Pezzi unici che conservano la patina del tempo e la memoria della loro storia con legni e metalli di recupero: è il progetto di design sostenibile di Algranti Lab.
Virginio Briatore, filosofo del design: gli oggetti hanno molto da raccontare, e lo fanno attraverso il design
Quando acquistare un oggetto usato assume più valore? Virginio Briatore filosofo del design e attento osservatore dei linguaggi contemporanei, ce lo racconta attraverso un’analisi della cultura odierna e degli oggetti.
Un talento, quello di Virginio Briatore, che nasce dalla letteratura, dalla poesia e dai classici e che ad un certo punto si intreccia, un po’ per caso, con il mondo del design, per non separarsene più. Dopo un periodo ricco di esperienze e viaggi in giro per il mondo che lo portano ad incontrare e a conoscere culture e linguaggi diversi, verso la fine degli anni 80’, in Salento, Briatore entra in contatto con un giovane team di fotografi, creativi e grafici e inizia a scrivere di design nutrendosi e ampliando la sua conoscenza. Nel 1990 si trasferisce a Treviso dove inizia a collaborare per l’agenzia Umbrella e per la rivista MODO. Intervistando e conoscendo molti personaggi provenienti da diversi ambiti artistici, (dall’architettura alla sociologia, dal design all’Imprenditoria), incentrerà gradualmente la sua vita professionale sul design occupandosi di diverse attività: dalla consulenza, alla scrittura fino alla direzione creativa.
Parliamo del valore e del fascino degli oggetti usati, della storia che si portano dietro, del valore e dei nuovi scopi che portano nella nostra quotidianità. È vero, secondo lei, che acquistare un oggetto usato vale più che acquistare lo stesso oggetto nuovo?
Se un oggetto è bello, rimane bello nel tempo; un lampadario etrusco è ancora un bel lampadario, mentre una brutta torcia o quegli orrori di scrivanie metalliche che si usavano un tempo sono brutte ancora oggi. Le cose che hanno una loro estetica, una loro cultura e dei bei materiali soprattutto, come un tavolo di legno chiaro rimasto incontaminato, oppure oggetti iconici del design come la lampada Nara di Vico Magistretti o la sedia di Charles Eames, tutti quegli oggetti che si avvalgono di vita vissuta, sono oggetti che invecchiano bene perché sono stati pensati e costruiti con materiali durevoli e con delle estetiche equilibrate. Se un oggetto è piaciuto ad altri prima di te, significa che la scelta l’ha già fatta qualcuno prima di te. Se poi è vissuta in un contesto affascinante, contribuisce a portare un tocco di narrazione in più. Per questo motivo, spesso, vale la pena acquistare un oggetto usato rispetto ad uno nuovo, incontaminato.
Secondo lei è diventata una tendenza in certe élite culturali acquistare oggetti usati anziché nuovi?
La realtà è che gli esseri umani sono legati alla storia e al tempo. Oggi la cultura contemporanea ha spazzato via tutto: gli oceani sono pieni di spazzatura, i ghiacciai si stanno estinguendo: in un clima così avverso, improvvisamente le cose di poco spessore acquistano valore anche se sono banali.
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I temi dell’upcycle e e del recycle stanno diventando, in questo periodo di crisi, sempre più centrali. Vuoi per un recupero delle materie prime, che si sceglie di non sprecare, vuoi perché sempre più spesso ci ritroviamo a fare i conti con vecchi oggetti abbandonati che decidiamo di vendere. Quanto è importante riciclare?
Non bisogna confondere il lifestyle con il riciclo. Le risorse del nostra pianeta non sono infinite e quindi dobbiamo sempre preoccuparci di tutto ciò che usiamo, tenendo conto della vita dell’oggetto dall’inizio alla fine. Dal momento in cui vado a tagliare un albero per ricavarne del legno al fine di realizzare un mobile, devo abituarmi a domandare a me stesso cosa succede quando il mobile finisce. Da qualche anno non si fa che parlare di circular economy, quando molti di noi fino ad oggi non si erano mai preoccupati delle generazioni future, degli oceani, dello scioglimento dei ghiacci; fortunatamente la consapevolezza sta diventando sempre più necessaria, fondamentale, ed è quindi importante progettare in questo senso. Molti degli oggetti tradizionali si evolvono in quest’ottica, per esempio, i pannelli. I pannelli solitamente sono fatti di truciolato, ovvero triturato di legname nuovo e segatura; oggi ci sono aziende specializzate, che prendono i pallet che rappresentano milioni di tonnellate di legno che ogni anno vengono buttate via, e li recuperano riciclandoli, pulendoli e trasformandoli in pannelli. In Sardegna ci sono imprese come quella fondata da Daniela Ducato, Casa Verde Co2.0, che oltre a realizzare materiali pluripremiati ad alta tecnologia industriale, cioè realizzati senza una goccia di petrolio, ha dato vita anche ad un protocollo che impegna gli imprenditori a nuove regole nel campo della sostenibilità.
Quello del recupero delle risorse, è un argomento ecologico meraviglioso e l’essere umano gioca un ruolo fondamentale in questo processo: ci sono molti oggetti che durano nel tempo, come i due ombrelli che aveva mio padre e che sono durati tutta la vita (oggi invece ne cambiamo uno al mese). Dipende anche da noi la vita di un oggetto, dall’uso che ne facciamo e da come lo conserviamo: per esempio un trapano, basta un nulla che si rompa; se sei capace di ripararlo, continua a vivere nel tempo; se invece non sei in grado di aggiustarlo, in genere lo butti. Il rifiuto è umano, lo spreco anche. Ritengo quindi che l’economia del riciclo sia una buona economia e uno sforzo mirato a limitare il consumismo esagerato e l’ossessione alla crescita.
Quale dev’essere il ruolo del designer nella progettazione?
Il designer deve ragionare con le aziende, aiutarle a capire la profondità e la dimensione della bellezza e della funzionalità dell’oggetto; se ci sono, si vedono. Un cucchiaio di legno è bello e funzionale, un po’ come il corpo umano, è bello e funziona. Un tappeto è bello ed è funzionale, anche se la parte più estetica, narrativa ha la maggioranza (questo a causa dei pavimenti riscaldati che ormai lo rendono un oggetto puramente estetico e non funzionale). Bisogna ragionare di volta in volta, le due cose vanno di pari passo e sono legate al buon senso. Anche gli oggetti che non funzionano ma che sono delle esagerazioni, diventano ridicoli tanto da piacere.
Quando l’oggetto si porta dietro una storia da raccontare? E come fa a comunicarla?
Su questo argomento consiglio di leggere i libri di Ettore Sottsass, tra la straordinaria varietà di arte che ha fatto: in questi libri, Sottsass descrive i suoi lavori a partire dagli anni 40’ fino all’inizio di questo secolo, lavori legati alla sua vita, ai suoi amori… Spesso Sottsass si sofferma sul mondo degli oggetti spiegando al lettore dove va ricercato il valore. Si parte da una narrazione mitologica: dal cucchiaio all’iPhone, sono strumenti che hanno mutato la vita dell’essere umano e che sono riconoscibili. Quando un oggetto è riconoscibile, si tratta di un’icona, un qualcosa che non puoi imitare o riprodurre. L’icona emerge da un contesto infinito di oggetti senza storia come un’oasi nel deserto. Lì capiamo che qualità deve avere un oggetto: una componente mitologica, estetica, materiale, e soprattutto deve dare una lettura del periodo in cui viviamo. La Vespa, per esempio, è un’icona che dà una lettura del modo in cui vivevamo negli anni ’40, parla di un periodo della storia, delle abitudini dell’uomo in quel periodo. Come lo fa? Grazie al suo design, ovvero il linguaggio con cui l’oggetto ci parla.
L’oggetto usato, snaturato dal suo uso iniziale, come lo considera?
Se viaggi e visiti città più povere, gli oggetti si trasformano in virtù del bisogno. Se io devo tirare su i piselli ma non voglio l’acqua, uso una ramaiola. Nelle culture povere non viene buttato via niente. Quando in India scendi dal treno con una bottiglietta, i bambini guardano cosa ne fai, se ha il tappo si azzuffano per prenderla, perché pensano ai mille utilizzi che ne possono fare. Come una molletta, anche la bottiglietta è un oggetto multitasking, che si adatta in funzione del bisogno; per questo è anche bello vedere gli stessi oggetti in altri contesti, purché non sia una forzatura, va capito il contesto di volta in volta che è riciclo, lifestyle.
L’ultima domanda, Briatore la rivolge scherzosamente prima a me. In parte rispondo, in parte mi aiuta lui a completare la risposta: che cosa fa un filosofo del design?
Auto definendomi filosofo del design, cerco di rispondere principalmente a due domande: da una parte, cerco di aiutare a capire l’importanza che un designer riveste nelle nostre vite. Dal primo all’ultimo momento della vita degli esseri umani, il design degli oggetti non ci abbandona mai; se lo capisci e riesci a interpretarlo, riesci davvero a goderne e apprezzarne di più il valore. Per esempio: se un orango tango entra nella Cappella Sistina, dopo poco tempo se non vede niente muoversi decide di andarsene; se invece io, che ho studiato, mando via tutti i visitatori, mi sdraio per terra e mi metto a osservare, prima che la veda tutta e capisca forme e significati possono trascorrere mesi; rimani lì mesi e dalla gioia impazzisci. Il design è la moda che tutti gli oggetti hanno, da una libreria a un sito internet. La seconda domanda a cui cerco di rispondermi è la seguente: ma che cosa ce ne facciamo di tutti questi oggetti? Solo entrando in un bagno, potremmo contare 50 barattolini di prodotti diversi, tra flaconi di profumo, shampo, saponette… Cosa ce ne facciamo di questo “delirio” di oggetti, e perché? Dobbiamo sforzarci di trovare un equilibrio tra il pieno e il vuoto; quando lo troverò, sarà mia premura comunicarvelo.
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