confinamento: proprio quando queste donne hanno meno possibilità di lasciare le loro case. Dove potrebbero essere finite? Un rischio è che le loro sparizioni siano legate alla tratta di esseri umani. Ma ogni tipo di sparizione è legata alla violenza in generale”.
Quali sono le cause di questo triste primato? Un machismo diffuso e strutturale, che permea tutta la società e le istituzioni. Per questo motivo, ad esempio, alcuni casi di violenza di genere non vengono indagati poiché, in un certo senso, sono accettati a livello culturale.
Nonostante il panorama scoraggiante, c’è comunque speranza per i diritti delle donne e delle ragazze in America Latina grazie al crescente numero di donne che sta facendo sentire la voce. In particolare, la campagna Ni una menos (“non una di meno”) contro i femminicidi è nata in Argentina ma si è allargata in tutto il mondo – anche in Italia – e sempre in Argentina è emerso il movimento dei pañuelos verdes, i “fazzoletti verdi”, che si batte per il diritto all’aborto in una regione dove in molti paesi è illegale. Tra le vittorie più recenti, l’Argentina ha legalizzato l’aborto fino alla quattordicesima settimana di gravidanza, e la Corte costituzionale dell’Ecuador si è espressa a favore della decriminalizzazione dell’aborto nei casi di stupro.
Tornando alla storia di Maria in Bolivia, dopo anni di abusi la donna ha deciso di porre fine alla relazione. “È orribile, spesso ci sentiamo intrappolate nel rapporto con una persona con cui stiamo insieme da quando eravamo molto giovani”, racconta. “Per i miei anni, ho avuto una vita molto triste. Ci sono voluti tredici-quattordici anni per rendermene conto. Non mi pento della mia decisione, che ho preso per me e per il bene dei miei figli. Non voglio che passino quello che ho passato io”.
La cultura della violenza contro le donne persiste nelle nostre società: è un problema sociale, sistemico, perpetuato anche da individui non violenti. Cos’è e quali sono le soluzioni.
Lo stato dei diritti delle donne in Turchia è molto critico e le violenze di genere sono in costante crescita. Il ritiro dalla Convenzione di Istanbul non farà che peggiorare la situazione.
L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul, ma sul tema della violenza di genere ha ancora molto da fare. Lo dicono il rapporto Grevio e le ong.
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha ricordato quanta violenza ci sia ancora contro le donne nel mondo e l’importanza assoluta della Convenzione di Istanbul.
La Turchia abbandona la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Per il presidente Erdogan non difendeva la famiglia e favoriva le comunità Lgbt.
Il governo polacco si è detto contrario alla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne. Una scelta condivisa da Ungheria, Slovacchia e Turchia.