Per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, WeWorld ha pubblicato un report che cerca di far luce sulle cause profonde di questa violazione dei diritti umani.
La violenza contro le donne esiste, anche in Italia, e i dati lo dimostrano in modo incontrovertibile. Troppo spesso, però, passa sotto silenzio. C’è chi ha paura di denunciare, chi vorrebbe farlo ma non può contare su una rete di supporto, c’è anche chi subisce violenza ma non ne è pienamente consapevole. Proprio sugli aspetti culturali fa luce “La cultura della violenza. Curare le radici della violenza maschile contro le donne”, il nuovo studio realizzato dall’organizzazione non profit WeWorld insieme all’istituto di ricerca Ipsos.
I dati sulle molestie in famiglia e nel lavoro
Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è un’occasione proficua per riflettere non tanto sui casi di cronaca – che pure continuano a essere fin troppo frequenti – ma anche e soprattutto sulle cause profonde per cui questa violazione dei diritti umani è ancora così diffusa. Dal 2013 WeWorld le indaga sottoponendo un questionario a un campione rappresentativo della popolazione italiana.
Tra le donne interpellate per l’edizione 2021, quattro su dieci dichiarano di aver subìto molestie almeno una volta nella vita. Un ambito che si rivela molto critico è quello della famiglia e delle relazioni di coppia, dove la violenza si manifesta attraverso schiaffi e spinte (testimoniati dal 22 per cento delle intervistate), minacce o insulti (20 per cento), controllo del telefono, delle frequentazioni o dell’abbigliamento (rispettivamente 18, 17 e 14 per cento).
Anche sul luogo di lavoro è tutt’altro che raro che i diritti delle donne vengano ignorati o deliberatamente calpestati, con domande sulla propria intenzione di sposarsi o avere dei figli in sede di colloquio (riportati dal 27 per cento delle lavoratrici), apprezzamenti indesiderati verbali e non (26 per cento), domande invadenti e insistenti sulla vita privata (24 per cento), offese o battute legate al proprio genere (19 per cento).
L’indagine di WeWorld sulle cause della violenza
Percentuali già di per sé alte che, tuttavia, appaiono addirittura sottostimate quando le si mette a confronto con la realtà dei fatti. Eloquente il caso del catcalling, parola che indica i commenti indesiderati, i fischi e le avances ricevute per strada o in altri spazi pubblici. “Il catcalling è una molestia. Eppure, fra tutte le donne che sostengono di non essere mai state molestate, una su tre dice di aver subìto catcalling. Questo vuol dire che, anche tra le donne, non c’è una completa consapevolezza del significato di molestia”, spiega a LifeGate Elena Caneva, coordinatrice dell’area advocacy nazionale, policy e centro studi di WeWorld.
Un trend che si può riscontrare anche su molte altre domande. In ambito familiare e sentimentale, per esempio, fra tutte le donne che inizialmente sostengono di non essere mai state vittime di violenza, una su tre (per la precisione, il 34 per cento) successivamente rivela di aver vissuto un episodio che può essere inquadrato come molestia o violenza a pieno titolo.
La violenza contro le donne è un problema culturale
Questo ci dimostra che la violenza contro le donne è un problema innanzitutto culturale. “Bisogna cercare di rompere gli stereotipi di genere e la cultura maschilista e patriarcale che è ancora molto radicata nella società italiana”, ribadisce Caneva. Ancora nel 2021, il 22 per cento degli italiani ritiene che spesso la violenza sia frutto di un raptus momentaneo dell’uomo e il 15 per cento che sia dovuta al fatto che le donne sono esasperanti. Percentuali pressoché identiche a quelle del 2014, quando WeWorld aveva condotto la prima indagine su questo tema (all’epoca, le percentuali erano rispettivamente del 23 per cento e del 13 per cento). “Ancora non vi è consapevolezza del fatto che la violenza in realtà ha origine da dinamiche di potere e prevaricazione che vengono legittimate o tollerate”, continua Caneva.
Nonostante questi argomenti siano entrati nel dibattito mediatico, continua Caneva, c’è ancora uno “zoccolo duro” che si porta dietro inconsapevolmente fin dall’infanzia un substrato di stereotipi. Stereotipi che possono diventare controproducenti, condizionando addirittura l’esito dei processi: è ciò che accade quando, per esempio, le dinamiche familiari violente vengono inquadrate come “conflittuali”. “Il lavoro sulla cultura è lungo, i suoi risultati si vedono nel corso degli anni”, conclude Elena Caneva. Le strade che bisogna continuare a percorrere con dedizione sono due: “Formazione, soprattutto di chi si occupa quotidianamente di questi temi in ambito sociale e giudiziario. E informazione, informazione corretta e sempre, non solo il 25 novembre”.
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