Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
Visto da noi: Joe Cocker
Un Palasharp di Milano non troppo pieno. Un’attesa forse troppo lunga. Ma il bilancio della serata è assolutamente all’insegna del blues. Quello vero. Coloro che hanno dubitato su un rientro on stage dignitoso del grande Joe Cocker, seguendo le voci che lo davano non in buone condizioni fisiche, hanno avuto torto. Sebbene la sua silhouette
Un Palasharp di Milano non troppo pieno. Un’attesa forse troppo
lunga. Ma il bilancio della serata è assolutamente
all’insegna del blues. Quello vero. Coloro che hanno dubitato su un
rientro on stage dignitoso del grande Joe Cocker, seguendo le voci
che lo davano non in buone condizioni fisiche, hanno avuto torto.
Sebbene la sua silhouette lasci comunque e ovviamente trapelare
età e vizi, la sua voce non ha tradito le aspettative del
pubblico fedele. Una platea esultante e incalzante per una
vocalità sempre e ancora calda, potente e immutata.
Trascinante.
Colui che salì sul palco di Woodstock, offrendo a migliaia
di persone una performance degna di rimanere negli annali della
storia della musica, ha proposto ai suoi fan un mix ben bilanciato
tra vecchio e nuovo, tra grandi classici e qualche nuova perla dal
suo ultimo lavoro Hard Knocks. Diciannove pezzi in tutto, il
concerto apre il sipario con una serie di riprese che lo mostrano
nel backstage. E si spalanca con il suo ingresso sostenuto da
applausi e ovazioni.
Joe Cocker è accompagnato da due coriste e da una band che
accelera senza tregua sul pedale del buon vecchio blues. La nuova
Get On fa da apripista al lungo live. Ma il primo e tumultuoso
boato arriva con When The Night Comes, che segue Feeling Alright e
The Letter.
E già ci si accorge con stupore che il Leone di Sheffield ha
ancora grinta e timbro. E che i tanti strumentisti sul palco non
sono un trucco, conosciuto e spesso abusato da diversi “mostri
sacri”, per mascherare incertezze o debolezze vocali. Dopo la
neonata Unforgiven, Cocker spara a raffica sul pubblico una serie
ininterrotta di brani storici, immancabili, indimenticabili: Summer
In The City, Simple Thing, la delicata You Are So Beautiful e Up
Where We Belong, duettata con una delle prestanti coriste.
E dopo tanta dolcezza e sentimento, ancora ruggiti e riff vocali
graffianti, tra cui la tanto sospirata cover dei Beatles Come
Together. Gusto per la scelta di N’oubilie jamais, gioiello
nascosto, spesso sottovalutato e ora finalmente recuperato. Ed
è proprio dopo la breve interruzione che Cocker riparte
ancora più impietosamente combattivo: You Can Leave Your Hat
On, Unchain My Heart e With A Little Help From My Friends che
riporta animi e nostalgie indietro di oltre quarant’anni. Un
trittico che muove contro lo scorrere inesorabile del tempo. E
contro il perire di tutte le cose.
Queste note sono più vive che mai. Camminano. Si rincorrono
su un’acida introduzione all’organo Hammond. E quando arriva il
fatidico momento del growl, ruggito famoso tanto quanto quello
arrabbiato della Joplin, l’intero Palasharp spalanca bocche e
braccia accogliendolo in un unico grande ed esplosivo urlo di
complicità. Primo bis: She Came In Through The Bathroom
Window e Cry Me A River. Joe saluta e stringe qualche mano. Ma non
basta. Ritorna sul palco e questa volta a chiudere definitivamente
gli occhi alla notte è Thankful. Un taciuto ringraziamento.
Un sorriso e la band che copre il sipario con le ultime note.
Emanuela Crosetti
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