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Perché si torna a parlare di violenza ostetrica in Italia, le testimonianze delle donne e i loro diritti
Si torna a parlare di violenza ostetrica, un tema che riguarda le politiche ospedaliere ma ha anche molto a che fare con la narrazione della maternità.
È lunedì 23 gennaio quando i quotidiani italiani iniziano a parlare di un doloroso fatto di cronaca, capitato nella notte tra il 7 e l’8 gennaio. Una ventinovenne, ricoverata all’ospedale Pertini di Roma, si addormenta mentre allatta il figlio appena nato. Il bimbo viene trovato morto, per cause che dovrà accertare la magistratura. Nell’arco di poche ore, nei social media succede qualcosa di spontaneo e inarrestabile. Centinaia, migliaia di donne iniziano a raccontare come hanno vissuto i delicatissimi giorni immediatamente successivi al parto. Le loro parole esprimono solitudine, stanchezza, impotenza e, soprattutto, una forte e trasversale solidarietà nei confronti della famiglia che sta attraversando questo dramma. C’è una frase, in particolare, che ricorre più delle altre. Potevo essere io. Poteva capitare la stessa cosa a me. Si torna così a parlare di violenza ostetrica, un tema che riguarda in prima battuta le politiche ospedaliere ma, se osservato con uno sguardo più vasto, ha molto a che fare con la nostra narrazione della maternità.
- Cosa significa violenza ostetrica
- Le raccomandazioni dell’Oms per un’esperienza di parto positiva
- Cosa sappiamo della violenza ostetrica in Italia
- Le neomamme hanno diritto a non essere lasciate da sole
- Cosa significa rooming in e qual è il giusto metodo
- Il benessere psicologico delle neomamme
- La carenza di personale degli ospedali italiani
- Come prepararsi a un’esperienza positiva di maternità
Cosa significa violenza ostetrica
Per prima cosa, è bene fare chiarezza su cosa si intende per violenza ostetrica, su quali sono le pratiche ritenute violente e su cosa emerge dalle statistiche, per quanto parziali. Non per fare di tutta l’erba un fascio, né tanto meno per creare allarmismi tra coloro che si apprestano ad avere un bambino; ma perché la conoscenza permette di valutare ogni situazione con la consapevolezza dei propri diritti.
Innanzitutto, parlare di violenza ostetrica non equivale a scagliarsi contro la figura professionale dell’ostetrica. In un senso molto più ampio, dentro questo termine ombrello ricadono comportamenti che hanno a che fare con la salute sessuale e riproduttiva femminile. Come ad esempio un’eccessiva medicalizzazione di condizioni di per sé fisiologiche, l’esecuzione di manovre o interventi chirurgici senza esplicito consenso, il mancato rispetto della libertà di scelta da parte della donna. Più o meno consapevolmente, qualsiasi professionista della sanità può incorrere in comportamenti classificabili come irrispettosi. E la fase in assoluto più critica è quella di gravidanza, parto e puerperio.
Le raccomandazioni dell’Oms per un’esperienza di parto positiva
“La gestione clinica del travaglio e del parto è ben compresa, ma non si presta abbastanza attenzione al fatto che le donne vivano questa esperienza in modo positivo, sentendosi sicure e a proprio agio”. A metterlo nero su bianco è l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), promettendo di “mettere al primo posto i bisogni psicologici ed emotivi delle partorienti”. Ma cosa significa, nel concreto? Come si fa a definire se una determinata pratica è corretta o ricade nella definizione di violenza ostetrica? A dare alcune risposte è un documento molto dettagliato, di oltre duecento pagine, in cui l’Oms specifica quali interventi sono raccomandati, quali sono sconsigliati e quali invece vanno eseguiti soltanto se ci sono motivi validi. Questo prima, durante e dopo il parto.
Si scopre così che l’episiotomia, cioè l’incisione chirurgica volta ad allargare il canale vaginale, non deve essere considerata come una pratica di routine durante il parto vaginale spontaneo. Eppure, in Italia fino al 2015 veniva praticata nel 24 per cento dei casi, quasi uno su quattro. La percentuale è scesa fino al 13,8 per cento nel 2020, ma viene comunque ritenuta “ingiustificata” dall’Istituto superiore di sanità. Tanto più perché c’è ancora una forte discrepanza territoriale: si va dal 2 per cento dell’Emilia-Romagna fino al 20 per cento di alcune regioni del sud. Laddove è necessaria, questa operazione chirurgica va praticata in anestesia locale e dopo la firma del consenso informato da parte della paziente. Tra le pratiche espressamente controindicate c’è anche la pressione manuale sul fondo uterino, meglio nota come manovra di Kristeller.
L’Organizzazione mondiale della sanità non si esprime soltanto sulle pratiche cliniche in senso stretto, ma anche sulla relazione che è bene instaurare con la paziente. Tra le raccomandazioni c’è infatti “una comunicazione efficace tra i prestatori di cure e le donne in travaglio, che faccia uso di metodi semplici e culturalmente accettabili”. Anche questo viene descritto come un aspetto critico, da tante donne italiane che condividono la propria esperienza attraverso i social.
Mi è stato fatto lo scollamento delle membrane […] senza avermi chiesto il permesso, senza avermi spiegato bene il perché, cosa comportava e cosa avrei sentito. Ho sentito un dolore atroce, sono uscita dall’ambulatorio ginecologico shockata e senza avere avuto spiegazioni chiare in merito.
Cosa sappiamo della violenza ostetrica in Italia
La cosiddetta violenza ostetrica, in sintesi, è un fenomeno complesso che abbraccia dimensioni fisiche e psicologiche. Per giunta non è detto che le pazienti siano pienamente consapevoli di quali pratiche sono normali e quali, invece, contravvengono alle raccomandazioni dell’Oms. Da questa considerazione è evidente quanto sia arduo elaborare statistiche.
Nel nostro paese se n’è occupato l’Osservatorio sulla violenza ostetrica Italia (OVOItalia), istituito sulla scia della campagna social #bastatacere del 2016. L’ente ha infatti commissionato all’istituto di ricerca Doxa una vasta rilevazione su un campione rappresentativo di cinque milioni di donne con un figlio di età inferiore ai 14 anni. Il 21 per cento del totale, cioè un milione di madri, dichiara di essere stata vittima di una qualche forma di violenza fisica o psicologica. Proprio per via di un’esperienza di parto traumatica, il 6 per cento avrebbe deciso consapevolmente di non cercare una seconda gravidanza. La principale esperienza negativa è l’episiotomia, subìta dal 54 per cento delle intervistate, nella maggior parte dei casi (il 61 per cento) senza consenso informato.
Per quanto riguarda invece la degenza in ospedale, il 27 per cento delle madri lamenta una carenza di sostegno all’allattamento e il 19 per cento la mancanza di riservatezza. Al 13 per cento è stata negata la terapia per il dolore, al 12 per cento la presenza di una persona di fiducia durante il travaglio. Un dato, quest’ultimo, che è inevitabilmente superato. La ricerca infatti risale al 2017, prima della pandemia.
Terzo giorno di ricovero, da sola con la bimba in stanza h24. Finalmente riusciamo ad addormentarci ma una puericultrice spalanca la porta dicendo: “Fammi vedere come allatti!”. Provo a protestare dicendo che mia figlia ha appena mangiato, risposta: “Senza la mia valutazione scritta, la bambina da qui non esce”. Per sfinimento l’ho attaccata al seno ma avevo le ragadi, sanguinavo e sono scoppiata a piangere dal dolore. Invece di aiutarmi, lei mi ha detto: “Sarà sempre così, allattare significa soffrire, ma tu ora sei una mamma e devi sopportare il dolore”.
Le neomamme hanno diritto a non essere lasciate da sole
Quando è scoppiata l’emergenza sanitaria, infatti, le visite negli ospedali sono state immediatamente bloccate. Dopodiché ogni struttura ha deciso quale regolamento interno applicare, anche per i reparti di ostetricia. Una delle scelte più comuni è stata quella di permettere la presenza del padre (o di un caregiver designato) solo per la fase del travaglio attivo e per lo skin-to-skin, cioè una o due ore dopo il parto. Regole molto più restrittive rispetto a prima, regole che spesso sono rimaste in vigore anche mentre venivano gradualmente smantellate le altre limitazioni legate alla pandemia. “Il Covid ha permesso lo scatenamento di una modalità di esclusione dei familiari dalla cura e dall’affiancamento dei pazienti che è assolutamente inaccettabile”, sottolinea Silvana Quadrino, psicologa, psicoterapeuta e counsellor, co-fondatrice dell’Istituto Change di Torino e autrice di diversi libri sulla relazione genitori-figli. Proprio la completa solitudine è una delle condizioni più sofferte dalle tantissime madri che hanno deciso di condividere la loro storia nei social media.
Io ho partorito nel 2021, da sola causa Covid, con cesareo non programmato dopo una brutta induzione. Il papà è entrato a vedere la bambina 2 ore alla nascita e poi non ho più potuto ricevere visite fino alle dimissioni (5°giorno). Credo sia stato uno dei momenti peggiori della mia vita… La prima notte mi hanno tenuto la bambina al nido perché è prassi in caso di cesareo, la seconda notte ho dovuto insistere per farla portare via da mezzanotte alle 5 perché morivo di dolore e non riuscivo ad occuparmi di lei… Mi sono sentita una cattiva mamma…
Eppure, la solitudine non deve essere la normalità. Il 10 marzo 2022 è entrata in vigore una legge che garantisce che le persone ricoverate in ospedali e residenze sanitarie possano ricevere visite quotidiane, per almeno 45 minuti (per la precisione, è una disposizione contenuta dal decreto legge 24 dicembre 2021 n. 221, convertito con legge 18 febbraio 2022 n. 11). Questo a patto che il visitatore o la visitatrice abbia fatto il vaccino per il coronavirus. Questa regola è valida per tutti; i direttori sanitari non hanno il potere di decidere diversamente. Una vittoria per la quale bisogna ringraziare l’associazione di promozione sociale Salvagente Italia.
Per le partorienti c’è un diritto in più, quello di essere sempre accompagnate da un caregiver a loro scelta (il padre del nascituro, oppure un’altra persona di fiducia) durante il travaglio, il parto e la degenza. L’Istituto superiore di sanità è molto chiaro in merito: il caregiver non è un semplice visitatore e la sua presenza è a sostegno di una “migliore esperienza di nascita”, come provano le evidenze scientifiche.
Cosa significa rooming in e qual è il giusto metodo
Tra gli argomenti più dibattuti, all’indomani del tragico episodio di Roma, c’è il fatto che la maggior parte degli ospedali ormai di prassi preveda il cosiddetto rooming in. Ciò significa che il neonato non viene custodito nella nursery dell’ospedale ma condivide la camera con la mamma durante la degenza, 24 ore su 24. Il rooming in non è violenza ostetrica, ma una pratica che è stata incoraggiata dall’Oms in quanto favorisce l’attaccamento madre-figlio e l’avvio dell’allattamento al seno. Oltretutto, riduce il rischio di contrarre infezioni neonatali che si diffondono più facilmente in un ambiente come il nido.
Se però la neomamma viene lasciata da sola, senza nemmeno il supporto del compagno o di un’altra persona di sua fiducia, il rooming in rischia di essere vissuto come un’imposizione. Ed è questo che si legge, nelle migliaia di testimonianze spontanee condivise attraverso i social all’indomani della tragedia di Roma.
Non dimenticherò mai lo sguardo che mi fece quando verso le 3 di notte le chiesi di portarla al nido un paio d’ore la prima notte post cesareo d’urgenza, post 12 ore di travaglio… Le dissi che dormiva solo nel letto con me ma che temevo di farle del male dormendo e che mi dispiaceva continuare a chiedere il suo aiuto per rimetterla in culla post allattamento. La sua risposta fu: “E non dorma!”. Se mi fosse successo con la seconda mi avrebbe trovato più pronta a chiedere di parlare con un responsabile, in quell’occasione rimasi in silenzio e lei andò via, lasciandola nel letto con me e io ovviamente cercai in tutti i modi di non dormire.
Quello che si contesta è che una persona provata dal parto, o letteralmente impossibilitata ad alzarsi dal letto (è il caso di quel 22,7 per cento di donne che hanno fatto ricorso al taglio cesareo), non possa essere obbligata a prendersi cura di un neonato 24 ore su 24 solo con le proprie forze. E infatti, non dovrebbe andare così. Anche su questo sono stati condotti studi scientifici, studi che sostengono – per esempio – che il personale sanitario debba assicurarsi che la neomamma riesca a dormire a sufficienza, perché anche questo velocizza il suo recupero. Intervistato dal Messaggero, Antonio Lanzone, direttore dell’area ostetrica del Policlinico Gemelli di Roma, chiarisce due cose: che il rooming in non può essere obbligatorio e, in ogni caso, prevede la presenza di un accompagnatore.
“La coppia madre-figlio non necessita solo di assistenza clinica, ma di sostegno anche emotivo, psicologico, di empatia. Il problema è che molti punti nascita non hanno sufficiente personale per garantire un servizio di questo tipo. Non è proprio previsto a livello organizzativo. Le istituzioni devono rendersene conto”, dichiara Nicola Colacurci, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia, intervistato da Maria Cristina Valsecchi.
La notte successiva [al parto], essendo sveglia da due giorni, ero talmente stanca che avevo bisogno di dormire, stavo letteralmente crollando. Vado alla nursery, molto affollata, e quando finalmente sono riuscita a parlare con un’ostetrica, a cui avevo gentilmente chiesto se potessero tenere la bimba almeno un’oretta per farmi riposare (spiegando del parto la notte precedente ecc.) ha alzato le mani al cielo e ha detto: “Queste donne fanno i figli e poi li vogliono subito mollare”. Ricordo di essere tornata in stanza con la culla piangendo, in quel momento non avevo la forza per ribattere.
Il benessere psicologico delle neomamme
Ma cosa significa prendersi cura del benessere psicologico ed emotivo delle neomamme? A chiarirlo è la psicologa, psicoterapeuta e counsellor Silvana Quadrino. “Non si chiede né all’ostetrica né al ginecologo di diventare gli psicologi della paziente. Si chiede solo di sviluppare competenze relazionali e comunicative che dovrebbero fare parte di tutti i mestieri di cura. Quando formo i professionisti sanitari, quello che cerco di fare è affinare la loro capacità di entrare in contatto con la specificità di ogni paziente; una competenza che, lo dico in modo un po’ brusco, è stata cancellata dalla medicalizzazione del parto. Il professionista sanitario, se non ha ricevuto una formazione su come gestire le proprie emozioni in modo corretto nei confronti dalla paziente, si fa guidare solo dall’urgenza. Sono quarant’anni che faccio formazione, ed è ancora troppo poco”.
Supportare le donne, durante e dopo questo momento così delicato, significa anche ascoltarle. Se ne occupa per esempio lo Sportello di ascolto del parto traumatico, fondato per iniziativa della pediatra Carla Tomasini e gestito da una psicoterapeuta, Arianna Buchi, e un’ostetrica, Annarita Coppola. “Questo sportello non ha l’obiettivo di accusare nessuno, ma vuole far sì che le persone si sentano ascoltate. Poter parlare della propria esperienza e delle proprie emozioni è il primo passo per rielaborarle. Per questo coinvolgiamo non solo le mamme ma tutto il sistema familiare”, spiegano. “Il fatto di poter essere ascoltate toglie anche il senso del giudizio che è molto presente in chi ha vissuto queste esperienze: ci si sente sbagliate, inadeguate, in colpa. Dare voce aiuta tutti noi a interrogarci su cosa sta accadendo e su cosa possono fare il sistema sanitario, la famiglia, la società e la cultura. Oggi le testimonianze sono tante, troppe, e la difficoltà non è soltanto delle famiglie ma anche degli operatori. Si pensa troppo spesso che il parto sia puramente fisico e quindi le donne si sentono sbagliate perché il corpo non ha retto. In realtà, mente e corpo viaggiano insieme e ogni situazione va considerata nella sua unicità. Per crescere un bambino serve un villaggio: bisogna fare rete e ascoltare i bisogni di ognuno. Coinvolgendo anche i professionisti sanitari che, a volte, si trovano a prendere decisioni in pochissimo tempo senza la possibilità di conoscere chi hanno di fronte. Fare squadra è fondamentale per accogliere chi viene al mondo, facendosi carico anche della parte emotiva”.
La carenza di personale degli ospedali italiani
Esistono linee guida internazionali, esistono questioni culturali, ma è anche vero che l’organizzazione di un ospedale è la logica conseguenza delle risorse economiche di cui dispone. L’Italia è il paese in cui, stando ai dati ministeriali rielaborati dall’associazione CittadinanzAttiva, ci sono in media 4.132 donne per ogni ginecologo ospedaliero, con picchi di oltre 9mila nelle province di Viterbo e Reggio Calabria e 18.460 in quella di Macerata. La provincia di Caltanissetta è fuori classifica con un ginecologo ogni 40mila donne, un dato dieci volte peggiore rispetto alla media nazionale. La situazione migliore è quella di Roma, dove per ogni ginecologo ospedaliero ci sono 2.292 donne.
Le ostetriche invece sono quasi 21mila. Considerato che circa il 20 per cento ha preferito trasferirsi all’estero o è in pensione, la Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica (Fnopo) – fonte di questo dato – sostiene che il numero debba all’incirca raddoppiare per coprire il reale fabbisogno. Tanto più perché le linee guida dell’Oms prevedono la presenza di un’ostetrica per ogni donna in travaglio; un traguardo che appare ancora lontanissimo. I bambini e le bambine nati nel 2021 sono oltre 400mila; la media aritmetica è di 1.095 al giorno.
Come prepararsi a un’esperienza positiva di maternità
La violenza ostetrica è un tema delicato. Delicato per chi ha subito condotte, fisiche o verbali, lesive o poco rispettose. Delicato per chi in ospedale ci lavora, tra turni massacranti ed enormi responsabilità, e si sente sotto accusa. Delicato anche per chi sta pianificando o attraversando una gravidanza e non può restare indifferente a racconti così forti. Una categoria, quest’ultima, spesso dimenticata dalla cronaca giornalistica e dal dibattito sui social media. Per questi futuri genitori, il rischio è quello di farsi risucchiare nel vortice dell’infodemia in cui le informazioni si accavallano, diventando sempre più confuse e inevitabilmente ansiogene. Cosa fare, in questo caso? Esiste un modo per tutelarsi?
L’esperienza di diventare genitore, di per sé, è unica e imprevedibile. Nel bene o nel male, non si può programmare tutto. Quello che si può fare, però, è acquisire consapevolezza dei propri diritti. Qualsiasi ospedale o clinica è dotato di un sito internet con tutte le informazioni di base e di un ufficio relazioni con il pubblico (urp), dedicato proprio a tutti gli utenti che hanno bisogno di chiarimenti o vogliono sporgere un reclamo. Nella scelta di un punto nascita, dunque, si possono valutare anche i servizi offerti alla partoriente e le regole in vigore per il ricovero. Molte grandi strutture si sono lasciate alle spalle le restrizioni legate alla pandemia e sono tornate a garantire l’accesso a un caregiver, purché indossi una mascherina ffp2. Laddove questa presenza non sia prevista, si può contattare tramite pec la direzione sanitaria per esigere il rispetto della normativa. La dottoressa Silvana Quadrino dà un altro consiglio: “Cercare il contatto con un’ostetrica fin dai primi mesi di gravidanza, appoggiandosi all’ospedale o a un consultorio, e costruire con lei una buona relazione”.
La dottoressa Quadrino ci tiene a un’ultima considerazione, questa di carattere più generale. “È vero che c’è un mito del sacrificio della madre. Ma è anche vero che, in altre epoche, una neomamma non era da sola. La cultura del sacrificio è impastata con il concetto di maternità, è aggravata dalla solitudine e anche da un’eccessiva preoccupazione per il futuro. Durante le consulenze con i genitori, noto questo pervasivo senso di colpa anticipatorio: bisogna fare la cosa giusta, altrimenti il bambino ne porterà le conseguenze per tutta la vita. I genitori non si sentono più autorizzati alla naturalità della relazione con il bambino, ma la verità è che nessuno può imporre dei comportamenti: si va per prove ed errori, ma bisogna sempre ascoltare sé stessi. La cosa fondamentale è che la mamma stia bene, che non sia stremata o arrabbiata, che si senta autorizzata a difendersi da ciò che le appare eccessivo. La capacità di adattare ciò che si fa a ciò che si sente di fare non è egoismo, è cura di sé”.
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