Se dovesse arrivare l’ok del Senato in Francia passerà un disegno di legge che prevede una tassa per i produttori di abbigliamento fast fashion.
La viscosa è di origine vegetale, ma ha implicazioni sull’ambiente
La viscosa è un materiale molto simile al poliestere, ma ricavato dalla cellulosa e per questo presentato come alternativa green. La realtà però è diversa.
- La viscosa è un materiale dalle qualità molto simili alla seta ricavato dalla polpa di legno, bambù o dal cotone e, per questo, spesso presentato come eco-friendly.
- La realtà però è diversa: il processo per trasformare la materia prima di origine vegetale in filato coinvolge agenti chimici molto aggressivi che sono dannosissimi sia per l’ambiente che per i lavoratori coinvolti nel processo.
- La produzione di viscosa determina inoltre a livello mondiale l’abbattimento di quantità enormi di alberi, con tutto ciò che ne consegue in termini di danneggiamento alla biodiversità.
Il primo passo per costruire un guardaroba che possa definirsi veramente sostenibile è quello di conoscere i materiali di cui sono fatti gli abiti che scegliamo di comprare. Da dove provengono? Quanto è impattante il loro processo produttivo a livello ambientale? Si possono riciclare? Quali sono le conseguenze della loro dispersione nell’ambiente? Tutte queste domande sono utili per orientarsi di fronte all’etichetta di un prodotto tessile.
Abbiamo già parlato di quanto il poliestere possa essere dannoso per l’ambiente, ma cosa dire della viscosa, spesso presentata come la sua alternativa plant-based? Per capire se possa essere un’alternativa virtuosa o no bisogna analizzare il processo produttivo perché questa fibra tessile è sì ricavata dalla cellulosa, ovvero dalla polpa del legno, ma è anche trattata con agenti chimici aggressivi e molto dannosi per la salute. Quindi sì, stiamo parlando di una fibra di origine vegetale che, pur essendo molto simile al poliestere per sensazione tattile e prestazioni, non ha nulla a che vedere con il petrolio ma, nonostante venga spesso classificata come una versione più rispettosa dell’ambiente e potenzialmente sostenibile, in realtà è anche peggio.
Da dove viene la viscosa?
La storia della viscosa, o del rayon se lo vogliamo dire alla anglosassone, inizia verso la metà dell’Ottocento, quando l’industria francese entra in crisi per via di una malattia che colpisce i bachi da seta, danneggiando la produzione del prezioso tessuto. A quel punto fu tirato in causa Louis Pasteur, proprio lui, l’inventore della pastorizzazione e dei vaccini per come li conosciamo oggi, per trovare una soluzione e risollevare l’industria francese. Quella soluzione si chiama viscosa ed è, in sostanza, una seta riprodotta in laboratorio.
La viscosa viene prodotta sciogliendo la cellulosa (ricavata dalla polpa di legno, bambù o del cotone) in un processo che coinvolge idrossido di sodio e disolfuro di carbonio. Una volta che il materiale viscoso risulta dissolto in una soluzione e lasciato riposare, quello che se ne ottiene viene poi trasformato nuovamente in cellulosa fibrosa, alla quale può essere data la forma di fili utilizzando acido solforico. L’intero processo è piuttosto economico e le fibre che se ne ottengono sono abbastanza versatili da poter essere utilizzate in sostituzione di altri tessuti, dal cotone alla seta.
Quanto è sporca la moda?
Il fatto che la viscosa origini da polpa di legno, bambù o cotone fa sì che venga spesso presentata come alternativa naturale alla seta e soprattutto al poliestere, ma la realtà dei fatti è che i chimici necessari per ottenerla sono estremamente dannosi per la salute. Mentre la viscosa è sicura quando raggiunge i consumatori, grazie ai numerosi lavaggi a cui è sottoposta prima di raggiungere il mercato, i lavoratori delle fabbriche sono ad alto rischio di effetti neurologici, danni ai nervi, malattie cardiache e ictus. Circostanza confermata anche dal National Center for Biotechnology Information, secondo cui uno degli effetti sarebbe anche la degenerazione delle facoltà mentali dei bambini che vivono nelle vicinanze delle fabbriche prima ancora che raggiungano l’adolescenza.
Il 63 per cento della viscosa a livello mondiale viene prodotta in Cina e in generale ci sono moltissime fabbriche in Asia, dove le leggi rispetto all’utilizzo dei chimici sono meno stringenti. Stando a un rapporto pubblicato dalla Changing markets foundation, in Indonesia gli operai di una fabbrica di viscosa sono stati trovati a lavare via le sostanze chimiche dai tessuti proprio nel fiume mentre ci sono abbondanti prove che la produzione di questa fibra in Cina stia avvelenando tanto i lavoratori quando i corpi idrici locali.
In India le fabbriche scaricano direttamente negli affluenti del Gange, avvelenando intere famiglie. Può capitare che gli operai impazziscano per via del contatto prolungato con il disolfuro di carbonio, sostanza che è anche responsabile dell’insorgere di malattie ai reni, infarti e ictus. Altri agenti utilizzati nella produzione, come l’idrossido di sodio, l’acido solforico e l’idrogeno solforato possono essere responsabili di danni agli occhi, alterazioni neurocomportamentali ed ustioni cutanee.
Non solo prodotti chimici
Non sono solo le sostanze chimiche tossiche a rendere problematico la viscosa, ma anche la materia prima necessaria per realizzarla. Più di 200 milioni di alberi vengono abbattuti ogni anno tra Indonesia, Canada e Brasile per essere trasformati in tessuto cellulosico, come reso noto dal movimento ambientalista Canopy, un’organizzazione senza scopo di lucro nata con lo scopo di proteggere le foreste. Questo ha conseguenze particolarmente pesanti in Indonesia, dove gli animali in via di estinzione e gli indigeni vengono costretti a lasciare le terre.
Change maker
Changing market foundation, oltre al rapporto Dirty Fashion, nel 2018 ha anche promosso una campagna di azione a livello globale, per stimolare la produzione responsabile di viscosa. Collaborando con 100 tra marchi e rivenditori, nonché con i più importanti produttori di viscosa, si impegna a valutare e validare i loro piani di produzione responsabile, gli impegni e i progressi sulla trasparenza. Il risultato è che quattordici grandi marchi e rivenditori si sono impegnati pubblicamente a ripulire le loro catene di approvvigionamento dalla viscosa mentre i produttori, a cui fa capo il 50 per cento della quota di mercato globale, si sono impegnati a migliorare la produzione e hanno iniziato a investire in processi di produzione a ciclo chiuso in linea con i mercati in evoluzione.
Perché si ottenga un cambiamento vero è infatti importante che tutta l’industria sia coinvolta, i produttori rispondono a una specifica domanda, che origina dai brand, attratti dalle proprietà di un materiale economico, duttile e capace di imitare le prestazioni di molte fibre naturali. È importante agire sia sulla domanda di viscosa, ma anche sulla ricerca e sviluppo: esistono infatti delle realtà che producono questo materiale attraverso metodologie non impattanti.
Sempre Canopy ha stilato un rapporto, dopo aver analizzato diversi marchi a livello globale, e riscontrato come stiano 500 di questi (dati aggiornati al 2023) si stiano orientando verso fornitori di viscosa green. Stella McCartney è stato il primo grande player del lusso a muoversi in questa direzione e ben presto è stata seguita anche dai colossi dello shopping fast fashion Zara e H&M, ma anche Levi’s, Ralph Lauren, e tutto il gruppo Vf (società che controlla brand come The North Face, Timberland, Vans, Eastpak e molti altri).
Esistono poi piccole realtà come Lenzing, che produce una versione più ecologica e più morbida della viscosa perché utilizza un processo a ciclo chiuso che non produce tossine nell’ambiente. Detto questo cosa cercare sull’etichetta per essere sicuri di stare comprando cellulosa che non sia stata prodotta danneggiando l’ambiente? Certificazioni come Oeko-tex e Bluesign, ad esempio, certificano che il tessuto che stiamo comprando sua stato prodotto in strutture che adottano le necessarie precauzioni in termini di sicurezza ambientale.
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